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giovedì 26 novembre 2009

Beyond the Sunset - I (di Erica APOLLONI*)

Parte Prima

Da una settimana, ormai, Pietroburgo era nella morsa di una lunghissima bufera di neve; mancavano solo otto giorni a Natale, e nonostante il maltempo per le strade si vedeva arrancare gente indaffarata avvolta in pesanti pellicce e cappelli. Appena fuori dal centro, la neve arrivava alle ginocchia, rendendo difficile andare avanti; nelle strade principali era stata schiacciata in modo da potervi camminare sopra senza sprofondare, ma se avesse continuato a nevicare anche quella notte, già all’alba sarebbe stato difficoltoso spostarsi.
Era bello, però, attraversare le strade buie e gelide osservando le numerose finestre illuminate; almeno così la pensava Dralbij, avanzando sotto la tempesta, pensando al caldo della soffitta che divideva col fratello Griša: già pregustava la cucina calda, dove avrebbero dato gli ultimi ritocchi al cibo preparato per quella sera. Aveva compiuto diciannove anni lo scorso mercoledì, e aveva organizzato la festa il sabato sera in modo da essere libero dagli impegni universitari. Però, se almeno si fosse messo il colbacco! Sentiva il vento gelido graffiargli crudelmente il viso e scorrergli tra i corti capelli biondi, e gli occhi gli lacrimavano copiosamente. Strinse le palpebre per trovare la chiave del portone, e quando finalmente si fu chiuso alle spalle la porta dell’edificio, si lasciò andare ad un profondo sospiro.
I suoi scarponi gocciolavano neve sciolta anche dopo che li ebbe asciugati sul tappeto, così iniziò a salire le scale fino all’ultimo piano; se li tolse insieme al pesante mantello di foggia ottocentesca che indossava e aprì la porta, lasciandosi investire dall’aria tiepida.
Griša era appollaiato sul davanzale interno della finestra, e non sembrava averlo sentito arrivare: osservava i tetti coperti di neve che si stendevano là fuori, e di tanto in tanto alzava gli occhi scuri a seguire con lo sguardo qualcuno dei fiocchi bianchi che, simili a fiori fradici, andavano a morire su un uniforme strato immacolato, soli. Tra le mani teneva un taccuino, sul quale annotava distrattamente qualche parola. Avvicinandosi un po’, Dralbij vide che su quel volto sempre velato da una certa malinconia brillava la traccia di una lacrima.
Proprio in quel momento Griša parve tornare in sé e finse di sbadigliare per potersi asciugare il viso senza dover dare spiegazioni: «Già di ritorno?» osservò «Pochi minuti fa ha telefonato una tua amica: voleva sapere a che ora è la festa di stasera. Alle nove, vero? Sono già le sette, è meglio iniziare a preparare».
Era sempre così, lui: tanto mesto e nostalgico quand’era solo, quanto spiritoso in compagnia. Era un trasformista, abituato a fare della sua vita un immenso palcoscenico, e sempre pronto ad indossare la maschera giusta a seconda delle circostanze. Era raro poter avere la possibilità di conoscerlo per quello che era realmente: un romantico sognatore, un poeta, un musicista e uno scrittore pronto a mettere tutta la sua arte nelle mani di una sola persona. Una persona che aveva perduto da ormai più di un anno, e che non aveva mai dimenticato davvero.
Anche Dralbij, a volte, amava la sua solitudine; ma preferiva di gran lunga la vita mondana e disinibita, la vita del croupier di bordelli e casinò. E soprattutto, non credeva nell’amore. «Ho preso il mio cuore e l’ho messo da parte» si compiaceva di dire «E adesso posso giudicare freddamente la maggior parte delle persone in base a quanto mi possono essere utili, posso giocare a mio piacimento con i loro sentimenti e decidere quando e come liberarmene». Alla lunga, anche Griša si era quasi completamente convertito alle sue idee: troppe delusioni, troppi sentimenti traditi. Molto meglio restare freddi e insensibili, si risparmiavano tante giornate di tristezza.
Ma non era il momento di pensare al passato! Voleva incominciare una nuova vita con l’anno nuovo, anche se si chiedeva cosa ancora potesse riservargli il futuro. Così, dopo aver aiutato il fratello a dare l’ultimo ritocco al salotto, si sedette sul divano con la chitarra tra le braccia: la musica l’aveva sempre aiutato ad ingabbiare tutte le sue malinconie. Anche Dralbij lo raggiunse subito dopo, e cominciò a cantare con quella sua voce limpida e sicura, complemento ideale alla sua: insieme avevano formato il loro duetto, gli Shining Night, per cui disponevano di un buon repertorio di brani.
Stavano ancora provando, unendo le loro voci in un armonia levigata e priva di qualsiasi screziatura, quando suonò il campanello, e istintivamente i loro sguardi corsero alla pendola appesa vicino al camino: segnava già quasi le nove.
Griša corse al citofono e aprì la porta, domandando preoccupato: «C’è qualcuno che conosco tra tutti gli invitati? In fondo abitiamo assieme da pochi mesi, e non ho mai conosciuto i tuoi amici». Detestava trovarsi all’interno di un gruppo di sconosciuti: era ossessionato dal fallimento e dal rendersi ridicolo. Dralbij lo rassicurò: «Ci sono alcune mie amiche di vecchia data, molto simpatiche, e credo che ti troverai bene con loro. Poi c’è Lestadt: ti ricordi quel ragazzo che, quest’estate, è venuto qualche volta a studiare matematica con me? Lui dovresti conoscerlo».
Lestadt entrò proprio in quel momento, scrollando la testa come un cane bagnato. «Buona sera e buon compleanno» esordì «Che razza di nevicata!». Tra i suoi capelli neri e piuttosto lunghi, raccolti a coda di cavallo, spiccavano grossi fiocchi di neve: la tempesta doveva avere aumentato ancora la sua intensità.
I tre si sedettero in cucina aspettando gli altri, ma si erano appena accomodati quando arrivò una ragazza molto timida e silenziosa, che dopo essersi presentata come Sue si ritirò in un posto d’angolo, a testa bassa.
«Come sempre, Moonlight è in ritardo» commentò Dralbij «Figuriamoci adesso, con questo tempo da lupi!». Solo Sue gli rispose con un cenno: Lestadt e Griša erano persi in una complicata conversazione su un gioco di carte molto in voga… tra i bambini. «Avete rispettivamente sedici e diciotto anni» sospirò Dralbij «Possibile che non riusciate a concentrarvi su qualcosa di più costruttivo?».
Lestadt alzò gli occhi, così simili a quelli di Griša, verso di lui. «Ho trovato un avversario che mi darà del filo da torcere» ribatté «Preferiresti forse che ci affrontassimo per amore di qualche ragazza?». Conosceva la repulsione dell’amico per la parola “amore”, e non perdeva occasione di tormentarlo.
Gli ultimi due invitati arrivarono insieme, con un buon quarto d’ora di ritardo: Griša riconobbe subito Moonlight, un ragazzo di corporatura minuta che aveva sempre visto in giro e col quale doveva anche aver parlato in chissà quale remota occasione, e si sedette a tavola di fronte a lui.
Erano pronti per avventarsi sulla pizza preparata per l’occasione: Dralbij e Sue ai due capi della tavola, Griša e Lestadt su uno dei due lati lunghi e, di fronte a loro, Moonlight e un’altra ragazza che non si era ancora presentata.
Aveva i capelli incredibilmente lunghi, neri come le piume di un corvo, che le incorniciavano il volto pallido, ed era avvolta in un poncho a righe verdi e nere molto largo. Era davvero molto bella, anche se così tenebrosa, eppure in lei c’era qualcosa di inquietante: Griša, dotato di forti poteri paranormali, lo percepiva distintamente. Quando lei, che gli sedeva proprio di fronte, sollevò lo sguardo, un brivido gli congelò tutte le ossa: non aveva mai visto due occhi di un simile colore, azzurro elettrico, sfavillanti.
Anche Lestadt ne era rimasto colpito: non riusciva a distogliere lo sguardo da lei, e l’aria si stava facendo greve di tensione.
Dralbij non parve avvertirlo, o forse non lo diede a vedere. «Voi tre ancora non vi siete conosciuti», fece notare. Lestadt lo fece quasi con timore, scomparendo subito dopo dietro la sua pizza.
Griša sorrise timidamente e, in un riuscito tentativo di imitazione della galanteria di Dralbij, mormorò con un inchino: «Vogliate, mia signora, perdonare la mia scortesia. Il mio nome è Grigorij Delacroix».
La misteriosa ospite non sorrise, ma nei suoi occhi passò uno strano bagliore. «Estel» si presentò «Oppure, in determinate occasioni, Selene».
La festa fu un successo: tutti, perfino l’apatica Sue, si divertirono insieme fino a notte fonda. Griša aveva inaspettatamente legato subito con Estel, e ora parlava con lei accovacciato ai suoi piedi davanti al caminetto. Aveva scoperto qualcuno che sembrava apprezzare la sua vena creativa, e le stava raccontando – cautamente – la trama dell’ultimo libro che aveva scritto. Le braci donavano strani riflessi rossastri ai suoi capelli castano chiaro… ma erano veramente loro ad arrossargli il volto? O forse era il fervore del racconto? Seduto all’altro capo del divano, Lestadt osservava la scena in silenzio. Dralbij, Moonlight e Sue guardavano la televisione.
Più tardi, quando la festa finì, i due fratelli si ritrovarono soli nel caldo salotto. «Riordineremo domattina» decisero, stanchi, dirigendosi verso la camera da letto.
Eppure, nessuno dei due riusciva a dormire. «È stato bellissimo» sospirò Dralbij, nella cuccetta inferiore del letto a castello «Specialmente quando abbiamo fatto sentire le nostre canzoni migliori. Hai visto che successo abbiamo avuto? Con questo, abbiamo già quattro persone assicurate ai prossimi concerti! Mi dispiace solo che non siano potute venire le altre due mie amiche, Sherry e Frizz: con loro, la festa sarebbe stata ancora migliore». Griša si rigirò tra le coperte, rispondendo: «A me è piaciuta molto, devo ammetterlo. Non pensavo che mi sarei divertito tanto! E poi, quella tua amica, Estel: ha detto che le farebbe piacere leggere i miei racconti!».
Dralbij rimase per un po’ in silenzio, fissando il buio, prima di concludere: «Me ne sono accorto. Pensa che lei e Moonlight hanno voluto sapere a che ora ci saremo io e te a suonare alla messa di Natale. A te sembrerà magari assurdo, ma sappi che perché Estel si svegli così presto la mattina… devi avere avuto proprio una forte influenza su di lei. È una creatura della notte, abituata ad andare a letto all’alba per vivere solo nelle tenebre: per questo le ho suggerito di partecipare alla veglia natalizia di mezzanotte, se vuole poi stare con noi». Dal letto superiore non giunse alcuna risposta: Griša si era addormentato.

I giorni successivi furono densi di impegni per gli Shining Night: alle prove con il coro parrocchiale si sovrapponevano quelle per la cena con i parenti venuti da chissà dove per ascoltare le loro canzoni. Si stavano facendo una certa reputazione a Pietroburgo, e sognavano di riuscire un giorno a dare un grande concerto in Inghilterra, dove erano nati. Avevano nostalgia degli amici lasciati là, e non vedevano l’ora di unirsi a loro per suonare insieme.
La vigilia di Natale arrivò fin troppo in fretta: Griša, per quanto abile con la chitarra, non si sentiva pronto ad affrontare due difficili canti che Dralbij aveva cercato invano di insegnargli. Facile, per lui che era solo il cantante: chi guidava, in quei casi, era il chitarrista.
I due provarono e riprovarono fino a quando il sacerdote attraversò la navata della piccola chiesa di periferia; Griša alzò la testa per cogliere il conteggio iniziale di Dralbij… e incrociò invece lo sguardo impenetrabile di Estel, che si era seduta lì vicino insieme a Moonlight. La salutò con un cenno e un esitante sorriso, e cominciò a suonare con impegno: non sbagliò una sola nota, sotto gli occhi orgogliosi del fratello. E non solo!
Fuori, la notte di dicembre era un mondo di ghiaccio: faceva ormai troppo freddo anche per le nevicate, e il gelo penetrava attraverso i numerosi spifferi della vecchia chiesa. Griša, nelle pause tra una canzone e l’altra, si strofinava vigorosamente le mani, invidiando i coristi che potevano tenere i guanti, tanto che ad un certo punto Dralbij gli concesse di scaldarsi nelle tasche del suo giubbotto.
C’era un’atmosfera magica, quasi d’attesa, in quella mezzanotte. Il pensiero del rinfresco allestito al caldo circolo parrocchiale, unito a quello del pranzo di Natale ormai imminente e dei regali, rendeva tutto più allegro e il freddo più sopportabile.
E finalmente, a mezzanotte, la messa finì sulle note piene dell’ultimo canto di festa, che svanirono la loro eco negli applausi e negli auguri di Natale. Dralbij e Griša, il solista e il chitarrista, si beavano ai complimenti di tutti i fedeli e ai battimani del resto del coro, cercando di non apparire al contempo troppo compiaciuti.
Griša impiegò una decina di minuti tra scollegare la chitarra dall’amplificatore e dalla pedaliera, riporre ordinatamente tutti i cavi nello zaino e indossare il cappotto; quando uscì, trovò Dralbij intento a parlare con Estel e Moonlight davanti al centro parrocchiale, e li raggiunse a passi lenti, rabbrividendo e chiedendosi cosa mai stessero facendo Estel e suo fratello per mano e così vicini, dato che lui non ne sapeva niente. Grugnì un saluto ed entrò al circolo, depositando zaino e chitarra in un angolo. Su un tavolo erano ordinatamente disposti bicchieri di tè caldo: ne prese uno e tornò vicino al suo strumento, chiedendosi infastidito perché mai l’atteggiamento di Dralbij lo irritasse tanto.
Era talmente concentrato nei suoi pensieri che non si accorse di quando Moonlight gli si avvicinò per fargli gli auguri di Natale. Si misero a conversare, scoprendo di essersi conosciuti da sempre, almeno di vista. E in un attimo le ombre nella mente di Griša si dissiparono.
Quando si trovò a portata d’orecchie di Dralbij, però, lo canzonò malignamente: «Non sapevo che ci fosse del tenero tra te e la misteriosa dark lady». Lo sguardo del fratello, in quel momento carico di significati, lo raggelò per un istante, ma fu la risposta a turbarlo: «Io ed Estel? Non mi è nemmeno mai passato per la mente. Più probabile tu e lei, contando che tu hai ormai la fobia dell’amore».
Estel arrivò giusto in tempo per sentire le ultime parole di Dralbij, e si rivolse a Griša: «Chi, tu? E per quale motivo?». Dralbij e Moonlight scomparvero.
Rimasto solo, Griša cercò di tenersi sul vago senza apparire scortese: «Niente di importante. Ho semplicemente passato un po’ troppe brutte avventure per credere ancora nell’amore, così adesso preferisco la solitudine o l’amicizia ad un sentimento che temo possa farmi ancora del male. E poi, cos’avrei io da dare ad un’altra persona? Sono un solitario, musone e lunatico!» «I tuoi racconti!» esclamò lei «O una canzone. Sei un artista, e scommetto che al mondo ci sono decine di persone disposte a tutto pur di vedersi dedicare una canzone o una poesia… cosa che pochi sanno fare davvero. Anch’io ne ho passate tante, ma non per questo mi sono arresa: ho imparato a non concedere subito la mia fiducia, pur conservando nel cuore tutti i miei sogni».
Sospettoso eppure incuriosito dalla sua interlocutrice, Griša mormorò: «Non dire che i sogni sono inutili perché inutile è la vita di chi non sa sognare. Saresti d’accordo?». Incoraggiato dal cenno d’assenso che colse, proseguì: «È il motto degli Antirealisti. Quando ancora abitavo in Inghilterra, io e il mio fratello adottivo Arthur – avevamo all’incirca dieci anni – adoravamo correre per i parchi del castello che era casa nostra giocando ai soldati insieme ai nostri amici; e io mi ero inventato l’esercito Antirealista: i grandi sognatori, che credevano nella magia e nella fantasia, contro i fantomatici Realisti, ossia coloro che ci imponevano di smetterla di fantasticare e sognare ad occhi aperti. Nessuno voleva essere il nemico, così ci siamo ritrovati ad essere un gruppo di una dozzina di persone senza alcun avversario; ma intanto eravamo cresciuti, avevamo tutti circa quattordici anni, e abbiamo cominciato con i primi altarini. Man mano che questi andavano in rovina, l’esercito Realista diventava sempre più numeroso: io e un altro mio amico facevamo a gara a chi riusciva a conquistare più ragazze! Era ovvio che queste, una volta lasciate, si inviperissero contro di noi andando ad aumentare le file avversarie. Poi io ho incontrato Bettina: e da allora, per quattro anni, ho quasi completamente lasciato perdere tutte le altre. Peccato che poi anche con lei sia finita malissimo: e quella ragazza, terribilmente furba e malvagia, ha dato un’organizzazione coerente all’esercito Realista, dando il via alle battaglie dalle quali ho dovuto fuggire. Bombe incendiarie, sassaiole, e quando sia lei che sua sorella hanno preso la patente, anche spericolati agguati in macchina: il nostro gioco da bambini era cresciuto come noi… rivelandosi una trappola. Ora qui a Pietroburgo la situazione è tranquilla, Bettina – anzi, la Regina Realista – è rimasta in Inghilterra, e gli unici suoi inviati non sono particolarmente pericolosi. Io e Dralbij, quando ci siamo conosciuti quest’estate, abbiamo scoperto di essere gemelli spirituali, con lo stesso vissuto alle spalle e un destino molto simile scritto nel palmo della mano. Gli ho parlato dell’Antirealismo: anche lui condivideva i miei stessi ideali di sogno, fantasia, arte e soprattutto magia. E, una volta appurato che io sono il generale dell’esercito, ha detto di volervi prendere parte. Già dopo qualche giorno era chiaro che il suo grado sarebbe stato quello di generale insieme a me: così, agli Antirealisti di Pietroburgo manca un colonnello».
Estel l’aveva ascoltato rapita per tutto il tempo: non pensava che qualcuno potesse essere così abile con le parole da dare un volto a tutto ciò che aveva pensato nei suoi vent’anni di vita. E quel malinconico chitarrista che nascondeva dietro la frangia quasi bionda due occhi incredibilmente dolci e disillusi aveva avuto il potere di farla sorridere ancora, dopo che lei si era convinta di non esserne più in grado. «L’esercito Antirealista» ripeté «Dev’essere bello. Lo sai, anch’io l’ho sempre pensata come voi. Non immagini neanche le ore che ho trascorso nella mia camera, sognando e fantasticando: è grazie ai miei sogni che sono riuscita a superare un’infanzia difficile e un presente non molto roseo…».
In quel momento furono interrotti dall’arrivo di Dralbij, che fece notare: «È l’una passata, e domattina c’è anche la messa di Natale. Non sarebbe meglio andare a dormire?». Docilmente, Griša recuperò le sue cose e, augurata la buonanotte a Estel e Moonlight, salì in macchina.
Non aprì bocca per tutto il viaggio, fino a quando Dralbij non riuscì più a contenere la sua curiosità e chiese: «Cos’hai detto di tanto sorprendente a Estel? La conosco da qualche anno, ma non l’ho mai vista così colpita da un discorso. Ti ha perfino sorriso, e mentre tu eri ancora intento a mettere via la chitarra, ha voluto sapere tutto di te: come mai abitiamo insieme, da dove sbuchi, perché non ti ha conosciuto prima…» «Le ho parlato dell’Esercito» rispose lui candidamente «E dei miei racconti. Le sono piaciuti nella trama, ma mi sono dimenticato di portargliene qualcuno. Credi che venga alla messa di domani, anche se ciò la costringerà ad alzarsi molto presto?» Dralbij parcheggiò accuratamente nel garage prima di rivelare: «È capacissima di non andare a letto stanotte. Ma domani, posso assicurartelo, ci sarà».
C’era una nota misteriosa nelle sue parole, il preludio di qualcosa che Griša non riuscì a decifrare. Strano: era la prima volta che qualcosa nella mente del fratello gli rimaneva oscura. Di solito, la loro telepatia era così potente da risultare infallibile anche a distanza. «Bah» concluse tra sé e sé, aprendo la porta di casa «L’importante è aver trovato una nuova lettrice per quello che scrivo». Si sentiva strano, come se qualcosa gli stesse sfuggendo sotto il naso, ma non vi badò: preparati in fondo ai due letti i vestiti per la messa del mattino, augurò la buonanotte a Dralbij – che peraltro stava già russando – e si rifugiò sotto il piumone, leggiucchiando svogliatamente un fumetto prima di dormire.

Come previsto, Estel e Moonlight non persero la messa di Natale. Vi partecipavano più per Griša e Dralbij che per fede, e si sedettero di nuovo nel banco più vicino al coro.
I canti erano gli stessi della notte prima, solo l’atmosfera si era fatta ancora più festosa. C’era il sole, i cui deboli raggi obliqui non scalfivano nemmeno la morsa del ghiaccio, ma vedere il cielo azzurro dopo mesi di grigiore carico di neve era già di per sé motivo di rallegrarsi. La luce attraversava le vetrate della chiesa, creando riflessi multicolori lungo la navata.
Un raggio viola colpiva in pieno gli spartiti di Griša, uno blu sfiorava il maglione di Dralbij: il viola e il blu erano i loro rispettivi colori di generali Antirealisti, ed Estel lo notò subito. «E sì che non possono averlo fatto apposta!» pensò. Per chissà quale motivo, non riusciva a distogliere lo sguardo dai due fratelli che, completamente concentrati sui brani, si lanciavano solo qualche occhiata di intesa insieme a parecchi sorrisi divertiti per motivi noti solo a loro. Durante la messa, Estel cercò invano di intercettare lo sguardo di Griša: lui se ne stava sulle sue, sfogliando gli spartiti e sfiorando le corde della chitarra con la punta delle dita. Anche Dralbij non faceva che rigirarsi tra le mani il libretto dei canti, ed entrambi avevano l’aria compita di due bambini il primo giorno di scuola. Si erano anche vestiti allo stesso modo: pantaloni neri, camicia e maglione bianchi e scarponi da neve scamosciati. Dralbij aveva rinunciato a drizzarsi i capelli come gli aculei di un istrice, lasciandoli liberi dalla lacca ma ordinatamente pettinati con la riga in parte; Griša, viceversa, si era convertito per un giorno a dividere la frangia in due ordinati ciuffi che gli lasciavano scoperti gli occhi. Si vedeva che era a disagio, senza una delle sue barriere, ma per il momento era troppo preso dalla musica per pensarci.
Una volta fuori, nel sole abbagliante, Dralbij si fermò a chiacchierare con un suo amico che viveva poco distante: avevano la fissazione dei giochi di ruolo e, come Griša e Lestadt, si lanciavano spesso e volentieri in appassionanti partite. Anche Moonlight aveva trovato da fare: circondato da vecchie amicizie, teneva banco animatamente.
Griša ed Estel ebbero entrambi la netta sensazione di essere stati lasciati soli apposta. «Il tipico principio secondo il quale due cuori infranti di sesso opposto finiscono sempre per attrarsi a vicenda» scherzò lui.
Quel mattino, Estel era come sempre vestita di nero, ma aveva aggiunto un ampio cappello sotto il quale teneva raccolti i capelli; i suoi occhi non sembravano più così ipnotici come Griša li ricordava: perso il riflesso blu, ora erano del colore del mare all’alba. «Che strano» pensò lui, abbassando la testa «È come se fosse due persone diverse. Di notte appare come una vampira crudele, e di giorno… così inoffensiva…».
«Mi stai ascoltando?» protestò Estel, posandogli una mano su un braccio. A quel contatto, Griša strinse involontariamente i denti e sobbalzò: aveva sentito qualcosa, come una corrente gelida che gli aveva attraversato il sangue fino al cuore, fermandoglielo per un istante. «Scusa, mi sono distratto» si affrettò a dire «Ho dormito poco questa notte. Dicevi?».
Gli occhi indagatori di lei indugiarono un istante su quel profilo incorniciato dai capelli mossi, quasi biondi nel sole, ma non riuscirono ad addentrarsi nella profondità insondabile degli occhi che scintillavano dietro i ciuffi irrigiditi dalla brillantina. Qualche secondo dopo, propose: «Nulla di importante, ti ho chiesto se sei ancora disposto a farmi leggere qualcuno dei tuoi manoscritti. Perché non andiamo a fare una passeggiata in centro, qualche giorno? Sinceramente, mi piacerebbe riascoltare le canzoni tue e di Dralbij… quelle che ho sentito la prima volta al suo compleanno».
Moonlight arrivò giusto in tempo per offrire un’opportunità: «Domani, Santo Stefano, avevamo in programma di andare a mangiare in un posto appena fuori da Pietroburgo. Perché non andarci insieme? Guido io, e posto in macchina ne ho a sufficienza».
Quando si salutarono erano già d’accordo per la sera successiva; ma i due fratelli, prima dell’uscita con gli amici, avevano in programma il sontuoso pranzo di Natale con i parenti. E a entrambi l’idea non andava molto a genio: ritenevano assurdo doversi trovare con gente che, provenendo entrambi da un orfanotrofio, appariva loro come un gruppo di sconosciuti pronti a belare smielati elogi. Frequentavano solo una signora sulla trentina, tale Mary, che tutti identificavano nel ruolo di una protettiva, gelosissima mamma chioccia: era stata lei ad organizzare il pranzo.
Dralbij guidava prudentemente sulle strade ghiacciate, e nel frattempo commentava con aria di sopportazione: «Credo che la mamma chioccia non sarà molto contenta del fatto che tu ti metta a frequentare Estel e la sua compagnia. Quelle due si odiano, sarebbero pronte a cavarsi gli occhi a vicenda, e oltretutto “la mamma” è molto possessiva nei nostri confronti, come se fosse veramente nostra madre: comincerà a farsi un sacco di idee su questa faccenda» «Idee» sbottò Griša, offeso «Come quella secondo la quale quel ragazzo al quale va dietro da due anni, quel Luke, sarebbe un padre per noi. Avrei preferito di gran lunga essere già fuori con quella compagnia, piuttosto che sentire assurde farneticazioni da gente che non conosco!».
Non aveva tutti i torti: non erano ancora scesi dalla macchina che già la signora Mary li aveva raggiunti nel parcheggio del ristorante, starnazzando: «È il modo di frenare? A momenti slittavate su quella pozzanghera! E chiudetevi quelle giacche, non sentite che freddo fa ancora, nonostante il sole? Dove sono le vostre sciarpe?» «Buon Natale, Mary» sbuffarono sarcasticamente i due fratelli ad una voce sola «Anche noi siamo contenti di vederti!». Intorno a loro si era già raccolta una piccola folla che chiocciava: «Come sono cresciuti!» «Che bello, hanno portato la chitarra!» «Sono diventati proprio carini!».
Griša e Dralbij sospirarono e si accomodarono ai posti tenuti apposta per loro, iniziando pazientemente a raccontare la loro storia a chi ancora continuava a richiederla o non l’aveva sentita: «Siamo stati qualche anno all’orfanotrofio Strawberry Fields a Liverpool, ma non ci siamo quasi mai rivolti la parola… anche se per motivi diversi, entrambi ce ne siamo andati dall’Inghilterra per spostarci qui a Pietroburgo… ci siamo incontrati quest’estate al Jolly, uno dei più grandi casinò… e siamo andati a vivere assieme per ammortizzare le spese dell’affitto…». La signora Mary si affaccendava intorno a loro: non faceva che riassettare i loro vestiti, riempire i piatti e borbottare tra sé. Fu una benedizione per lei quando qualcuno chiese ai suoi due protetti che scuola frequentassero. Gonfia di orgoglio, fu lei a rispondere: «Grigorij finirà tra poco il liceo classico, e Dralbij è alla Facoltà di Ingegneria…» «…a studiare materie incomprensibili» concluse stizzito l’interessato.
Più tardi, a stomaco pieno e scaldati da numerosi calici di vino, i parenti incominciarono a reclamare: «Shining Night!». Era il momento che tutti aspettavano: all’interno del ristorante c’era anche altra gente che aveva sentito parlare di quel duetto, e si fece silenzio. Griša, consapevole di avere puntati addosso come riflettori gli occhi di tutti i presenti, imbracciò la chitarra e provò l’accordatura, mentre Dralbij ingollava un ultimo sorso di squisito vino rosso per essere sicuro di sfruttare tutte le sue potenzialità. I suoi occhi, azzurrissimi nella luce vivida del ristorante, saettarono con falsa modestia sul pubblico improvvisato, per poi fermarsi sul fratello, che aspettava soltanto un suo cenno per partire.
Non avevano bisogno di mettersi d’accordo su quali canzoni presentare: si capivano al volo, in una sorta di fraterna comunicazione telepatica, e le loro voci trovavano la perfetta armonia necessaria a conquistare il pubblico.
Si erano seduti vicino al grande camino acceso, e da lì avevano una visuale di tutto il ristorante: le pareti rivestite di legno fino a metà, i pesanti lampadari di ferro battuto, il pavimento di legno e i tavoli coperti da tovaglie a scacchi. Piatti sporchi, avanzi, bottiglie e bicchieri abbandonati: Griša per un attimo perse il senso della realtà e vide un altro locale, che però non aveva nulla a che vedere con quel ristorante contadino. Si chiamava Le Lanterne, ma tutti i suoi habitué lo definivano con un nome che ne riecheggiava l’atmosfera decadente: la Taverna dei Rimpianti. Lui c’era stato, eccome: aveva annegato in tanti bicchieri le sue nostalgie da averne ormai perso il conto, aveva visto specchiarsi le sue lacrime sul vetro di innumerevoli bottiglie di rosso, e in quel posto aveva celebrato il funerale di decine di suoi sogni.
Perché quel ricordo, ora?
Scosse la testa per tornare al presente. Nessuno notò il suo momentaneo smarrimento; nessuno, eccetto Dralbij, che aggrottando le sopracciglia gli lanciò un’occhiata dubbiosa.
Indovinò i suoi pensieri, quello sì, e cercò di cantare più forte per coprirli; Griša, di riflesso, raddoppiò il suo impegno con esiti stupefacenti: per essere soltanto un duetto, stavano facendo scalpore come una band. Il gestore del ristorante, addirittura, offrì a tutto il loro tavolo un bicchierino del loro migliore liquore di radici casalingo, fortissimo e delizioso, che scacciò completamente il freddo di dicembre.
Ad applausi conclusi – gli Shining Night avevano tenuto a bella posta per ultima la loro canzone migliore – fu la volta dei regali, il momento che aspettavano come bambini. E non furono delusi: ricevettero un sacco di cose utili per la loro casa, tra cui perfino un computer e un’ulteriore stufa elettrica.
Ebbero qualche difficoltà a caricare tutto sulla macchina di Dralbij, e quando finalmente riuscirono ad incastrare lo scatolone della stufa dietro i sedili anteriori, si affrettarono a salutare i parenti. In mezzo a cori di «Bravissimi!» «Come siete cresciuti!» e «Speriamo di rivederci presto!», lasciarono il ristorante promettendo: «Certo, ci si vede…». Chiudendo la portiera, Griša borbottò: «…al prossimo Natale!», ma Dralbij aveva ormai perso l’ostilità dell’inizio. «Sono stati gentili, anche se forse un po’ pesanti» osservò «Quest’anno è andata meglio dell’anno scorso, tant’è vero che nemmeno ci hanno prenotati per Pasqua».
Così dicendo, accese l’autoradio; e sulle note allegre di una canzone di Natale, la macchina partì verso Via dei Fiori Bianchi.

Il 26 dicembre era una data infausta per Griša, e lui ne aveva fatto letteralmente un’ossessione: cinque anni addietro, nel 1971, era iniziata la sua lunga, tragica storia con Bettina. Sebbene le cose fossero ormai finite da quasi due anni, non era riuscito a dimenticare: sognava ancora, in segreto, di potersi riappacificare con lei. Forse non gli sarebbe stato facile riaffrontare l’amore sconfinato che aveva provato per lei, non subito almeno; e da lì aveva capito che lentamente, impercettibilmente, il tempo e la distanza stavano incominciando a fare il loro effetto.
Era rimasto in casa tutto il giorno, giocando a carte con Dralbij e scaldandosi davanti al camino, sempre con un blocco e una matita in mano: da qualche giorno, ultimamente, la sua vena creativa sembrava pulsare più forte che mai. Canzoni, ma soprattutto racconti. Bettina e gli altri suoi due grandi amori del passato non erano più comparsi tra le sue righe.
Dopo una lauta cena a base di avanzi del pranzo di Natale, Griša incominciò a sparecchiare la tavola canticchiando tra sé. Aveva i piatti sporchi in una mano, e quasi li lasciò cadere quando Dralbij si alzò sospirando: «Tra un’ora dovrebbe venire a prenderci Moonlight» «Eh? Moonlight?» ripeté, salvando per pochi istanti i piatti. Si era completamente dimenticato di dover uscire quella sera. «Ma il 26 dicembre mi porta sfortuna!» protestò debolmente.
Erano le otto di sera; sbrigata la cucina in pochi minuti, i due fratelli cominciarono a prepararsi. Griša, scovato un maglione sufficientemente pesante per la notte invernale, era già pronto per uscire. Dralbij invece, che cercava sempre di essere sufficientemente elegante, impiegò qualche minuto in più per cercare qualcosa da mettersi.
Avevano appena chiuso il portone dell’edificio, quando una piccola macchina grigio chiaro si fermò davanti a loro. Salirono sui sedili posteriori, salutando con un sorriso Estel e Moonlight, e partirono verso il locale previsto.
Era un posto piuttosto grande, arredato in stile rustico, non molto illuminato. All’interno, oltre ad un’area adibita a sala giochi, c’erano numerosi tavoli in legno. La musica sparata dalle casse era alta, ma non troppo. I quattro si sedettero al primo tavolo libero: Griša e Dralbij ad un lato, Estel e Moonlight all’altro. in pochi minuti avevano già ordinato qualcosa.
«Allora, come ve la siete cavata con i parenti?» chiese ironicamente Moonlight, versando del succo di frutta nel bicchiere. Dralbij addentò la piadina che aveva comprato e biascicò, tra un boccone e l’altro: «Ci hanno portato un bel po’ di regali utili…» «…e hanno notevolmente accresciuto la nostra autostima» concluse Griša «Non mi sono mai sentito dire tante volte in vita mia di essere bravo e bello!». Estel intervenne in tono leggero, facendogli quasi andare di traverso il suo drink: «Perché, non è vero?».
Andarono avanti qualche minuto a parlare di come avevano trascorso il Natale e dei loro programmi futuri. Griša, inspiegabilmente di buonumore nonostante la data, continuava a fare certe uscite esilaranti alle quali era impossibile resistere, ma anche Dralbij non era da meno. Quando Estel gli chiese di assaggiare la sua piadina, lui si lasciò andare ai suoi eccessi macabri che avevano sempre il potere di far scoppiare a ridere chiunque: «Certo, ma stai attenta: sta gocciando come una donna in putrefazione!».
Nell’atmosfera allegra di quella serata, perfino Estel, di solito cupa e aggressiva, si fece prendere dall’ironia e raccontò: «C’è stato un periodo, anni fa, in cui esattamente alle otto di sera cominciavo a ridere senza alcun motivo. Mia nonna e mia mamma, sentendomi, sapevano che ore fossero anche senza bisogno di guardare l’orologio. “È l’ora della risata”, dicevano. Eppure, ve l’assicuro, era qualcosa di terribile: se per caso ero seduta a tavola a mangiare, arrivavo al punto di rischiare di soffocare. Tossivo, ridevo, non sapevo più cosa fare!».
Immaginandosi la scena, Griša e Dralbij dovettero lasciar stare quello che stavano mangiando per non rischiare la stessa fine. L’idea era talmente buffa da risultare irresistibile; Moonlight, che era il migliore amico di Estel da tempo immemorabile e che era quindi stato presente a quelle crisi di ilarità, sorrideva in silenzio.
Più tardi, di nuovo fuori sotto un insistente nevischio, Estel si rifugiò sotto il cappuccio col bordo in pelliccia del suo giaccone. Griša era di fianco a lei, intento a salire in macchina, e gli chiese quasi con fare civettuolo: «Ti piace la mia giacca nuova?». Lui non si scompose ed esclamò, con un pesantissimo accento: «Madre Russia, gelata Siberia!».
Tra loro parlavano ovviamente il russo, unica lingua che condividessero tutti e quattro; ma quella pronuncia, così inaspettata e così comica, ebbe un effetto micidiale: Estel e Griša cominciarono a ridere senza ritegno, appoggiandosi alla macchina, con le lacrime agli occhi e incapaci di fermarsi.
Dralbij li osservò perplesso: «Che succede?» cercò di sapere. D’un tratto sentì anche lui l’irresistibile impulso e si unì alle loro risate, finendo per contagiare anche Moonlight che quasi non riusciva a guidare.
«Scusate, ma perché stiamo ridendo?» riuscì a rantolare Griša, ma nessuno era in grado di rispondere.
Si calmarono soltanto verso casa.
In macchina si stava bene, con il riscaldamento che ronzava in sottofondo: come affrontare l’assalto del vento freddo che si era alzato? Il cielo era sereno, limpido e pieno di stelle, segno sicuro di ulteriori gelate nella notte. Per qualche minuto tutti rimasero in silenzio, fino a quando Estel si girò verso Griša e, guardandolo dritto negli occhi, gli domandò: «Ti andrebbe una passeggiata, in questi giorni?».
L’aveva chiesto esclusivamente a lui, soggiogandolo con quel suo sguardo dal quale era difficile staccarsi. E quei suoi occhi, così straordinariamente luminosi e glaciali! Griša annuì: aveva la gola talmente secca che non sarebbe riuscito a parlare tanto facilmente.
Soltanto qualche minuto dopo, quando si salutarono diretti alle rispettive case, trovò la forza di proporle, a bassissima voce: «In questi giorni è meglio se mi metto d’impegno a studiare, e a Capodanno io e Dralbij saremo impegnati. Ti… ti andrebbe di uscire… voglio dire, di andare a fare una passeggiata verso la fine delle vacanze?». Estel ebbe un attimo di esitazione prima di accettare: lo conosceva da così poco tempo, e già lui era riuscito involontariamente a oltrepassare molte delle sue barriere di diffidenza. E lei avrebbe tanto voluto poter almeno scalfire le sue.
Lo guardò allontanarsi verso il portone del numero 17, rivolgersi a Dralbij e ridere di qualche battuta. Era raro vederlo sorridere, l’aveva capito, ma quella sera era stato tutto diverso. Chissà, forse Griša era stato così spiritoso solo perché era rassicurato dalla presenza di Dralbij, e se un giorno si fossero trovati soltanto loro due… come sarebbe stato?
Si rilassò contro il sedile e sospirò: «Moonie, possiamo fermarci a casa mia qualche minuto? Ho bisogno di parlare con qualcuno». Moonlight annuì senza parlare; ma dietro le lenti degli occhiali, i suoi occhi verde scuro scintillavano di un sorriso che Estel non notò, troppo concentrata nei suoi pensieri fin troppo chiari a chi la conosceva tanto bene.
Si fermarono davanti a casa; Moonlight spense la macchina, si voltò verso di lei e, sfiorandole una spalla in un gesto incoraggiante, la esortò: «Coraggio, dimmi che cosa ti turba. Sai bene che, qualunque cosa tu dica, saremo solo io e te a saperla». Estel teneva la testa bassa, e i suoi capelli lunghissimi fornivano un ottimo schermo per nascondere le sue meditazioni; quando si rivolse a lui, il suo tono che voleva risultare solido e tranquillo era leggermente incrinato. «Non mi sentivo così da mesi» esordì «E sono adirata con me stessa. Dopo essere stata tradita da tante persone, mi ero ripromessa di non fidarmi più di nessuno… ed eccomi qui, pronta ad uscire con qualcuno che conosco da pochi giorni! E se Griša fosse come tanti altri? È carino e gentile, ma è un attore: e se la sua fosse solo una maschera? È stato lui stesso, ieri mattina, a dirmi di aver scritto parecchi copioni che poi ha anche recitato. Dice che la realtà fa troppo male per essere vissuta, che l’immaginazione è l’unica arma nella guerra contro di lei, e che ha fatto della sua vita difficile – sai che viene da un orfanotrofio? – una semplice finzione per alleggerirne il peso. E io sono d’accordo con lui. Per la prima volta ho parlato con qualcuno che non ha paura di rivelare i suoi sogni, che mi ascolta e mi capisce…» «Allora smettila di essere così guardinga» la interruppe Moonlight con dolcezza «Quando sarai con lui, dimentica tutti i brutti colpi che hai subito e cerca di fidarti. Mi ricordo com’era quando, da bambini, ci siamo conosciuti per caso: voleva tanto fare il duro, ed era una parte che gli riusciva benissimo, ma in fondo non è mai riuscito a nascondere di avere un carattere estremamente dolce. Non credo tu abbia nulla da temere: fidati di lui e dei tuoi sentimenti».
Estel avrebbe voluto chiarire i suoi dubbi parlando con l’amico; ma quando rientrò in casa, si sentiva ancora più confusa di prima. E le risultava sempre più difficile ignorare la felicità che sentiva nascerle dentro.
Si sdraiò sul letto, e subito la raggiunse Attila, il suo gatto bianco e nero, che le si accovacciò vicino ronfando. Lo prese in braccio e sussurrò, spegnendo la luce: «Che cosa devo fare?».

A qualche chilometro di distanza, intanto, si stava svolgendo una conversazione per certi versi simile: anche Griša si sentiva strano, e aveva deciso di confidarsi con Dralbij. «Hai notato quanto ci siamo divertiti questa sera?» cominciò, abbottonandosi la giacca del pigiama «Ad essere sincero, quasi non vedo l’ora di uscire con Estel: mi sembra incredibile che qualcuno, dopo tanto tempo, apprezzi quello che dico». Dralbij stava finendo di lavarsi i denti, e uscì dal bagno con lo spazzolino in mano bofonchiando: «Effettivamente, Estel sembra essersi già affezionata a te. Cerca solo di non ripetere gli errori che hai fatto in passato: sai bene che io e te siamo due noti cuori di pietra, e che siamo diventati così per necessità. Siamo i fondatori dell’Anti-Amore e tali dobbiamo rimanere. Non montarti la testa solo perché una ragazza sembra essere interessata in qualche modo a te: ricordati che la conosco da qualche anno ormai, e mi sono reso conto di una cosa. Estel si stanca molto presto delle persone: tu, fratellino, devi fare attenzione, o rischierai di trovarti nel giro di pochi mesi invischiato in una situazione dalla quale è difficile uscire».
Griša, che stava salendo sul suo letto, era rimasto bloccato a metà della scaletta. «Affezionata… interessata… a me?» mormorò «Come ti vengono certe idee? E se anche fosse, dubito che tra me ed Estel possa mai esserci qualcosa: tengo alta la bandiera dell’Anti-Amore, e le ferite che bruciano ancora oggi sono molto difficili da rimarginare. Forse nemmeno se trovassi una ragazza che mi dedicasse tutto il suo amore allo stato puro riuscirei a liberare il mio cuore dalla gabbia che gli ho imposto. Cristo santo, Dralbij, non sono così stupido da caderci di nuovo… ma al contempo, se tu avessi ragione su Estel, non vorrei ferirla. Se davvero tenesse a me la deluderei, ma se cedessi rischierei di incappare in quello che tu hai pronosticato; e un’altra batosta in amore mi distruggerebbe, ne sono certo. Che cosa devo fare?».
«Non parlare d’amore, per prima cosa» ribatté Dralbij, lieto che suo fratello seguisse il suo esempio «E soprattutto, non fidarti di chi conosci poco né tantomeno di ciò che suggerisce il tuo cuore. Non ascoltarlo! Prendilo e mettilo da parte: per il momento non ne hai bisogno». Nel giro di cinque minuti già dormiva, ben avvolto dalle coperte, cullato dal tenue ronzio della stufa elettrica.
Nella cuccetta superiore, Griša smise subito di rigirarsi sul materasso per non disturbarlo, e si allungò verso la mensola che costituiva il suo comodino, afferrando a tentoni un quaderno e una penna. Girato a pancia in giù, alla luce lieve di una lampadina da notte, cominciò ad annotare le sue sensazioni per non dimenticarle: l’indomani le avrebbe rimuginate, a mente lucida. E – si scoprì sollevato – senza i commenti di Dralbij. Era la prima volta da quando lo conosceva che non si trovava d’accordo con lui: certo, a volte era molto utile saper seppellire senza fatica i propri sentimenti e costruirsi fortezze per proteggersi dal mondo esterno… ma davvero era possibile escludere qualcosa di grande come l’amore? Forse, rifletté, lui non aveva mai saputo che cosa significasse amare davvero.
D’un tratto le sue elucubrazioni lo spaventarono: perché pensava all’amore? Vacillò nelle sue convinzioni: non era del tutto da escludere che ci fosse qualcosa che si profilava all’orizzonte, se lo sentiva nell’animo. Così prese dalla mensola il mazzo di carte che usava per fare oroscopi e previsioni quando non voleva rivolgersi agli infallibili tarocchi di Dralbij e mantenere segreto qualcosa. Ne dispose sette a croce: al centro, rosso come un bocciolo di rosa insanguinato, trionfava regale l’asso di cuori.
L’emozione fu tale che Griša disfece subito la croce, con le mani gelide e tremanti: non aveva letto le rimanenti sei carte, né voleva sapere cosa gli avessero pronosticato. Aveva però intravisto qualcosa di inquietante nella loro disposizione, qualcosa che lì per lì la sua mente si rifiutò di riferire. Con un brivido, scribacchiò frettolosamente sul quaderno ciò che era successo, spense la luce e sprofondò nel cuscino.
«È solo una serie di coincidenze» si disse, in tono così risoluto da convincere perfino se stesso «Io sto bene così, con Dralbij e la compagnia di amici, con la chitarra e qualcosa da scrivere: il cielo solo sa perché mi siano venute certe strane idee, ma in ogni caso non è un argomento che voglio approfondire. A proposito di approfondire: da domani devo cominciare seriamente a studiare la letteratura greca, altrimenti alla maturità farò una gran fatica a ricordare tutto…».
L’alba del giorno dopo lo trovò già sveglio in cucina, con una tazza di caffè in mano e il libro di greco davanti. Con la mano destra mescolava il caffè, e con la sinistra prendeva rapidamente appunti intorno ai paragrafi: Estel e i discorsi della notte erano già mille miglia lontani.
Dralbij lo raggiunse qualche ora dopo, soppesando malvolentieri il grosso volume di matematica che doveva studiare per un esame. Gli diede il buongiorno e, dopo una rapida colazione, cominciò a riempire fogli su fogli di operazioni. Se per caso non gli riusciva qualche esercizio si passava le dita tra i capelli e ricominciava da capo, sfogliando il libro e borbottando tra sé; nel giro di pochi minuti era già spettinato e depresso, e sospirò: «È inutile, quest’esame non lo passerò mai. Fratellino, beato te che sei ancora al liceo: l’università è un brutto posto! Se solo avessi qualcuno con cui studiare… invece niente, non ho ancora fatto amicizia con nessuno della mia facoltà». Griša obiettò: «Già, ma la facoltà l’hai scelta tu. Ingegneria, matematica, chimica, fisica, economia… sono tutte materie che non lasciano spazio alla creatività, a quella parte della mente umana che sa colpire i cuori e generare emozioni. Inoltre, tu sei appena uscito da un istituto d’arte: nella scuola che hai scelto, sei davvero un pesce fuor d’acqua. Io, appena finito il liceo, conto di iscrivermi a Lettere e Filosofia in modo da poter proseguire sulla stessa linea di studi. Avresti dovuto scegliere Architettura, o magari l’Accademia delle Belle Arti…» «…per non trovare lavoro!» sbottò Dralbij, rituffandosi nella matematica.
Erano entrambi concentrati nello studio, sicché quando squillò il telefono trasalirono e si guardarono preoccupati: chi mai poteva cercarli? Dralbij andò a rispondere, e un attimo dopo chiamò il fratello, dicendo laconicamente: «Sei desiderato».
C’era solo una persona per la quale poteva assumere un tono così ammonitore: Griša lo capì prima ancora di prendere in mano la cornetta, e il suo cuore fece un salto. «Ciao, Estel» disse, sforzandosi di apparire calmo.
I due rimasero al telefono per un’ora, chiacchierando e ridendo, mentre Dralbij ascoltava la conversazione senza averne l’aria. Era raro vedere suo fratello così poco guardingo nel parlare, così palesemente felice e volutamente spiritoso: qualcosa di grosso stava per succedere, ormai era solo questione di ore, e niente poteva impedirlo. Nemmeno l’Anti-Amore. Le cose erano successe troppo in fretta e troppo inaspettate, passando come un treno attraverso le loro vite, e forse ora era già troppo tardi per fermarlo. Si prese la testa tra le mani, e involontariamente lo sguardo gli cadde sul quaderno per appunti di Griša: era un vecchio raccoglitore ad anelli, la cui copertina era stata coperta di graffiti e parole scritte in cinque anni di liceo. Il nome di Bettina, così come quello di altre antiche storie, era stato cancellato ma ancora si leggeva attraverso il pennarello nero: e l’autore di quelle testimonianze storiche, come le avevano definite, aveva sempre detto di non essere in grado di compiere un gesto così drastico. Le radici dell’amore erano troppo profonde in Griša; e, una volta sradicate le querce che vi erano cresciute, il terreno era rimasto smosso… ma non era abbastanza fertile per far germogliare davvero la solida pianta dell’Anti-Amore. Più probabile che le vecchie querce avessero lasciato cadere i loro semi.
Griša tornò al tavolo da studio; era perfettamente serio, impassibile… ma dagli occhi sprizzava gioia. Si rimise a leggere la letteratura, e non si accorse di un sorriso che gli increspava le labbra di solito immobili.

Capodanno fu un’altra occasione, per gli Shining Night, di dimostrare il loro talento davanti agli amici e ai compagni di scuola. Festeggiarono a casa del migliore amico di Griša, Asso, stappando champagne e facendo esplodere fuochi d’artificio nel giardino coperto di neve. Vi si affondava fino alle ginocchia, dopo l’ultima bufera del giorno prima, ed era bellissimo rincorrersi tra i cumuli che si illuminavano di tutti i colori dello spettacolo pirotecnico.
C’era un po’ tutta la vecchia compagnia di ciascuno di loro, compreso l’ex gruppo musicale di Griša, i Mad Moons, che ora si era diviso in due gruppi riuniti per l’occasione. Se si fossero trovati tutti insieme a suonare, gli ex Mad Moons e gli Shining Night, sicuramente sarebbe stato un successo; peccato che, ormai, avessero fatto toppa strada e in troppe direzioni diverse. Così come Griša e Dralbij si erano specializzati nel folk gotico, qualcuno si era lanciato nel metal e gli altri verso la musica tradizionale ballabile.
Griša e Asso passarono buona parte della serata a scherzare tra loro, cimentandosi in riuscitissime imitazioni dei professori e inventando barzellette su di loro, cosa nella quale avevano un’esperienza quinquennale. Oppure, come avevano sempre fatto, parlavano delle loro storie perdute e ritrovate. «Mi sono riappacificato con Eveleen» aveva detto Asso, orgoglioso «Il problema è che sono in caldi rapporti anche con Cloe e Magy, e perfino con la ragazza fissa di un energumeno di Mosca!». Era sempre stato famoso per questo, ma quella sera non era il momento di contare le sue numerose conquiste. «Dovresti trovarti una ragazza» consigliò all’amico «Hai soltanto diciott’anni, non puoi continuare a rimpiangere quelle che hai perso! Chissà, magari proprio in questo momento la donna della tua vita sta pensando a te, struggendosi perché non sarai mai suo…» «Non è la donna della mia vita, per quanto mio fratello possa dire» puntualizzò Griša, piccato «E non c’è pericolo che si strugga per me!» concluse, raccogliendo con le mani guantate un enorme blocco di neve che lanciò su Asso.
I due si inseguirono per qualche metro, lanciandosi la neve a manciate e minacciandosi a vicenda con i fuochi non ancora sparati, fino a quando Griša – più per confermarlo a se stesso che per convincere Asso – si decise a spiegare: «È vero, ho conosciuto una ragazza straordinaria, ma ciò non vuol dire che provi qualcosa per lei… o viceversa» «Ci sei già uscito?» si informò Asso, togliendosi la neve dagli occhiali. I suoi occhi azzurri scintillavano di malizia, ma Griša non se ne accorse e rispose ingenuamente: «Non abbiamo avuto tempo, ma dovremmo vederci sabato pomeriggio. Sarebbe ora che mi tagliassi i capelli, e siccome ci vado piuttosto presto, dopo posso andare a fare quattro passi in centro con lei».
Asso era piegato in due dal ridere: «E dopo, cosa farete?» ironizzò «Andrete ad accendere un lumino in chiesa o arriverete al punto di massima trasgressione di sedervi al bar a prendere qualcosa di caldo?» «Cretino!» tuonò Griša, ricominciando a rincorrerlo.
Erano sempre così: anche nei discorsi più seri, non facevano che prendersi in giro e provocarsi, tanto che a chi non li conoscesse sembrava davvero che potessero odiarsi. Ma la loro amicizia, profonda e indistruttibile, andava ben oltre: si erano sempre confessati le loro preoccupazioni e le loro gioie, le speranze e le avventure, cercando nell’altro un suggerimento o un modo di condividere qualche bel momento. A scuola erano vicini di banco, ed era proprio dietro ai loro astucci, soprattutto durante le ore di matematica, fisica e biologia che scrivevano insieme le loro canzoni e poesie. Insieme avevano imparato a suonare la chitarra e insieme avevano cominciato la carriera di musicisti, anche se ora procedevano su sentieri opposti e a volte complementari.
Verso le due del mattino, Asso guardò l’orologio e si rivolse a Griša, con gli occhi grandi di innocenza: «Sarebbe il caso che tu andassi a letto, ora» mormorò «I bravi bambini non dovrebbero stare fuori tutta la notte, specie se hanno in programma un sabato pomeriggio con la fidanzata…». Dralbij fece per fermare il fratello, credendo che fosse suonata l’ultima ora per quel suo insolente compagno, ma Griša si era già avventato agilmente su Asso. I due stavano rotolando per il giardino, avvinghiati in una lotta feroce, dalla quale si districarono però quasi subito per non soffocare dal ridere.
Quando tornarono a casa, Griša era bagnato fradicio e non vedeva l’ora di rannicchiarsi sotto la coperta in piuma d’oca dopo una doccia calda. «Ti prenderai una bronchite» pronosticò Dralbij «E la tua valorosa lotta d’onore di stasera non ti sarà servita a niente, perché sabato sarai a letto con un febbrone da cavallo».
Si sbagliava: Griša, cresciuto per strada, aveva sviluppato potenti anticorpi contro i raffreddamenti, e quando giunse il tanto atteso sabato era in piena forma.
Qual mattino, 7 gennaio, capitò in Via dei Fiori Bianchi la signora Mary con una gigantesca torta. I due fratelli già la pregustavano a pranzo, fino a quando Griša bisbigliò esitante: «E se la tenessimo per il pomeriggio?». Le orecchie della loro mamma adottiva, allenatissime a percepire ogni pettegolezzo, captarono però la frase. «Cosa succede?» domandò la signora, chinandosi verso di lui.
Griša non notò i gesti disperati e le occhiate di fuoco che Dralbij gli lanciava, e replicò pacificamente: «Credo che oggi avremo ospiti. Hai presente quell’amica di Dralbij, Estel? Pensavo di invitarla qui per un tè, dopo che…» «Tu esci con Estel?» La voce di Mary era un ringhio irto di rabbia. Gli occhi le sprizzavano scintille, e ad un certo punto proruppe in un urlo: «Non ti azzardare ad avere a che fare con certa gente!». Si rivolse poi a Dralbij, e se gli sguardi potessero incenerire, sarebbe stata una tragedia. «È colpa tua!» latrò «Immagino sia stato tu a farli incontrare! Possibile che non ascolti mai i miei consigli? Frequentandola, vi rovinerete la vita! Tu puoi fare l’insensibile finché vuoi, ma non Grigorij! Estel cercherà di irretirlo, e poi gli rovinerà la vita abbandonandolo come un cane, dopo averlo trattato male fino allo stremo! Grigorij, figliolo, finché sei in tempo, disdici l’appuntamento con quella… quella…» «Quella mia amica» concluse irritato Griša, in tono pericolosamente tagliente «E se sento anche solo un’altra parola su Estel, sia una presa in giro a mio danno sia una volgare calunnia su di lei…». Lasciò la frase sospesa ad arte, fissando la signora con le pupille dilatate e i pugni stretti.
Dralbij gli posò una mano su un polso, inducendolo a sedersi, ma lui non ne volle sapere e rimase in guardia, ben sapendo di essersi comportato da stupido: perché mai non sapeva nascondersi dietro una maschera in certe situazioni? Deglutì e si passò la lingua sulle labbra secche, pronto a tornare all’attacco.
Ma Mary sembrava averne avuto abbastanza: «Ho capito» disse altezzosamente, avviandosi verso la porta «Sono arrivata già troppo tardi. Voglio solo che tu sappia: hai fatto un tragico errore, ragazzo mio, ma credo tu sia abbastanza grande per sbrigartela da solo. Quando avrai bisogno di conforto, la tua mamma ci sarà sempre» «Tu non sei…» incominciò Griša ferocemente, ma si trattenne e si precipitò in camera da letto, sbattendo la porta. Udì Dralbij dire qualcosa, in soggiorno, e si tirò il cuscino sulla testa per non sentire: ne aveva avuto abbastanza, e non era da lui perdere il controllo così.
Mezz’ora più tardi, la porta si aprì cigolando e Dralbij entrò a piccoli passi. Griša era ancora sul letto e sembrava che dormisse: lo lasciò stare, prese il quaderno degli esercizi e si sedette alla scrivania, copiando in bella scrittura i compiti. Se suo fratello voleva parlare, decise, doveva farsi avanti lui.
Ma Griša, poco dopo, si alzò e sparì in soggiorno, davanti alla televisione. Era fuori di sé: perché tutti quanti dovevano ingigantire a quel punto la questione? Per l’ennesima volta si ripeté di non provare per Estel nulla di diverso dall’amicizia… eppure, dovette ammetterlo, le parole di Mary l’avevano oltremodo innervosito. E se lei e Dralbij avessero avuto ragione? Controvoglia, tornò in camera e grugnì: «Perché la mamma chioccia ha reagito così sentendo nominare Estel?». Dralbij, che non aspettava altro, preferì all’ultimo momento rimanere sul vago: «Questioni sentimentali. Mary è giovane, Estel ha due anni più di te. La mamma era – è, direi – perdutamente innamorata di Luke, e quest’estate… beh, diciamo che per un paio di volte Estel gliel’ha in un certo senso portato via. E poi c’è sotto tutta una rete di dicerie, di maldicenze alle spalle e simili che è impossibile da districare: quelle due si odiano, se potessero si scannerebbero!».
Griša ingoiò quell’amaro boccone, che gli rimase addosso però come un fardello. «Com’è successo?» volle sapere. Stava recitando, ormai, aveva assunto un tono soffice come i passi di un gatto, impenetrabile. Dralbij, però, non volle dire altro se non un asciutto: «La prima volta è stato ad una festa, e lei era ubriaca. La seconda volta ancora non ti conosceva. E adesso, ti spiacerebbe andare in cucina ad accendere il fornello? La mamma chioccia ha portato dell’arrosto già pronto».
Le ore scorrevano via con una lentezza esasperante. Il cielo grigio, fuori, rendeva ulteriormente pesante quel primo pomeriggio. Griša bighellonava per casa come un fantasma, incapace di concludere alcunché: leggeva un libro e lo deponeva dopo poche pagine, accendeva il computer e si perdeva a fissare lo schermo, cercava di studiare e le parole gli si confondevano davanti. Quando poi telefonò il barbiere per dire che sfortunatamente non poteva sistemargli i capelli quel giorno, non riuscì a trattenere un’imprecazione e si buttò a letto. «Stai bene?» gli chiese infine Dralbij. Lui non distolse lo sguardo vacuo e sbottò: «Certo. Se così non fosse, non sarei in grado di contare i puntolini di intonaco sul soffitto».
Per grazia ricevuta, finalmente la pendola del soggiorno batté le quattro. Griša schizzò in piedi, afferrò al volo la giacca e corse fuori scattando come una molla.
Dralbij chiuse la porta scuotendo la testa rassegnato.

Estel era già arrivata al luogo dell’appuntamento molto prima delle quattro e mezza; aspettava in sella alla bicicletta, giocherellando nervosamente con la tracolla della borsa. Griša, anche lui in bicicletta, la raggiunse impennando e sgommando sull’asfalto ghiacciato, a rischio di scivolare, e le rivolse un «Ciao!» così gioioso che lei non poté fare a meno di meravigliarsi.
Non che avessero molto da fare, fuori: dopo qualche giro del centro erano talmente infreddoliti che entrarono in un bar a prendere un tè bollente. Il sole era già tramontato, la notte stava prendendo il sopravvento, e man mano che il crepuscolo avanzava, Griša notò qualcosa di strano nella sua interlocutrice: gli occhi le si facevano sempre più azzurri, e sembrava essere diventata quasi improvvisamente pallida. Quando si tolse il cappello, lasciando che i capelli neri le scendessero a cascata lungo la schiena, per un istante sorrise ad una battuta, coprendosi la bocca con una mano. Non sembrava però educato chiedere spiegazioni, e Griša deviò le sue perplessità con leggerezza: «Se ho ben capito, tu abiti piuttosto fuori dal centro. E vorresti tornare a casa con questo freddo, in bici e perdipiù di notte?» «La notte non mi spaventa» rispose Estel «Io sono la regina della notte. E non temo nemmeno il freddo. Senti?». Con una mano calda aveva stretto le sue gelide, e l’aveva visto rabbrividire. «Però, fa freddo» tergiversò lui, quasi disperatamente, evitando quegli occhi inquisitori «Prima di andare a casa, ti andrebbe di… di fermarti da me e Dralbij?». Per un attimo sentì l’eco di una burla di Asso: «Credi che quando sarete insieme da un anno ti deciderai a mostrarle la tua stanza?». Evitò per un soffio, recitando, di avvampare.
Poco più tardi partirono, pedalando veloci nel vento tagliente, e quando si trovarono davanti alla porta di casa lasciarono andare un sospiro di sollievo: certo, un bel divano davanti al camino acceso in una sera d’inverno faceva davvero comodo.
Griša aprì la porta chiamando: «Fratellone, sono a casa!», ma non ottenne risposta. Vide invece un biglietto appuntato sul frigorifero: «Sono dalla mamma chioccia, sarò di ritorno dopo cena. Un consiglio: fatti invitare a cena da Estel, sua madre cucina benissimo». Imbarazzatissimo, strappò via il biglietto e lo gettò via: già trovandosi a tradimento solo con Estel era difficile evitare di fare figuracce, e se poteva evitarne una…
Estel, nel frattempo, si era tolta il giaccone e accomodata sulla poltrona davanti alla stufa. Griša si accucciò davanti al caminetto e iniziò diligentemente ad accenderlo. «Vuoi qualcosa?» chiese educatamente «Nostra mamma ha portato una torta…» «Dovresti assaggiare quelle che prepara la mia mamma» ribatté lei «Giusto ieri, ne ha preparata una con le mele. Potreste venire a casa mia, tu e Dralbij, magari anche domani».
La conversazione languiva, entrambi erano fastidiosamente a disagio. Griša non faceva che attizzare il fuoco e spostare la legna, Estel leggeva i titoli dei libri appoggiati sul tavolo. Nel silenzio si udiva solo lo scoppiettio del fuoco.
Ad un tratto, Estel parve prendere una decisione: si alzò e andò a sedersi davanti al caminetto, chiedendo: «Hai scritto qualcosa di nuovo?». Grato, Griša corse in camera rispondendo: «Sicuro! Preferisci avere prima i racconti o le poesie? Vado a prendere i quaderni, devo averli buttati sul letto».
Senza attendere risposta si arrampicò sulla scaletta e tolse dalla mensola una scatola di legno, che conteneva tutti i suoi manoscritti. Stava scegliendo quando, con suo estremo spavento, la sua ospite varcò la soglia proibita della stanza. Rischiando di cadere dal letto le porse frettolosamente i fogli, ma non seppe come indurla a tornare in salotto; arreso, scese nella cuccetta inferiore e offrì: «Puoi portarteli pure a casa per leggerli con calma. Invece, ti andrebbe di sentire qualcuna delle canzoni che canto e suono io solo, senza Dralbij? Ne ho composta una insieme al mio amico Asso, a Capodanno, quando abbiamo fatto la festa da lui». Ovviamente, Estel fu felicissima della proposta, e si dispose ad ascoltare.
A Griša bastò appoggiare le dita sulla tastiera della chitarra per rilassarsi. Dopo un attimo di concentrazione iniziò a cantare con una voce dolcissima ma anche molto triste; era una ballata che parlava di qualche amore lontano, senza speranza, nella quale l’unica consolazione proveniva dal delicato arpeggio di sottofondo. Cantava con gli occhi chiusi e le sopracciglia lievemente aggrottate: così non vide che Estel, conquistata da quella canzone, si sedeva meglio sul soffice tappeto della camera e lo osservava quasi rapita. Sicuramente, se i loro sguardi si fossero incontrati in quel momento, sarebbe stata una scarica elettrica micidiale.
Erano i loro pensieri, invece, ad essere eccezionalmente vicini, anche se loro non lo sapevano. Si accarezzavano e si intrecciavano in un altro mondo, dove non servivano gli occhi per vedere.
Estel si avvicinò di qualche passo, e Griša senza essersene accorto scese dal letto e si sedette sul tappeto, concludendo la ballata su un accordo di settima, che sembrava lasciarla in sospeso sull’orlo di un abisso. Sospesa all’ultimo filo di speranza.
Aprì gli occhi e si trovò seduto di fianco a Estel… ma in fondo se l’era quasi aspettato. Non trasalì, e sostenne il suo sguardo, ancora incantato dalla musica.
C’era silenzio; un silenzio privo di imbarazzo e greve di magia.
Estel e Griša si scambiarono un timido sorriso, diverso da tutti i precedenti, poi entrambi distolsero gli occhi, l’una verso la notte limpida che si intravedeva dall’abbaino, l’altro sulle corde della chitarra.
«È stato stupendo» disse infine lei, alzandosi «Un’emozione che non dimenticherò mai. Grazie… generale. Ora però è meglio che vada, prima che mia mamma inizi a chiedersi dove sono finita. E ancora complimenti: non mi sarei mai aspettata che qualcuno cantasse per me, mi hai resa davvero felice».
Come lasciarla andare? Griša avrebbe voluto scrivere una nuova canzone sul momento, e dedicargliela… ma sapeva che lo stato di grazia che ancora vibrava nell’aria non si sarebbe più ricreato. Così si limitò ad accompagnarla alla porta: ormai il breve sprazzo di paradiso che avevano creato apparteneva al passato. Era una briciola che lui avrebbe conservato gelosamente, un lumicino alla cui luce scaldarsi in tempi più bui futuri.
Prima di andarsene, Estel osservò: «Non dovevi andare a tagliarti i capelli, oggi? Non noto la differenza». Griša fece spallucce e spiegò: «Il barbiere non aveva tempo, ci andrò lunedì pomeriggio». Poi gli venne un’idea e azzardò, con l’ormai consolidato tono indifferente: «Ti andrebbe di accompagnarmi? Non dovrei metterci più di venti minuti, oppure ci possiamo incontrare dopo».
Un secondo dopo erano già d’accordo.
Di nuovo solo, e Dralbij non sarebbe tornato. Griša non aveva voglia di fare nulla, se non accoccolarsi sul davanzale interno della finestra a guardare le stelle e sognare ad occhi aperti. Da tempo non si sentiva così sereno: era una sensazione rara, da centellinare e al contempo da assaporare briciola dopo briciola.
Dralbij, rincasando, lo trovò ancora acciambellato sul davanzale, ma profondamente addormentato. «Stai bene?» chiese preoccupato, svegliandolo «Sembri ubriaco, o ammalato». Lui non si scompose, non del tutto sveglio, e ciabattò verso la camera da letto mentendo: «Effettivamente non sto molto bene, devo avere qualche linea di febbre». Prevenendo la domanda successiva, poi, aggiunse: «Il famigerato pomeriggio è andato bene. Siamo andati al bar, e siccome al tramonto faceva troppo freddo per girare ancora, siamo venuti qui. Le ho fatto sentire la ballata che ho scritto con Asso a Capodanno, e devo dire che le è davvero piaciuta. Vuoi scusarmi, fratellone? Vado a letto».
Si infilò tra le coperte e finse di dormire; Dralbij, augurandogli la buonanotte, cercò di farlo sorridere: «Questa dev’essere l’influenza in ritardo dovuta alle tue follie nella neve. Mi sembra una forma acutissima, anzi cronica, della rarissima broncopolmotroncosasinosinusite galoppante!».
Ma Griša non era affatto malato: ubriaco di magia, di musica… e, sì, lo doveva confessare per sentirsi a posto con la sua coscienza: innamorato. Ubriaco d’amore, stremato dalla tensione. Non che avesse qualche speranza nei confronti di Estel, ma poteva vivere benissimo anche così, con le sue briciole e una strada costellata di lumicini da percorrere a ritroso. Sorrise, immaginando di abbracciare colei che amava.
E non si accorse di una lacrima solitaria come il suo cuore che svaniva dal suo viso sul cuscino.

Due giorni dopo, Griša inforcò la bicicletta per andare finalmente dal barbiere. Era riuscito così bene a chiudere la mente al pensiero di Estel che nessuno avrebbe potuto mai sospettare nulla; tenendosi sul vago, aveva detto che si sarebbero probabilmente visti nel pomeriggio. Se anche Dralbij aveva fiutato qualcosa, non lo diede a vedere.
Estel, come sempre, lo aspettava sotto il ponte che passava sulla Neva. Partirono assieme, raccontandosi quanto era successo nelle ultime quarantott’ore, sorpresi di avere così tanto da dirsi.
Arrivarono in anticipo dal barbiere, e dovettero aspettare qualche minuto sulla soglia. All’improvviso, Estel sfiorò con una mano la frangia scompigliata di Griša, chiedendo: «Hai intenzione di tagliarteli molto corti, i capelli? Secondo me stai benissimo così, e poi è divertente spettinarti!».
Fu in quel momento che Griša cambiò idea: effettivamente sì, era stufo dei ciuffi ribelli che nemmeno la brillantina riusciva a domare, e aveva pensato ad un taglio nello stesso stile di quello di Dralbij. Invece rispose: «No, promesso. Solo una spuntatina, giusto per vedere il mondo oltre la frangia e per non assomigliare ad uno di quei graziosi barboncini da salotto».
E mantenne la parola: nel giro di mezz’ora era già fuori, con i capelli appena accorciati. Dalla nuca gli partiva però un ciuffo molto più lungo, un codino raccolto a treccia sottile: ce l’aveva anche Dralbij, e lui se l’era lasciato crescere in segno di fratellanza. «Questo non l’avevo notato, ma è simpaticissimo!» esclamò Estel, non osando però avvicinarsi troppo. Nel tentativo di evitare l’argomento, Griša ribatté: «Perché? Finora non l’ho mai sentito fare battute esilaranti. E sì che non è molto distante dalle mie orecchie. Allora, cosa vuoi fare oggi pomeriggio?».
Lei si guardò intorno; in fondo alla strada, oltrepassato il ponte della ferrovia, c’erano solo i campi. «Andiamo di là» decise «Così ti farò vedere dove abito».
Se Griša non fosse stato appoggiato alla bicicletta, sarebbe caduto dritto sul marciapiede. «A casa tua?» rantolò, atterrito. Non sarebbe riuscito a fingere di essere calmo nemmeno sotto l’effetto di un forte sedativo. Si riprese in fretta, racimolando gli ultimi frammenti dell’Anti-Amore e i suggerimenti fraterni, e aggiunse con tono quasi professionale. «D’accordo, volentieri. Sei sicura che io non disturbi? Magari i tuoi genitori hanno qualcosa da fare, e un ospite in casa potrebbe rovinare i loro programmi». Estel si voltò verso di lui ribattendo: «Vivo praticamente sola. Mio padre non è più a Pietroburgo da qualche anno, e mia madre starà via, questi giorni, a casa del suo fidanzato verso Mosca. Andiamo!».
Si fermarono davanti ad una villetta, che Estel divideva con un’altra famiglia. C’erano un giardinetto sul davanti e uno spiazzo di cemento sul retro, e per arrivare alla porta di legno bisognava percorrere un piccolo viale, sul cui lato destro si intravedevano nella neve dei rosai congelati ma vivi: doveva essere bellissimo in primavera e in autunno, quel fazzoletto di terra.
Griša entrò in casa, chiedendo educatamente: «Permesso?» e pulendosi gli stivali sul tappeto esterno. Appena i suoi occhi si furono abituati alla penombra, distinse un cassettone subito a sinistra della porta, e morbidi tappeti lungo il corridoio. Sulla scalinata che portava al piano superiore erano appoggiate candele colorate e bastoncini di incenso, e dal suo punto d’osservazione intravedeva uno specchio in fondo al corridoio e uno scorcio del salotto, con un invitante divano rosso coperto da cuscini e coperte in pile. Non faceva caldo come a casa sua, ma si stava benissimo.
Estel gli fece strada su per le scale, lungo un secondo corridoio arricchito da tappeti e soprammobili, e infine si fermò davanti ad una porta chiusa. «Stai per entrare nel mio regno» annunciò in tono teatrale, aprendo la porta della sua camera. Griša deglutì ma non disse una parola.
Anche lì, tappeti: due variopinti scendiletto che circondavano un letto sfatto che mostrava lenzuola blu scuro stampate a stelle e galassie. Sul comò in fondo alla stanza spiccava uno stereo, e le rimanenti pareti erano occupate da due bassi, lunghi armadi blu coperti di pupazzi e ninnoli di ogni tipo. In un angolo, infine, troneggiava un computer. Estel vi si sedette davanti, lo accese e rivelò una lista esorbitante di canzoni di ogni genere ed epoca, dicendo: «Per un musicista come te, questa dev’essere un’autentica miniera. Non vedevo l’ora di fartele vedere! Prendi pure la sedia della scrivania e sistemati qui vicino, ho un sacco di cose da farti vedere».
Rimasero davanti al computer fino a sera; Griša scoprì come a Estel interessasse tutto ciò che aveva a che fare con la magia e due mondi tra loro contrapposti: quello sereno e luminoso degli elfi dei boschi e quello oscuro e tenebroso dei vampiri. Aveva abbastanza materiale da poter soddisfare qualsiasi genere di ricerca, e Griša scherzò: «Ricorrerò a te per quando dovrò preparare la tesina di maturità!». Senza rispondere, lei aprì una cartella del computer e svelò centinaia di ricerche e immagini sull’imperatrice Sissi. «È la mia eroina» spiegò, vedendo l’espressione di lui «Io non ho mai finito le superiori, ma se vuoi posso aiutarti a preparare una tesina su di lei. Credo che tu possa trovare da me tutto ciò di cui hai bisogno! Hai già qualche idea?» «Qualcosa» meditò Griša «Pensavo al tema del gioco d’azzardo, dato che mio fratello lavora come croupier, ma per il momento non ho ancora trovato argomenti convincenti, quindi potrei cambiare idea da un momento all’altro… e tu mi stai dando parecchi spunti! Ad esempio, il gotico e i vampiri… oppure una storia degli alfabeti e l’elfico… o magari qualcosa sul paranormale, dato che io sono uno studioso di quel genere di cose. Grazie!».
Era l’ora di cena quando Griša partì per rincasare. Come spiegare il suo enorme ritardo? Doveva star fuori al massimo un paio d’ore, ed era rimasto in giro tutto il pomeriggio: Dralbij poteva avere avuto bisogno di lui. Pedalò in fretta, socchiudendo gli occhi nel gelo, riesaminando le ore appena vissute. C’era qualcosa che gli sfuggiva, un dettaglio che stuzzicava il suo istinto di investigatore ed ex scrittore di gialli, ma lì per lì non riusciva ad identificarlo. Era troppo esaltato per ragionare lucidamente! Per quattro intere ore aveva avuto modo di contemplare la sua oscura dea, e almeno in un paio di occasioni, parlando, lei gli aveva preso una mano: se anche avesse cercato di riflettere, già sapeva che non ci sarebbe riuscito. Era molto meglio, invece, sforzarsi di arrivare a casa e inventare una scusa credibile.
Ma quando entrò in casa non era venuto a capo di niente.
Dralbij stava giocando al computer, e sentendolo arrivare commentò seccamente: «Già qui? Pensavo ti fermassi a cena da qualche parte. Dove sei stato? È tutto il giorno che ti cercano al telefono, non sapevo più cosa dire; ti converrebbe richiamarla, prima che sprechi altre chiamate» «Richiamare chi?» domandò lui, versandosi un bicchiere di tisana calda. Non aveva alcun programma, né scolastico né di altro tipo, e non vedeva chi potesse cercarlo con tanta insistenza.
Bastò la risposta del fratello a strappargli un urlo di terrore: «Bettina». Non era giusto! Era completamente felice per la prima volta da quando lei l’aveva lasciato, stava per riuscire a dimenticarla… e ora era lei a tornare! Depresso, sollevò la cornetta e compose a memoria quel numero fatto per anni ed anni.
«Finalmente ti degni di rispondere!» lo aggredì subito Bettina, rispondendo al primo squillo «Ti chiamo in qualità di vicecaporedattrice del giornalino scolastico. Vedi, abbiamo bisogno di nuovi redattori, ed era inevitabile pensare a te come scrittore: ti andrebbe di pubblicare qualcuno dei tuoi racconti più brevi, o delle poesie, o qualunque altra cosa? Puoi spedire i fogli – scritti a macchina, mi raccomando – a casa nostra, se non ti ricordi più l’indirizzo della scuola: al resto provvedo io. Ci stai?» «Va bene» fece lui in tono granitico «Quante pagine?».
Leggermente sorpresa da quella freddezza, lei spiegò rapidamente: «Una facciata, circa una sessantina di righe. Ma… John? Sei sempre tu?».
No, non era più il vecchio John di Southampton. Quel nome impostogli in orfanotrofio non gli apparteneva più, era solo il simulacro di quella parte di lui che era morta. «Tina…» incominciò, e subito si fermò scuotendo la testa per allontanare le ombre del passato che gli si infiltravano nel cuore «D’accordo, Bettina. Spedirò i racconti. Posso avere, quando uscirà, la copia del giornale? Il mio indirizzo è Via dei Fiori Bianchi, numero 17, San Pietroburgo, Russia. E ora è meglio se ti saluto: una telefonata in Inghilterra, da qui, costerà un patrimonio».
Bettina cercò ancora di indagare: «Mi sembri strano… o forse è la linea disturbata? Anzi, aspetta, fammi indovinare: ti sei trovato la fidanzata in Russia? Dev’essere così, ecco perché mi parli con un tale distacco. Dopo tutte le tue promesse di amore eterno, sei stato pronto a dimenticarmi così. Già, tipico di voi Antirealisti! Ci si sveglia, il sogno finisce, e subito ne subentra un altro al suo posto…» «Devo andare, Maestà» ringhiò lui. Aveva completamente dimenticato che la Bettina che aveva amato non esisteva più: i due innamorati del 1971 erano scomparsi per sempre, ora erano solo i comandanti di due eserciti nemici. Riattaccò con un debole saluto e si lasciò cadere davanti al caminetto, immobile, con le palpebre serrate. Gli ci volle qualche minuto per recuperare i sensi, ma almeno quella telefonata l’aveva svegliato del tutto: si sentiva di nuovo se stesso, capace di dominare l’amore e il passato in una sola volta. Fischiettando ostentatamente, tornò da Dralbij e si vantò: «Nella mia vecchia scuola in Inghilterra richiedono i racconti che ho scritto per pubblicarli sul giornalino! Morgana e Bettina sono a capo della redazione, e volevano chiedermi di spedire loro qualcosa. Che ne dici, proviamo a mandare anche qualcosa di tuo? Ho sempre adorato i racconti che scrivi in treno quando torni da scuola… soprattutto le tue invenzioni riferite a persone che incontri, che vedrai una volta e mai più. Potremmo copiarne qualcuno a computer e spedirli in blocco. Meglio ancora: oggi ho visto quant’è veloce Estel con la tastiera del computer. Scrive senza guardare i tasti, ad una velocità che ha dell’incredibile, e sicuramente sarebbe lieta di aiutarci!».
Si era tradito da solo senza nemmeno accorgersene: gli era sembrato così naturale dire di essere stato da lei che non aveva minimamente pensato a nasconderlo. «Ecco dov’eri» commentò Dralbij con voce incolore «Giusto, avrei dovuto pensarlo subito e dire a Bettina che ti cercasse là».
Griša rabbrividì: se fosse successo veramente!… «Estel potrebbe aiutarmi con la tesina» sbottò «Ha materiale per tutti i gusti». Per evitare il discorso senza destare sospetti, infine, prese dalla credenza un mazzo di carte e propose: «Mentre aspettiamo che l’acqua bolla, perché non facciamo una partita a scopa?».
Dralbij spense il computer e si sedette al tavolo con lui, iniziando a mescolare le carte con l’abilità di chi lo fa per mestiere. Quattro per sé, quattro per il fratello e quattro in tavola; quando Griša incominciò a giocare, troppo concentrato sulle carte per accorgersi di altro, lo scrutò attentamente negli occhi scuri: erano limpidi e felici, ma non furtivi. Quello che lui e la signora Mary temevano non era ancora successo. C’era però il fatto che perdesse regolarmente ogni partita: e, se era vero il detto “sfortunato nel gioco – fortunato in amore”…

Le corse in bicicletta nel vento di gennaio erano state distruttive per Griša; quell’ultima uscita, poi, con i capelli ancora umidi dopo il barbiere, aveva dato il colpo di grazia alla sua salute. Si svegliò il mattino dopo con un raffreddore micidiale, e nel giro di una mattinata scolastica gli salì la febbre a trentanove: quando tornò a casa – Dralbij, con l’ultima lezione alle cinque del pomeriggio, sarebbe stato via di casa come minimo fino alle nove – si buttò sul letto senza nemmeno pranzare e si addormentò, per l’effetto della medicina che aveva preso.
Dralbij, quando lo trovò in quelle condizioni, si dimostrò subito premuroso e gentilissimo: gli preparò un tè caldo, gli portò tutto ciò di cui aveva bisogno e si fermò a fargli compagnia mentre aspettava che l’aspirina cominciasse ad agire contro il raffreddore, ma non poté trattenersi dal commentare: «Tutta quella strada in bicicletta con una dozzina di gradi sotto zero e i capelli bagnati. Volevi tentare il suicidio oppure semplicemente avresti dato anche la tua vita per Estel?».
Griša alzò gli occhi castani resi lucidi e rossi dalla febbre, e lo squadrò gelidamente. Certo, la loro telepatia fraterna aveva colpito ancora. «È una ragazza eccezionale» ringhiò, sulle difensive. Dralbij non volle approfondire la questione, ma ormai i suoi sospetti si erano rivelati terribilmente fondati: meglio comunque che la signora Mary non lo venisse a sapere, o avrebbe rischiato un collasso.
Forse per gli sbalzi di temperatura tra la casa e l’esterno, forse per la sua cocciutaggine che lo spingeva ad andare a scuola anche con la febbre, Griša non riusciva a guarire dall’influenza. Aveva sempre il naso che colava e una tosse profonda: impossibile, per il momento, affrontare la lunghissima strada in mezzo ai campi. Un paio di volte Moonlight gli diede un passaggio in macchina, rendendo i suoi pomeriggi autentici paradisi senza rendersene conto. O meglio, lui sapeva benissimo di fare la felicità di qualcuno, ma non di Griša: era Estel che gli chiedeva sempre di aiutarla a organizzare quegli incontri.
Agli occhi esperti di Moonlight, che aveva visto nascere e svanire nel nulla tanti facili amori dell’amica, quella risultava poco più di un’infatuazione; strano, tuttavia, che se così fosse Estel non avesse ancora iniziato i suoi tentativi di accalappiare Griša. Sembrava limitarsi a godere delle ore che passava con lui e accontentarsi di sfiorargli i capelli con una carezza mascherata da futili scuse, e si struggeva nell’immaginare come sarebbe stata la sua vita con lui.
Anche in Via dei Fiori Bianchi la situazione era speculare: Griša sarebbe morto piuttosto che ammettere a qualcun altro eccetto il suo diario di essere innamorato di Estel, e cercava di evitare l’argomento perfino con Dralbij. Era furioso con se stesso per esserci caduto così facilmente, e poiché dal basso del suo profondo, sconfinato pessimismo riteneva di non avere la minima possibilità, non faceva che sognare e scrivere racconti carichi di illusione, che nascondeva diligentemente in camera da letto.
Finché un giorno, 30 gennaio, finalmente guarito dal raffreddore si affrettò a proporre a Estel di passare insieme il pomeriggio: si erano sentiti solo per telefono, ed entrambi non vedevano l’ora di rincontrarsi.
Ma quel giorno faceva davvero troppo freddo per stare fuori: si barricarono in una caffetteria, a bere tè caldo insieme a tramezzini per merenda, e si persero in un discorso nel quale ognuno cercava di far capire all’altro ciò che provava senza compromettersi. O forse cercavano di nasconderlo.
«Sono il generale Antirealista» stava dicendo Griša con sussiego «È chiaro che i sogni per me significhino tutto. Ad esempio: non è dolcissimo essere innamorati di una persona e poter rivivere attraverso un nitido ricordo – magari attraverso un racconto – i momenti vissuti? Oppure sognarla, semplicemente, e percorrere con lei i labirinti della mente?». Estel si sentì un tuffo al cuore: dunque era innamorato di qualcuno. «Hai ragione» mormorò, evitando il suo sguardo «A volte i nostri sogni possono aiutarci ad andare avanti, anche se… Dio, è terribile essere costretti ad affrontare la realtà dopo che si è quasi riusciti a credere nella propria immaginazione! Io comunque non mi sono mai arresa: per quanto la realtà possa accerchiarmi, le mura del mio castello di sogni sono ancora abbastanza solide per sostenere l’assedio».
Griša rimase pietrificato da quelle parole, e finalmente le sue idee trovarono le basi su cui erigere una nuova costruzione. Ben consapevole di essere sul punto di compiere un gesto che avrebbe dato una svolta all’intero esercito Antirealista, parlò sforzandosi di apparire tranquillo: «Conoscere una persona come te è stato un vero miracolo, del quale non ringrazierò mai a sufficienza mio fratello. Mai avrei creduto di incontrare un altro spirito Antirealista come il nostro! Estel, mia cara, come generale credo che tu sia degna di assumere un grado molto alto tra le nostre file: sarebbe un onore, per me, se accettassi di diventare… colonnello».
Una strana luce le brillò in fondo ai pozzi di ghiaccio che erano i suoi occhi mentre, con un sorriso nascosto dalle dita affusolate, giurava fedeltà all’Antirealismo: «Sì, Grigorij… sì. E Moonie? Anche lui la pensa allo stesso modo, non merita di essere dei nostri?» «Come capitano» replicò lui.
Avrebbero voluto festeggiare lì, sul momento, quel “sì” così convinto e orgoglioso, ma forse era meglio aspettare che tutti ne fossero al corrente per poter organizzare una vera festa. Quale occasione migliore del futuro venerdì pomeriggio? Era prevista un’uscita con tutta la compagnia, compresa una possibile ragazza di Moonlight: Dralbij aveva già in programma di recarsi a casa di un collega per ripassare le lezioni di matematica, quindi era inevitabile che lui ed Estel si sarebbero trovati soli per organizzare nei dettagli la serata.
«Moonlight e Stella, dopo, vorrebbero andare in pizzeria per conto loro» rifletteva Estel «Forse non è il caso di festeggiare proprio questo fine settimana, se Moonie è in dolce compagnia non ci penserà molto al grado di capitano che gli spetta. Rimandiamo?». Griša da tutto il pomeriggio non faceva che tormentare la cerniera della giacca, torcendosela tra le mani e rispondendo distrattamente nei discorsi. Sentendo quelle logiche considerazioni, però, non riuscì più a trattenersi e azzardò: «Anche Dralbij sarà impegnato, quindi a me e te toccherebbe soltanto tornare a casa. Perché invece non andiamo a mangiare qualcosa fuori anche noi? Così, tanto per…» esitò, poi concluse in un impercettibile sussurro «…per stare insieme una sera senza gli altri». Lei, appena stupita dal suo indugiare, non ebbe alcuna esitazione ad accettare subito l’invito.

Nei cinque giorni che seguirono, Estel e Griša si videro costantemente: capitava sempre che uno dei due avesse qualche impegno nel centro di Pietroburgo, e finivano sempre per trovarsi assieme. Dralbij non aveva più nulla da obiettare, ora che “il generale usciva insieme al colonnello”, e perfino la signora Mary si era rassegnata: «Io ti ho detto come stanno le cose e che tipo è quella ragazza» aveva sospirato tristemente «Ma sono per te come una madre, e il mio affetto per te non verrà mai meno».
Così, quel 3 febbraio del 1976, Griša poté finalmente andare fuori senza sensi di colpa e senza l’angoscia di trovare qualcuno che lo conoscesse.
Per la prima volta in vita sua aveva cercato di vestirsi in maniera meno trasandata del solito, e i capelli di solito scompigliati gli ricadevano ordinatamente sulla fronte e intorno al viso, setosi e lucidi di riflessi biondo scuro. Estel rimase sorpresa, quando lo vide così ben messo, e invece del solito «Buongiorno, generale!», gli riservò una lunga carezza tra i capelli che lo lasciò oltremodo sorpreso.
Moonlight e Stella sembravano completamente felici insieme: camminavano abbracciati, persi nel loro mondo di innamorati, ma nessuno faceva loro una colpa. Sembravano così felici! Quel giorno, poi, c’era un bel sole che riusciva a dare un lieve tepore alla ghiacciata Pietroburgo: era bello passeggiare per esempio lungo le affollate vie del centro o attraverso i giardini pubblici, che il venerdì rimanevano giustappunto aperti anche dopo il solito orario di chiusura.
Mezzo passo indietro, intanto, Estel si era soffermata davanti ad una fiammante automobile nera parcheggiata lì vicino, e la stava osservando incantata. Griša la raggiunse e fece per sospingerla via gentilmente, scherzando… invece la prese per mano e mormorò: «Andiamo?».
Era stato un gesto perfettamente puro e spontaneo, così ovvio che per un istante non si rese conto di quello che aveva fatto. Estel, dal canto suo, non riusciva a crederci: era stato un caso… oppure no? Decise di indagare. Pian piano, sforzandosi di continuare a chiacchierare come se niente fosse, gli strinse la mano e si accostò leggermente a lui.
I mesi passati a nascondere le sue emozioni furono fondamentali in quel momento per Griša: perfettamente impassibile esteriormente, dentro di sé era combattuto tra il desiderio di arenarsi lì, in mezzo alla strada a fermare il tempo, e la tentazione di fuggire a gambe levate. Anche se davvero l’avesse voluto, in ogni caso, non ne sarebbe stato in grado: aveva completamente perso la ragione, e non sapeva più cosa fare.
Vide, o gli parve di vedere, lo sguardo ammiccante e felice di Moonlight, ma non ebbe il coraggio di voltarsi verso Estel, temendo ciò che avrebbe potuto leggerle negli occhi.
Lei, intanto, sembrava aver preso una decisione: gli si appoggiò a un braccio e commentò in tono soave: «Hai freddo? Stai tremando. Andiamo a prendere una cioccolata calda? Conosco un posto dove la preparano benissimo, e per arrivarci dobbiamo attraversare proprio la piazza in cui Dralbij ci aspetta».
Un quarto d’ora dopo, perfettamente in orario, passarono a prendere Dralbij e si diressero tutti e cinque verso la caffetteria. Dralbij non fece una parola, ma fu impossibile impedirgli di sibilare maliziosamente rivolto al fratello in modo che solo lui lo sentisse: «A braccetto siete proprio carini. Se ti vedesse la mamma!» Griša digrignò i denti, ma non era nemmeno in grado di ribattere a tono. «E sta’ zitto!» articolò difficoltosamente.
Dentro la caffetteria c’era una piacevole tepore profumato di caffè e di brioches. Occuparono un tavolo intorno al quale ruotava un divanetto, e depositarono tutte le giacche in un angolo. Griša, quel giorno, si era messo un baschetto di jeans che costituiva parte della sua uniforme da generale Antirealista, e lo lanciò senza badarci sul mucchio dei giubbotti. Estel, però, lo afferrò al volo osservando: «Perché te lo sei tolto? Stavi benissimo! Vorrà dire che, pur essendo soltanto il colonnello, lo metterò io». Mantenne la parola: e quel cappello le stava innegabilmente bene.
Stella e Moonlight erano troppo presi dai loro discorsi per rendersi conto di altro; Dralbij, osservandoli, brontolò disgustato: «L’amore: che ridicolaggine! Due persone che si rovinano la vita credendo di avere chissà cosa in mano… per niente. Credono di costruire il mondo, e basta una parola a far crollare ciò che si credeva indistruttibile» «Ma non è sempre così» protestò Estel «Pensa a tutte quelle coppie che durano fino alla vecchiaia, felici fino all’ultimo…». Dralbij la interruppe, gelido: «…e per fortuna che c’è un fine alla vita! Ti immagini quanto dev’essere snervante trascorrere l’intera eternità con la stessa persona, magari costretti alla fedeltà? Mi dispiace, io sono per il sesso libero senza amore!». Stavano per mettersi a discutere più animatamente riguardo la differenza tra sesso e amore, quando Griša non ne poté più e sbottò: «Oppure si può vivere una costante adorazione per un’altra persona, gioire delle sue piccole gioie e raccogliere tutte le briciole possibili per andare avanti senza incontrare i problemi che l’amore sempre comporta» «E tu la pensi così?» gli chiese a bruciapelo Estel. Lui alzò le spalle e bisbigliò: «A volte è bello riuscire a non cercare qualcosa di più di un sorriso». Parlando si era stiracchiato sul divano, appoggiando un istante le braccia lungo la spalliera per sgranchirsi le spalle; ed Estel scelse proprio quel momento per appoggiarsi nell’incavo del suo braccio, chiudendo gli occhi con un sospiro: «Ho dormito poco, oggi, sono proprio stanca».
Moonlight le fece un inequivocabile gesto di trionfo; Dralbij strabuzzò gli occhi blu fino a farseli sporgere dalle orbite. Griša, lentamente, come se temesse che una bomba potesse esplodergli addosso da un momento all’altro, le circondò le spalle con un braccio. Si rendeva conto del tremito che lo percorreva tutto, ma non riusciva a controllarlo: quella era in assoluto la migliore briciola che gli fosse capitata.
Rimasero seduti lì fino all’ora di cena, quando Dralbij fu il primo ad andarsene. Stella e Moonlight lo seguirono poco dopo, diretti verso la pizzeria. Si salutarono, promettendosi di uscire ancora tutti assieme il prima possibile.
Estel sembrava quasi addormentata. Griša le scostò timidamente un ciuffo di capelli corvini che le ombreggiava il viso e sussurrò: «Cosa ne dici, andiamo anche noi a prenderci un pezzo di pizza al taglio o vuoi restare qui tutta la notte?». Erano incredibilmente vicini, e se ne rendevano conto; fu lui a tirarsi indietro, scotendo la testa per allontanare i pensieri, e le porse cavallerescamente la giacca accompagnandola fuori dopo aver pagato.
Perché spendere altri soldi per mangiare fuori, quando potevano benissimo andare in Via dei Fiori Bianchi? La casa era libera, non avrebbero disturbato per preparare una cena per due. E così partirono lungo la strada, avvolgendosi bene nelle sciarpe per ripararsi dall’aria ormai nuovamente freddissima. Camminavano appoggiati l’una all’altro, per scaldarsi o forse soltanto per trovare un altro tipo di tepore, quando la macchina grigia di Moonlight accostò qualche metro avanti a loro, e Moonlight abbassò il finestrino chiamandoli: «Avete deciso di andare a casa? Non eravamo d’accordo che vi saremmo venuti a prendere alle undici in piazza? Salite dietro, vi porto io» «Più caldo e più semplice mangiare a casa mia» rispose Griša, accettando di buon grado il passaggio che veniva loro offerto.
Così come aveva fatto in caffetteria, di nuovo Estel si rannicchiò con la testa su una spalla di Griša, ma stavolta lui non esitò ad abbracciarla, con la scusa del terribile freddo. Anzi, di più: appoggiò la fronte su quei capelli lunghissimi e soffici e chiuse gli occhi, completamente beato.
Forse fu troppo tardi per impedirlo, o forse semplicemente successe. Estel alzò il volto pallido verso di lui, guardandolo dritto negli occhi scuri, e gli prese una mano, intrecciando le dita. Griša la lasciò fare, sostenendo il suo sguardo fino a quando furono così vicini da sfiorarsi con la fronte.
Chi fece la prima mossa? Nessuno lo saprebbe dire: d’un tratto, cullati dalla macchina che procedeva lungo la strada, si abbracciarono più stretti. Dopo un attimo di esitazione, cercando una conferma reciproca, si scambiarono un fuggevole bacio sulle labbra.
Ma ormai erano arrivati a casa, e scesero sull’asfalto che scintillava già di ghiaccio. Moonlight si rivolse a Estel, ostentando una tranquilla indifferenza: «Vuoi che venga a prenderti qui io al ritorno dalla pizzeria oppure preferisci chiedere a Dralbij se ti accompagna a casa con la sua macchina?». Per lei era indifferente, le bastava solo essere lì, ora. Si misero d’accordo per mezzanotte.
Finalmente soli, al caldo, con parecchie ore davanti per affrontare i loro sentimenti. Si sentivano imbarazzati per quanto era accaduto in macchina, e non sapevano fino a che punto spingersi in quella strana solitudine che sapeva di desiderio, di timore, di un passato che non vuole passare.
Griša mosse qualche passo indeciso verso la cucina, indicando al contempo il divano del salotto: «Accomodati pure lì, mentre preparo una pasta. Con cosa la preferisci?». Gli tremavano le mani mentre sollevava la pentola piena d’acqua per metterla sul fornello, e non riuscì ad accendere il gas.
Titubante, tornò in salotto. Estel, rannicchiata sul divano, fissava la cenere del caminetto senza vederla. D’un tratto si voltò a guardarlo e tese le braccia, in un muto invito a raggiungerla.
Lui ubbidì, avvicinandosi a piccoli passi.
Si sedette in fianco a lei, accogliendola in un abbraccio nervoso, ma a poco a poco si arrese e rimase immobile, semplicemente stringendola a sé. Poteva ancora sbagliarsi? Poteva ancora essere tutto un abbaglio? Il dubbio lo stava facendo a pezzi, eppure era così bello stare così, abbracciati senza dire una sola parola. Quasi inconsapevolmente le passò delicatamente le dita tra i capelli. Estel lo baciò.

Fu come perdersi lungo sentieri dimenticati. Ma c’era qualcosa che non andava, una nota stonata in quell’intensissimo bacio.
All’improvviso Estel si alzò con uno scatto, stringendo le palpebre. «No, no, non posso!» balbettò «Tu non sei come me!». Griša la guardò senza capire, sconvolto e incapace di reagire. «Come te… in che senso?» cercò di sapere. Ecco, appunto: era troppo bello per essere vero. Frustrato e abbattuto, distolse lo sguardo da lei e si acciambellò sul divano. Cos’avrebbe potuto fare, adesso?
Estel aveva gli occhi lucidi, colmi di lacrime, quando gli accarezzò il viso serio. «Avresti paura, fuggiresti, e io ti perderei per sempre. Non posso stare senza di te! Meglio che tu non sappia mai la verità…» «Sei fidanzata?» disse prontamente Griša, che già troppe volte aveva vissuto quella situazione.
I suoi occhi erano pozzi scuri di disillusione: certo, non sembrava nello stato d’animo di spaventarsi per qualcosa. Ma una simile rivelazione! Come aveva potuto pensare una cosa simile di lei? Lentamente, gli sfiorò le labbra con un dito. «Promettimi una cosa» gli disse «Te la senti?». Lui la guardò, con le fiamme dell’amore che ormai gli divampavano in fondo agli occhi. «Tutto quello che vuoi» giurò.
Estel, allora, gli rivolse un debole sorriso. «Promettimi che non urlerai né fuggirai da me dopo quello che ti rivelerò. È un segreto… e il motivo per cui tra me e te non ci potrà mai essere niente, per quanto i miei sentimenti nei tuoi confronti siano immensi». Griša la ascoltava, statuario e pronto a tutto. La sua solidità esteriore non tradiva il suo cuore che tremava nell’attesa di quella che, lo sentiva, sarebbe stata una pugnalata. Le teneva le mani tra le sue, quando promise: «No. Resterò qui, qualunque cosa accada».
«Tu sei un mortale. Io no» esordì lei «Sono la figlia della Regina degli Elfi e del Re dei Vampiri. Di giorno in me batte il cuore di un elfo, ma la notte… guarda tu stesso». In un lampo di luce viola i suoi occhi acquistarono un sinistro bagliore, quello stesso azzurro elettrico che catturava gli sguardi. Teneva le labbra socchiuse, lasciando intravedere i quattro canini terribilmente acuminati, aguzzi, le cui punte superiori spuntavano ai lati della bocca. Eppure, anche così, con l’aura di morte che le aleggiava intorno, era bellissima.
Griša la abbracciò esclamando: «Per questo? È questo che ci divederà per sempre? La tua natura… o il fatto che tu sia una regina e io un vagabondo cresciuto per strada? Per me non fa nessuna differenza, io… io sarei tuo in ogni caso e per sempre! Qualunque cosa tu desideri, io la esaudirò!».
Se Dralbij l’avesse sentito!… Ma non gli importava, ormai, non gli importava più di niente. Si era lasciato andare, e prima ancora che tra lui ed Estel cominciasse quello che entrambi sognavano stava già provando un enorme dolore: e se Dralbij e l’Anti-Amore, in fondo, avessero sempre avuto ragione? Scosse la testa per snebbiarsi le idee e allontanare quei pensieri, poi tornò a rivolgere gli occhi verso di lei in una muta supplica senza speranza.
Estel gli accarezzò piano il profilo del volto, irrigidito in quella tensione: inutile, anche per lei era tardi, era andata troppo avanti senza rendersene conto. E, una volta scoperto che i suoi sentimenti erano così limpidamente ricambiati, non sarebbe riuscita ad impedirsi di varcare la soglia del paradiso.
Immobile, teso verso di lei come sull’orlo di un dirupo, Griša aspettava solo una risposta. Man mano che il silenzio si faceva più pesante, anche i suoi sempre più deboli miraggi venivano meno. Era combattuto tra il desiderio di prenderla tra le braccia, tirarla a sé e soffocare in un abbraccio tutta la confusa paura che sentiva dentro oppure lasciar perdere… anche se in tanti anni aveva lasciato perdere fin troppo.
Era sul punto di abbassare la testa e arrendersi, e forse l’avrebbe fatto. Ma Estel, facendogli scorrere delicatamente le unghie lungo il collo, si lasciò cadere di fianco a lui e lo baciò con rinnovata passione. Sorpreso da tanto ardore ricambiò, prima indugiando su quelle labbra che aveva agognato per settimane, poi lasciandosi andare sempre di più. Teneva gli occhi socchiusi, per non perdere un solo dettaglio del volto di lei, e le passava dolcemente le dita tra i capelli.
Mai in vita sua aveva desiderato tanto una persona, o forse l’aveva dimenticato. Sfiorare di baci i suoi canini mortali gli procurava brividi mai provati prima; il trepidante contatto delle morbide labbra lo catapultava in un mondo oltre ogni umana comprensione.
Anche Estel si era completamente abbandonata a lui: quasi non osava respirare, per paura che tutto svanisse come un bellissimo sogno, e affondandogli le dita tra i capelli della nuca, più corti e leggermente arricciati dal sudore impalpabile dell’agitazione, le sembrava di non doverlo perdere mai. Gli baciò la gola, fremendo nel sentire il rapidissimo pulsare del sangue, e desiderò dolorosamente di poterlo mordere, trasformandolo in un vampiro come lei in modo da averlo accanto per tutta la durata della sua vita eterna. Per un istante fu sul punto di cedere, ma riuscì a frenarsi; non abbastanza in fretta, però, da impedire che le punte affilate dei suoi canini scivolassero leggere su quella pelle percorsa da brividi.
Griša ebbe l’impulso di ritrarsi, preoccupato, ma lo trattenne sussurrandogli sulle labbra: «Non lo farei mai senza il tuo consenso. Abbracciami stretta… tesoro».
Per il resto della serata non si mossero: rimasero avvinghiati sul divano, concedendosi solo qualche delicato bacio ogni tanto. Era buio, l’unica luce proveniva dalla luna che li vegliava dall’abbaino, ma era magnificamente luminosa. I due innamorati lasciarono andare un lungo sospiro.
«Hai paura?» mormorò Estel languidamente, stringendogli una mano. Griša non osò riflettere sulla situazione in cui si era trovato, ma ugualmente esitò prima di rispondere: «No. Sono felice, più di quanto lo sia mai stato. È solo che… non avevo mai… mai baciato una vampira, prima d’ora!». L’aveva detto in modo che suonasse come una battuta, ma si vedeva che era davvero intimorito.
Rimasero così fino a quando mancarono pochi minuti alla mezzanotte; allora, Estel cominciò ad avvolgersi nella sciarpa pronta a tornare a casa, ma non tralasciò di rivolgere un sorriso radioso al suo innamorato che ancora sembrava intenzionato a non lasciare il divano. Non si curò, per la prima volta in vita sua, di nascondere i denti appuntiti; e Griša ricambiò il suo sguardo con un’espressione dolcissima che nessuno gli aveva mai visto.
Si stavano salutando con un bacio, appoggiati al portone di casa, quando arrivò Moonlight. Il quale, discreto e riguardoso, attese con aria di finta ingenuità che finissero, prima di aprire la portiera della macchina e chiamare Estel.
«Ci rivedremo presto?» le chiese Griša umilmente, lasciandola andare a malincuore. Lei ebbe in un lampo un’idea: «Posso invitarti a pranzo lunedì? Verrò a prenderti all’uscita da scuola, e andremo in bici fino a casa mia. Poi… c’è sempre il riposino del dopo pranzo!».
Fu solo quella prospettiva a indurlo a non rincorrere la macchina. Dio, quanto la desiderava! Invece rimase a fissarla mentre si allontanava nella notte, incurante del freddo che gli si infiltrava sotto la giacca aperta.
Rientrò in casa solo quando la strada fu di nuovo deserta, e si accasciò sul divano riflettendo attentamente. Si era cacciato proprio in una bella situazione, pensò con sarcasmo, e non aveva la minima idea di quello che gli sarebbe potuto accadere. Soprattutto, un dubbio aveva già iniziato a roderlo con i suoi denti simili a rasoi: Estel era davvero la sua ragazza, ora, o quei baci erano stati solo una follia improvvisa e sterile? Strinse gli occhi; no, lei l’aveva chiamato “tesoro”… e, in ogni caso, era stata troppo dolce e sincera nei suoi confronti.
Il problema, ora, era dirlo a Dralbij: l’avrebbe presa malissimo, dopo tutti i loro discorsi sull’Anti-Amore. Non sarebbe però stato in grado di spiegargli la questione: gli avvenimenti del pomeriggio avevano abbattuto la sua lucidità mentale, c’era il rischio che si tradisse o che fosse troppo avventato.
Si alzò, determinato, e riassettò accuratamente la stanza: nel giro di pochi minuti era già pronto ad andare a dormire, senza tralasciare di scrivere nel suo fedelissimo diario. Gli sarebbe convenuto riposare: lo aspettava un compito di greco, l’indomani, e greco non era certo la sua materia forte.
Dralbij rincasò verso mezzanotte e mezza, e lo trovò seduto alla scrivania, tutto intento a scrivere rapidamente sulla voluminosa agenda nera che gli serviva da diario. Stava usando la penna d’oca, che sfoderava solo nelle occasioni migliori, e il suo inchiostro preferito, quello viola. Teneva le sopracciglia aggrottate, e per un attimo non si accorse della sua presenza.
Conclusa la pagina, alzò gli occhi e incrociò lo sguardo interrogativo di Dralbij: non gli fu facile trattenere un grido, ma il suo sobbalzo non passò inosservato. «Non ti ho sentito arrivare» si giustificò «Da quant’è che sei qui?».
Dralbij sbadigliò: «Sono appena arrivato, e non vedo l’ora di andare a letto. E tu cosa ci fai ancora sveglio, col compito di greco tra poche ore e la sveglia alle sei e mezza?».
Griša non resistette oltre: tra lui e suo fratello non c’erano mai stati segreti, e se avessero incominciato proprio ora, in una situazione così delicata, avrebbero rischiato di compromettersi per sempre. «Fratellone» incominciò, con la voce rauca e gli occhi spalancati che scintillavano «Io ed Estel ci siamo messi insieme, oggi. Lo so… cioè, non so nemmeno io come possa essere successo, ma…» «Auguri» ribatté Dralbij, senza scomporsi «Era da un mese che sembravate sul punto di farlo. Mi dispiace, questo sì, perché ti credevo più coerente nelle tue decisioni. Tuttavia… l’avevo sempre saputo. Tu sei bravissimo a recitare, a fingere, a indossare maschere, così come sei abilissimo a farti scudi contro i sentimenti. Peccato che stavolta Estel sia stata più forte delle mura del tuo castello. Io sono veramente dell’Anti-Amore: togliersi il cuore, inutile, e ricavare i piaceri della vita sfruttando gli altri e calpestando i sentimenti di chi ha osato farci soffrire per qualche motivo. Tu no, tu hai un cuore pieno di sentimenti buoni che finora nessuno ha mai apprezzato fino in fondo. Quasi nessuno. Quindi… in bocca al lupo. Può darsi che sia questo il tuo destino».
Parlando aveva preso il mazzo di carte da poker. «Ora lancerò le carte» annunciò «Prendine al volo una».
Cinquanta carte si sparsero nella stanza. Caddero tutte coperte intorno a Griša, eccetto quella che lui aveva afferrato.
L’asso di cuori.

Il compito di greco sarebbe stato un disastro, se Griša non avesse avuto l’appoggio del migliore amico dal banco dietro il suo. Asso, vedendolo distratto e sempre più in crisi con la traduzione, scribacchiò su un pezzetto di carta le righe che aveva tradotto e lo avvolse accuratamente intorno alla gomma. Notando i suoi gesti con la coda dell’occhio, Griša sillabò: «Ti devo un favore», e soggiunse più ad alta voce, in modo da farsi sentire anche dal professore: «Potresti prestarmi la gomma, per favore? Ho riempito il foglio di segni sbagliati, ma per fortuna ho anche trovato l’errore».
Il professore si avvicinò, strizzando le palpebre dietro la montatura degli spessi occhiali. Fece qualche passo con la sua andatura dinoccolata verso di loro, ma subito intervenne un terzo elemento della loro solida catena di copiatura e suggerimenti, chiedendo innocentemente: «Scusi, professore, posso chiederle un chiarimento?».
Griša sfilò rapidamente il bigliettino e lo nascose nell’astuccio, sotto il righello, quindi si rituffò nel vocabolario, dando a vedere di aver trovato il verbo che gli mancava per completare la struttura della frase. Mezz’ora dopo, aveva finito la versione. La trascrisse in bella copia, e prima di consegnarla restituì la gomma ad Asso, con un sogghigno complice. Il professore prese il foglio, dopo aver chiesto almeno tre volte al proprietario: «L’hai riguardata bene?», e lo posò sulla cattedra. Libero, Griša fece per uscire dalla classe, quando Asso gli fece cenno di avvicinarsi. Fingendo di cercare i fazzoletti nello zaino, lui si accovacciò vicino all’amico. Asso gli agitò sotto il naso la gomma, privata del cartoncino che la avvolgeva, e imprecando sottovoce brontolò: «Mi hai tolto le mutande alla gomma!».
Griša dovette correre fuori prima che il professore lo sentisse soffocare le risate, ma non poté impedirsi di vedere Asso che, sacramentando come un ossesso, cercava di riavvolgere la gomma nel cartoncino.
In corridoio, intorno ai distributori automatici, c’erano già gli altri suoi compagni che avevano finito la traduzione. Si fece avanti Terry, una sua cara amica e compagna di tante spudorate copiature durante i compiti in classe, e gli gettò le braccia al collo esclamando: «Grazie per avermi passato le ultime tre righe, non avrei mai fatto in tempo!». Lui sorrise, ma per la prima volta non si abbandonò a quelle effusioni. E sì che, lo sapeva benissimo, Terry era felicemente fidanzata da quattro anni: per quanto il loro atteggiamento a volte potesse sembrare un po’ compromettente, entrambi si sentivano legati solo dall’indissolubile amicizia che nasce tra i banchi di scuola.
Nel frattempo, un altro loro compagno si stava cimentando nell’imitazione del professore di greco e latino, che gli riusciva perfettamente: ne riproduceva nei minimi dettagli il sorrisetto, la postura allampanata, i pantaloni esageratamente tirati fin quasi al petto, la cravatta impeccabile e la giacca di tweed. A volte arrivava al punto di spostarsi i capelli tutti da una parte, ma la perfetta riga del professore era in questo caso inimitabile. E poi, c’era il pizzetto: un marchio di fabbrica, che evidenziava la forma squadrata del viso, ripresa anche dalla montatura degli occhiali. L’intera classe 5^A era dedita alle caricature di quel professore in particolare, sebbene non mancassero anche quelle relative al docente di storia e filosofia (famoso per la testa pelata, ma soprattutto per il naso smisurato), alla professoressa di matematica (dotata di un’anomala esplosione di capelli ricci e biondi che, secondo Asso, si rendeva ulteriormente voluminosi con l’ausilio di petardi) e a quella di inglese (amante delle giacche dalle spalle spigolose, che la facevano assomigliare ad un’hostess con la pelle del volto particolarmente cadente e bruciata dalle lampade).
Proprio allora, l’insegnante di inglese attraversò il corridoio diretta alle macchinette col suo passo che ai ragazzi ricordava l’incedere di un pinguino, e subito iniziò a lamentarsi dei suoi dolori, che deliziavano i sarcastici alunni: «Sta per venirmi un’influenza terribile…». Tre anni prima le era caduta addosso una lampada al neon durante la lezione; l’anno dopo si era ustionata con la borsa dell’acqua calda; l’anno dopo ancora, mentre si affacciava alla finestra, la tapparella le era crollata sulla nuca con uno spettacolare effetto ghigliottina (precisamente dopo l’ora di storia sulla rivoluzione francese). Griša, con falsa innocenza, le chiese educatamente: «Ha mai provato a fare il vaccino contro l’influenza?», e lei rispose, seccata: «Sì, quell’anno che ho preso il colera!». Forse scherzava, ma conoscendo le sue disgrazie c’era sempre un certo margine di dubbio.
Subito dietro di lei arrivò la professoressa di italiano, per la quale nessuno provava la minima simpatia: l’ilarità si dissolse in un istante, e le si fece un silenzioso vuoto intorno. Anche lei, come la sua collega, non godeva di ottima salute: durante le lezioni doveva spesso interrompersi per bere dell’acqua («Secchezza delle fauci»), riempirsi gli occhi di collirio («Problemi del sacco lacrimale») o masticare una caramella (cosa che le evitava certi paurosi ispessimenti della voce, esilaranti per la classe). «Dai che muore» ripeteva sempre Asso, ma l’insegnante sembrava essere eternamente sospesa a un passo dal collasso, senza mai cadervi veramente. Inoltre, odiava l’enorme capacità artistica e compositiva di Griša e Asso, e non perdeva occasione di abbassare i loro voti nei temi. Atteggiamento, questo, che inaspriva il sarcasmo dei due, spingendoli spesso a feroci risposte frenate solo dal buonsenso.
Altro personaggio singolare nel corpo docenti era il professore di storia dell’arte, che sembrava provare una gioia perversa nel descrivere ogni minimo dettaglio erotico nelle opere sulle quali faceva lezione. Aveva una sorta di fissazione maniacale per il termine “prostituta”, che non mancava di citare almeno una mezza dozzina di volte per ogni ora, e si prestava all’ironia anche per il fatto che vivesse da solo insieme a sua madre e a due zie. Asso, il re del dileggio, aveva coniato il suo motto: «Le donne sono tutte puttane, tranne la mamma e le zie», e l’aveva scritto sulla copertina del manuale di arte. Oppure, giocando sulla sua passione per i completi marroni o verdastri, Griša lo imitava con una voce nasale e sogghignante: «Sono un cimice, schiacciami ed emanerò un odore nauseabondo!».
Erano terribili nelle loro battute, ordinatamente raccolte da Griša in tre quaderni incollati insieme che aveva intitolato Stupidario: era diventato una sorta di libro sacro per l’intera 5^A, che circolava sottobanco con esiti deflagranti. La professoressa di biologia, l’unica con la quale tutti i ragazzi scherzavano apertamente, l’aveva perfino sfogliato, trovandolo brillante ed esilarante. Nel giro di pochi giorni, poi, anche tutti i suoi colleghi ne erano stati messi al corrente: Griša e Asso, i due fondatori dello Stupidario, lo tennero nascosto per un intero mese, preoccupati di ciò che sarebbe potuto succedere.
La professoressa di ginnastica e quella di religione, invece, non venivano nemmeno considerate dallo Stupidario: la prima aveva cercato di farsi amica la classe con dolcetti e biscotti durante le ore in palestra, ma non aveva mai dato motivo a Griša e Asso di canzonarla; la seconda, invece, era così pesante da irritare perfino col suo solo pensiero. Era la tipica bigotta, incline a considerare tutti i suoi alunni come dei ragazzi distrutti e la scuola come un centro di accoglienza; basti dire che, un mattino, aveva spalancato la finestra mormorando con la sua consueta aria di trance mistica: «Quando vedo voi, pecorelle smarrite, mi sento invadere dalla tristezza; ma poi guardo fuori, vedo i ciliegi in fiore e penso alla grandezza di Dio…». I ragazzi si erano guardati tra loro, rabbrividendo davanti alla finestra aperta dalla quale entravano turbini di neve ghiacciata. I ciliegi in fiore. A San Pietroburgo, il 31 gennaio!

A ricreazione, Asso si comprò un panino che divise con Griša, seduti in corridoio davanti alla porta dell’aula. «Allora» esordì, spingendosi gli occhiali sul naso con fare da psicologo «Come mai stamattina sei così dannatamente isterico?». Griša si gonfiò di orgoglio; non sarebbe mai riuscito a contenere un sorriso enorme che gli illuminò gli occhi di solito seri, e declamò: «Ti ricordi quella mia amica, Estel? Beh, ora è la mia ragazza, da ieri!».
Asso smise di masticare il panino. Per mezzo minuto non riuscì a muoversi, spalancando sempre di più gli occhi già grandi e ingranditi dalle lenti. Inghiottì il boccone di panino, prese fiato e scoppiò a ridere come un disperato, picchiando i pugni per terra e nascondendosi dietro le mani. Le lacrime gli scorrevano lungo le guance affilate, e stava assumendo un preoccupante colore congestionato. «La smetti?» protestò Griša «Finiscila, non sto scherzando! Vedrai, lunedì, quando mi verrà a prendere fuori da scuola per portarmi a casa sua…».
A questo punto, Asso non ne poté più e stramazzò contro il muro, ululando: «Giocherete con le bambole a fare mamma e papà, con le pentoline… oppure giocherete al dottore?». Griša l’avrebbe squartato se in quel momento non fosse intervenuta Terry: «Grigorij ha la ragazza?!». In un attimo, tutta la classe aveva fatto crocchio intorno a loro per curiosare, e Griša fu costretto a spiegare tutto, senza però tralasciare un ringhio rivolto ad Asso: «Ivan Georgijevic Rodegherov, tu sei un uomo finito!». Il destinatario della minaccia, con un ghigno imperturbabile, addentò il panino e tacque.
Griša rimase assediato per tutta la durata della ricreazione, anche se rispondeva a monosillabi ed evitava qualsiasi dettaglio; fu grato quando suonò la campanella del fine intervallo, anche se la prospettiva di un’ora di matematica non gli appariva per nulla allettante.
La professoressa entrò in classe, con i voluminosi ricci più imponenti del solito, e si piazzò subito alla lavagna, iniziando a parlare rapidamente: «Il seno dell’angolo alfa, sottratto al coseno dell’angolo beta…». Asso prese il quaderno di inglese e si rivolse al vicino: «Hai fatto gli esercizi? Ti ricordo che mi devi il favore delle righe di greco». Griša gli porse il suo quaderno, borbottando: «Righe di cocaina? Oh, sì, ne avrei bisogno: non ci capisco niente. Quando il seno aumenta…» «…si hanno due belle tette!» proruppe festosamente Asso. Lui non lo ascoltò nemmeno, e si rivolse a Terry, seduta al banco davanti: «Allora, il coseno aumenta, e il seno decresce…». Di nuovo, Asso intervenne: «…con la vecchiaia!».
Era impossibile restare seri. Tutta l’ultima fila sprofondò dietro i libri aperti, che dalla cattedra dovevano sembrare un mare ridacchiante di libri tenuti su a fatica. La professoressa, dopo averli rimproverati bonariamente un paio di volte, alla fine alzò le braccia al cielo e strillò: «Adesso basta!».
Si fece silenzio. La professoressa stava tutta impettita sulla cattedra, con la maglia aderente che si tendeva col suo respiro affannoso. Asso prese d’un tratto un espressione a metà strada tra il sardonico e l’affascinato, e prima che qualcuno potesse fermarlo commentò: «La prof ha le tette contente!».
Griša cominciò a sghignazzare, chiudendosi la cerniera del maglione fino agli occhi, e Terry si voltò per sibilare: «Asso, sei un porco!». Lui non se la prese e ribatté: «Non sono, ma faccio il porco. Giusto la scorsa domenica abbiamo ucciso il maiale, a casa di mio nonno, ed è da una settimana che mangio solo insaccati, prosciutti e bistecche…» «…tanto che tra poco il tuo fegato si vomiterà da solo e verrà fuori a picchiarti» concluse Griša, suscitando un ulteriore scoppio di ilarità.
Stavano ancora ridendo alla fine dell’ora, ma perlomeno non dovevano più rischiare di soffocare: con l’insegnante di inglese si riusciva a fare più baccano che con quella di matematica.
Asso, che aveva appena finito di copiare i compiti dal quaderno di Griša, si rilassò contro lo schienale della sedia e iniziò a dondolarsi, appoggiandosi al muro con studiata aria di superiorità. Quando però vide una delle sue ragazze, Tiffany, sedersi ad uno dei banchi di fronte, partì all’attacco: piombò sul banco e, sfruttando la spinta che si era dato, proiettò le braccia in avanti per afferrare lo schienale della sedia di lei, tirandola contro il banco. «Che delicatezza» lo canzonò Griša, scarabocchiando svogliatamente sul banco.
Certo, se lui fosse stato in classe con Estel… «Stop!» si impose. Se si fosse messo ad immaginare di essere con lei, o anche solo a pensarla, non avrebbe ascoltato una sola parola della lezione. Meglio pensare che Estel aveva due anni in più di lui, che non andava più a scuola e che l’aveva invitato a pranzo lunedì.
Con la sua migliore aria da alunno diligente alzò lo sguardo, giusto in tempo per intercettare quello della professoressa che aveva appena chiesto se ci fossero volontari per l’interrogazione. «Bravo, Grigorij» si sentì dire «Finalmente qualcuno che ha un po’ di coraggio. Vieni alla cattedra con il libro di testo».
Asso e Terry erano completamente sprofondati nei loro maglioni, nel vano tentativo di nascondere quanto si stavano divertendo alle sue involontarie buffonate. Griša, con un enorme sospiro, si sedette alla cattedra e aprì il libro con l’aria di un condannato a morte. Non aveva nessuna difficoltà con l’inglese, essendo cresciuto a Liverpool, ma non aveva ben preparato la lezione: gli sarebbe dovuto, come già tante altre volte aveva fatto, improvvisare un discorso fingendo di aver preparato un approfondimento.
Sfortuna volle che la professoressa iniziasse a chiedergli di parlare della figura della donna nell’immaginario artistico e letterario otto-novecentesco. Griša iniziò a spiegare, soppesando bene ogni singola parola: la donna intrisa di salvifica grazia divina del Delitto e castigo di Dostoevskij, la donna come mantide che divora l’uomo, la femme fatale, la donna sprigionante fulgore e perfezione… ma non osò andare oltre per paura di ciò che avrebbe potuto venirgli in mente. Ma l’insegnante insistette: «Approfondisci meglio il concetto di femme fatale», e lui con un sospirò si rassegnò a concludere: «La donna-vampiro, che succhia la linfa vitale dell’uomo dopo averlo sedotto!». Gli veniva da ridere, e non sapeva per quanto ancora sarebbe riuscito a mantenere il contegno. Aveva i palmi delle mani madidi di sudore, e non vedeva l’ora che finisse quella tortura.
Era però l’unico interrogato, quella mattina, e la professoressa lo tenne sotto torchio per un’intera mezz’ora, sempre senza cambiare argomento. Per concludere, volle fargli tradurre un passo dal Romeo e Giulietta di Shakespeare. Precisamente il celeberrimo dialogo del balcone.
Dal posto, Asso sospirò maleficamente: «Oh, com’è romantico!», subito spalleggiato dal resto della classe. Era raro poter prendere in giro Griša, sempre così cupo e ritroso, così come era raro vederlo così di buonumore da saper rispondere a tono alle frecciate.
E finalmente anche l’ultima ora del sabato finì: centinaia di studenti si riversarono sulla strada, felici di essere liberi almeno per un giorno. Griša, in tutta la sua classe, fu l’unico a commentare: «Oh, se fosse già lunedì pomeriggio!», guadagnandosi gli ululati dei compagni e di Asso in particolare.
Un gruppetto di ragazzi si diresse verso il ponte sulla Neva, l’altro rimase fermo fuori da scuola ad aspettare l’autobus; Griša si accodò ai primi, dato che un tratto della strada che dovevano percorrere coincideva, e li udì chiacchierare allegramente del “lunedì libero”. «Come?» intervenne, preoccupato «Lunedì non c’è scuola?». Terry si stupì: «Non hai sentito quando il professore l’ha detto? Lunedì non saremo a scuola ma al teatro, a sentire la conferenza di…» «Ah, maledizione!» imprecò Griša. Non aveva minimamente ascoltato il professore, era evidente. E ora avrebbe dovuto cambiare i suoi programmi con Estel, facendole fare un lungo tratto di strada in più per venirlo a prendere. Era così arrabbiato che non notò la macchina di Dralbij parcheggiata subito sotto il ponte, se non quando il guidatore abbassò il finestrino e lo chiamò: «Ehi, bell’innamorato, scendi dalle nuvole e sali in macchina! Hai dimenticato che al sabato non ho lezioni all’università e posso venirti a prendere?».

Se sabato Griša era stato distratto e svagato, il lunedì successivo era in fibrillazione: ogni minuto guardava l’orologio di Asso, tanto che alla fine lui non ne poté più e glielo mise al polso sbuffando: «Tienilo fino a quando la tua amata verrà a prenderti!».
Erano al teatro principale di Pietroburgo, sprofondati in calde poltrone di velluto nella platea. Intorno a loro c’erano tutte le altre classi quinte dell’Istituto: i due amici, entrambi con le loro tresche passate e presenti in altre classi, preferivano stare nascosti. Senza contare che, con un quaderno aperto davanti, stavano componendo un’altra delle loro canzoni.
Sopra il palcoscenico troneggiava un enorme orologio, che segnava le undici. Mancava un’ora e un quarto: un’enormità, per Griša, che ora di mezzogiorno non riusciva più a stare fermo sulla sua poltrona. Se Terry non l’avesse fermato, avrebbe completamente riempito i quadretti della prima pagina di un quaderno, che stava colorando maniacalmente con una matita, uno per uno.
Quando la conferenza finì – con cinque minuti di ritardo, scanditi da imprecazioni di Griša, che indussero Asso a chiedergli se stesse per caso sgranando un rosario – una folla di studenti si pressò all’uscita. I ragazzi del classico, per antonomasia più pazienti e compassati rispetto agli altri (almeno quando faceva loro comodo darlo a vedere), attesero tranquillamente che le uscite si liberassero.
Non Griša, che fendette la ressa come un ariete, sfrecciando fuori nel sole del pomeriggio. Asso e Terry si lanciarono un’occhiata di comprensione.
Non era un sogno: Estel era lì, sul marciapiede, e lo aspettava in sella ad una piccola bicicletta gialla, appoggiata ad un lampione. Indossava, come di consueto, un ampio cappello per proteggersi dal sole. Griša le si avvicinò, con un sorriso trepidante, e quasi con timore le sfiorò il viso con una carezza. «Ciao» mormorò, non sapendo cos’altro dire, ammutolito dalla felicità di averla lì.
Estel lo abbracciò, regalandogli un dolce bacio, e sussurrò: «Non vedevo l’ora di riaverti con me».
Dietro di loro, le antiche fiamme di Griša facevano tanto d’occhi, e non erano certo le uniche: buona parte della popolazione femminile della scuola stravedeva per quel giovane dall’espressione malinconica, sempre oscurata dai capelli pieni di riflessi biondi, e vederlo insieme ad una perfetta sconosciuta le aveva sconvolte.
Asso ghignò, appena riuscì ad uscire dal teatro: «Guardalo laggiù, il nostro fringuello. Non ci scherza proprio! E quella sua Estel è davvero bella: ha buon gusto!» «Vero» concordò Terry «E lui sembra davvero felice. Se lo merita, con quello che ha passato in Inghilterra: chissà che, finalmente, riesca a liberarsi dalle catene che lo tengono legato a quella sua Bettina! Gli auguro davvero tanta fortuna».
Estel e Griša, intanto, erano partiti: si davano il turno per pedalare o stare seduti sul portapacchi della bici che, per quanto piccola, aveva una velocità di tutto rispetto. Avevano un buon pezzo di strada da fare, ma nessuna fretta: il pranzo, pollo e patate, era solo da scaldare sul fuoco. E nessuno dei due sembrava avere fame, per il momento.
Toccava a Griša pedalare, quando attraversarono il ponte sulla Neva: era acutamente consapevole delle braccia di Estel intorno ai suoi fianchi, e si stava beando di quel contatto a tal punto che quasi non vide la signora Mary, ferma in fondo al marciapiede. «Oddio!» proruppe, frenando bruscamente. Gli era passata la voglia di ridere, eccome, e sarebbe passata a chiunque avesse visto l’espressione della signora. «Mamma!».
Dalla bocca di Mary uscì un’incredibile girandola di parole: «Andrai ad ammazzarti, figliolo! Cosa ci fai in giro a quest’ora? Hai marinato la scuola per stare con la morosa, disgraziato? E adesso dove andate? Dralbij sa che sei a zonzo oppure ti aspetta a casa?». Odiava Estel e non si preoccupava di nasconderlo, ma la cosa era reciproca. Griša ringhiò: «Sono affari miei!», e ripartì sgommando rabbiosamente.
Bastarono le carezze di Estel a rinnovare il suo buonumore: quando arrivarono a casa, l’incontro con Mary era già acqua passata.
Mangiarono in fretta, anche se nessuno dei due era disposto ad ammetterlo. Il pollo era squisito – la mamma di Estel era una leggenda in cucina – ma chi avrebbe pensato al cibo con la persona amata seduta di fronte e la prospettiva di un pomeriggio soli davanti? Si riempirono i piatti, soltanto per avere la scusa di riposare dopo pranzo.
E di nuovo, così come lo scorso venerdì, si ritrovarono l’una tra le braccia dell’altro, stretti non più su un divano ma sotto la calda coperta di lana sul letto di Estel. Dalla tapparella abbassata filtravano raggi di sole obliqui, che creavano impalpabili giochi di polvere scintillante a mezz’aria.
Finalmente Griša vedeva Estel nei panni della principessa degli Elfi che era: il suo volto aveva perso la durezza dei lineamenti che le dava quell’aria assassina al calare del sole, e quella sua meravigliosa espressione rilassata e serena era incorniciata da capelli color del grano, morbidi come la seta. Ecco perché di giorno portava sempre quei grandi cappelli: non tanto per proteggersi dal sole – la sua natura di elfo non ne aveva bisogno –, ma per nascondere il fatto che i suoi capelli cambiassero così tanto. Griša vi passò le dita, incantato, e lei aprì appena gli occhi per sospirare: «Nessuno lo sa. Soltanto Moonlight, che è il mio amico più fidato» «È un onore per me… maestà» rispose lui, intimidito. Quindi la baciò con passione, abbandonandosi completamente a quei momenti, schegge di paradiso, candide nuvole in un cielo primaverile.
Estel, con gli occhi chiusi, gli passava la punta delle dita sul viso, millimetro dopo millimetro, indugiando a sfiorargli i sottili riccioli ribelli sulle tempie, e intanto lo baciava come non aveva mai baciato nessuno prima d’ora. Lei stessa non riusciva a crederci: la sua diffidenza, la sua sfiducia, le sue tristissime avventure passate… tutto svanito in un attimo, come svanisce la nebbia di un’alba autunnale. Era in assoluto la cosa più bella che le fosse mai accaduta. «Grazie di esistere» bisbigliò, stringendosi più forte a lui.
Griša la abbracciò rispondendo rauco: «Grazie di avermi insegnato che cosa significa amare una persona».
A poco a poco, con lo stomaco pieno e al caldo sotto la coperta, Estel si assopì. Era da molto – troppo – tempo che non si sentiva così rilassata vicino a qualcuno. Griša non si mosse: rimase lì a guardarla dormire, accarezzandole delicatamente i capelli fino a quando anche lui sentì che gli occhi gli si chiudevano. Allora si rannicchiò al suo fianco, osservando la perfezione con cui le loro dita intrecciate si posavano sul cuscino.

Stavano dormendo beati quando, dalla strada, si udirono tonfi e voci concitate. Griša, che aveva il sonno leggerissimo, si drizzò subito a sedere, vigile. Il sole era sparito, il buio della stanza era solcato dalla luce dei lampioni che illuminavano la strada. Si voltò verso Estel. Dormiva ancora, il volto pietrificato dietro i capelli neri come l’inchiostro. Un rumore più forte la indusse ad aprire gli occhi, che brillavano azzurrissimi nel buio. I canini aguzzi, scoperti in un’espressione feroce, le davano un’aria letale. «Scappa, tesoro» sibilò «Questo è quello che succede a chi è come me» «Questo mai!» protestò lui «Chi c’è là fuori? Che cosa vogliono? Cosa sta succedendo? No, non ti lascerò qui!». Lei lo rimbeccò: «Sono una vampira e sono immortale. Quei mostri là fuori sono solo scagnozzi di un potente signore, mostri che sconfiggerei senza alcuna difficoltà anche da sola. Va’ via finché sei in tempo!».
Testardo, Griša non si muoveva. Sapeva di essere abbastanza abile in una rissa da poter stendere una o due persone come minimo, essendo cresciuto nei malfamati moli di Liverpool. Glielo disse. Estel spiò attraverso le tapparelle, poi con un sospiro tornò a rivolgersi a lui: «Sono una dozzina, qua sotto. Maledizione, si stanno organizzando coerentemente, adesso! E io, al comando, sono sola…» «…al comando di che cosa?» chiese lui, perplesso «L’esercito Antirealista è a tua disposizione!».
Lei aprì un cassetto segreto sotto la scrivania, replicando: «Non metto in dubbio le forze del nostro esercito. Ma come potresti uccidere degli esseri immortali come dei licantropi?» «Licantropi?!» ripeté Griša, atterrito. Se l’avessero morso, avrebbero potuto ucciderlo… o trasformarlo in uno di loro. All’improvviso si ritrovò tra le mani una pesante pistola, con Estel che gli spiegava: «Ti ho visto giocare a freccette con Dralbij, giorni fa, e hai un’ottima mira, degna di un elfo esperto tiratore con l’arco. Ora, come te la cavi a sparare? Questa pistola è caricata con i classici proiettili d’argento, e hai diciotto colpi a disposizione. Io sparerò dal tetto, tu cerca di stare nascosto dietro la finestra. Uccidili senza pietà!». Senza attendere risposta, si infilò una lunga giacca di pelle nera e uscì sul tetto. Prima di iniziare la battaglia, Griša sbirciò sul tetto per controllare da dove sarebbe provenuto il fuoco, e sorrise: la sua amata, con lo sfondo di una spettacolare luna piena e la giacca svolazzante nel vento notturno, studiava la situazione con un’espressione crudele e indurita dall’odio… ma anche così la sua bellezza restava immutata. Il suo sorriso si trasformò in un ghigno: non era un vampiro, ma condivideva ugualmente l’odio per quei nemici che li assediavano. Si affacciò, caricò la pistola e cominciò a sparare rapidamente.
I colpi di Estel, abituata a quelle armi, erano pressoché infallibili: i lupi mannari cadevano contorcendosi al suolo, tra urla e gemiti laceranti; i suoi primi tre colpi fallirono miseramente, ma gli ci vollero pochi istanti per comprendere la tecnica. Ferì uno dei suoi avversari, subito finito da Estel, e ne uccise uno con una pallottola dritta al cuore.
«Dannazione, non è sola!» tuonò una voce, fuori «Ritirata!». Ne erano sopravvissuti due; Estel li freddò senza nemmeno spostarsi sul tetto, poi si lasciò cadere nel vuoto.
«No!» latrò Griša, credendo che l’avessero colpita. Per un attimo fu come se il mondo gli stesse crollando addosso… e la vide atterrare in perfetto equilibrio sul selciato. Già: era una creatura soprannaturale. Uscì dalle scale, sentendosi estremamente fuori luogo in quella circostanza, e la aiutò a trascinare i cadaveri in un campo, dove li bruciarono.
Di nuovo in casa, sul divano, Griša si sentì piombare addosso tutta la tensione che, nella rapidissima battaglia, non aveva nemmeno avvertito. Estel gli ravviò i capelli spettinati, sorridendo orgogliosa: «Lo sai? Saresti un vampiro maledettamente in gamba. Spari benissimo, e con un po’ di esercizio diventeresti come me. La vita del vampiro non è la schiavitù di un’eterna sete di sangue: se fossi io a morderti, e poi tu a succhiare qualche goccia del mio sangue di giorno, diventeresti una creatura come me. E uno o due pasti di sangue al mese ti basterebbero per mantenerti in perfetta salute». Lui deglutì nervosamente prima di obiettare: «Ma sarei un non-morto? Non potrei morire, ma la mia non sarebbe nemmeno una vita…» «Ma avresti l’eternità da dividere con me» disse lei, troppo piano per essere udita.
Lo prese per mano e si appoggiò a lui con un sospiro, baciandolo sul collo. Lo avvertì rabbrividire quando finse di volerlo mordere, ma si compiacque notando che, stavolta, non si era ritratto spaventato. «Sei stato bravissimo, prima» affermò, lasciando intendere che il discorso sarebbe finito lì «E in qualità di signora dei vampiri non ho che una cosa da dire: sono fiera di te e felice di averti incontrato».
Griša sarebbe dovuto rincasare: aveva detto a Dralbij che sarebbe stato di ritorno molto prima dell’ora di cena, ed erano già le sei. Ma non riusciva ad alzarsi dal divano, a rinunciare alle carezze di Estel, e lasciarla sola ora che sapeva quanto fosse in pericolo. Certo, lei aveva ampiamente dimostrato di sapersela cavare anche sola contro tutti, eppure un’idea continuava a insinuarglisi fastidiosa nella mente: in due…?
Come indovinando i suoi pensieri, Estel riprese l’argomento precedente: «Un giorno, forse, avrò un figlio da un altro elfo-vampiro come me; e quando nascerà, dice una profezia che il sole si oscurerà per rispetto, e la luna signora della notte brillerà più forte sopra di lui. Sarà una creatura invincibile, che porrà finalmente termine alla contesa millenaria tra noi e… quelli che hai visto prima».
Griša non aprì bocca: l’idea che Estel potesse avere dei figli da qualcuno includeva senza ombra di dubbio quella che loro due non sarebbero più stati insieme. Tremò. Sì, c’era un modo per evitarlo, un modo che avrebbe comportato la vita eterna insieme a lei. Ma era una follia, un’idea spaventosa! E se qualcosa fosse andato storto? Rischiava la vita!
Quando si decise a tornare a casa, era serio e pensieroso, e non si diede la pena di nasconderlo. Dralbij, però, non era dell’umore giusto per fargli domande: mancavano ormai solo quattro giorni al suo terribile esame di matematica, e si sentiva terribilmente indietro con il programma. Studiava tutto il giorno, cercava in tutti i modi di farsi aiutare da chiunque gli desse qualche speranza in più di passare l’esame, ma era terrorizzato.
Tanto che, il giovedì sera prima dell’esame, si rivolse al fratello e domandò mestamente: «Hai qualche verifica o interrogazione, domani, a scuola? Se ci sono materie che puoi saltare, ti andrebbe di venire all’università con me? Giusto per darmi un sostegno morale… per avere compagnia durante il viaggio, anche. Puoi chiedere a Estel di venire con noi, se vuoi, così non dovrai essere solo per due ore durante il mio esame. Ci stai?». Griša non ebbe alcuna esitazione ad accettare: la prima ora del venerdì era l’ora di versioni, e lui non ne aveva fatta nemmeno metà delle due previste. Senza contare che Asso non ci sarebbe stato: era il suo giorno preferito per stare a casa con qualche ragazza. Così promise: «Ci sarò», e corse a chiamare Estel.

Prima dell’alba, 10 febbraio. Faceva freddissimo, e il treno era perdipiù in ritardo. Dralbij, con il libro di matematica davanti, cercava di manovrare una matita con le dita coperte dai guanti, frenando al contempo i brividi. «Non mi ricordo più niente» ammise «Ho mezza probabilità su diecimila di passarlo, quest’esame maledetto!». Appollaiato su una panchina, sfogliava febbrilmente le pagine, depresso.
Estel, rannicchiata tra le braccia di Griša, cercava di ripararsi dal vento freddo, e intanto cercava di tranquillizzare Dralbij: «Non essere così pessimista, sei solo agitato, ma è normale! Sono certa che ci riuscirai» «Infatti» aggiunse Griša «Anch’io, prima di un compito o un’interrogazione, mi sento un gran vuoto mentale. Poi, però, appena mi trovo davanti l’esercizio da fare o la domanda del professore, mi viene in mente quello che devo dire. È una cosa naturale, te l’assicuro».
Finalmente arrivò il treno; i tre salirono, sospirando all’unisono in quel tepore, poi si dedicarono ciascuno alle sue occupazioni: Estel, che non era nemmeno andata a dormire quella notte, si assopì sotto il giaccone; Dralbij continuò a ripassare, mentre Griša lo interrogava nei limiti delle sue – scarsissime – conoscenze matematiche. Fu lieto quando un compagno di corso del fratello si fece avanti per studiare insieme; si voltò verso Estel, appoggiò delicatamente la testa vicino a lei e rimase lì, con gli occhi chiusi, a pensare a come sarebbe stata la sua vita con due paia di canini acuminati.
Un’ora e venti minuti di viaggio più tardi, arrivarono alla stazione; Dralbij fece strada, e dopo altri venti minuti di cammino giunsero alla facoltà.
Si vedeva che era giorno d’esame: nessuno sorrideva, e in ogni angolo si vedevano gruppi di ragazzi intenti a studiare. Qualcuno rivolse un cenno di saluto a Griša – non era la prima volta che non andava a scuola per seguire il fratello – e i più corsero da Dralbij: «Ti va di ripassare con noi in aula studio?». Avevano ancora un’ora e mezza, rifletté lui: poteva riuscire a strappare qualche utile suggerimento. Così si rivolse ai suoi due accompagnatori: «Da adesso in poi siete liberi di andare dove volete. Fratellino, tu ormai dovresti conoscere bene questa zona. Il mio esame sarà alle due, quindi potete venirmi a prendere per le quattro… sempre che non mi ritiri prima, nel qual caso cercherò di avvertirvi in qualche modo. Il treno lo prenderemo alle sei e mezza: purtroppo, prima non ce ne sono. Va bene per voi?». Griša annuì; prima di andare via gli si avvicinò e, con un’affettuosa pacca su una spalla, mormorò: «Buona fortuna e in bocca al lupo, fratellone. Coraggio!».
Liberi! Liberi di girovagare dovunque volessero per almeno sei ore.
Per prima cosa, Estel propose di andare a fare colazione in qualche bar. Erano le dieci e mezza del mattino, ma un buon panino caldo ci stava benissimo, decise. Griša, che non aveva molti soldi con sé, si limitò ad accompagnarla in un bar che, gli sembrava di ricordare, era vicino ed economico. «Possiamo andare fino in centro, dopo» rimuginò «Non è esattamente qui dietro l’angolo, ma abbiamo praticamente tutta una giornata per arrivarci e fermarci da qualche parte. Anzi: un pranzo da qualche parte ci starebbe veramente bene, e mi sembra di ricordare un ristorante molto carino proprio vicino alla chiesa ortodossa che c’è in centro. Te la senti di camminare fin là?». Lei non aveva alcuna obiezione; e così, dopo uno spuntino al bar, si incamminarono a passo tranquillo verso la chiesa.
Il sole era già alto, e scaldava piacevolmente la mattinata. I due camminavano tenendosi per mano e chiedendosi come se la stesse cavando Dralbij. Quando arrivarono davanti al ristorante che si erano prefissati era l’una e mezza: ormai, Dralbij doveva essere già nell’aula destinata all’esame. Griša ne avvertiva la tensione crescente: la loro telepatia di fratelli li teneva sempre in contatto in caso di emozioni forti. Estel se ne accorse e commentò, ammirata: «Anche se non c’è tra voi alcun legame di sangue, siete straordinariamente uniti voi due. È bello poter vedere un rapporto così solido: dà la conferma che, se ci si crede veramente, si può riuscire in tutto» «La nostra fratellanza spirituale è ancora più forte di un legame di sangue» fece eco lui, aprendo galantemente la porta «Dubito che ci sia qualcosa al mondo in grado di dividerci».
Si sedettero ad un tavolo libero, in un angolo, e ordinarono un pranzo sostanzioso ma veloce: avevano come minimo un’altra ora di strada prima di arrivare alla Facoltà di Ingegneria, camminando a passo svelto e senza interruzioni. Erano immensamente felici di essere insieme in quel momento, senza alcun problema al mondo: che cosa mai avrebbe potuto rovinare loro la giornata?
Dopo pranzo si rimisero in cammino, ma stavolta Griša scelse una strada diversa: costeggiando il centro senza attraversarlo, potevano arrivare alla meta molto prima. Bastava seguire il fiumiciattolo che attraversava quel quartiere: essendo abituato a vivere sulla strada, aveva un innato senso dell’orientamento in questo genere di cose.
Infatti, meno di un’ora dopo raggiunsero il ponte che dovevano attraversare. Sotto di loro si stendeva un tranquillo boschetto, dove l’erba era coperta di foglie dorate digradava verso il rigagnolo che scintillava al sole. «Sembra uno scorcio di un boschetto di elfi» mormorò Estel, incantata «Possiamo fermarci qui? Ormai siamo a pochi metri dall’entrata della facoltà». Griša cominciò a scendere il pendio, rispondendo: «È un posto molto carino e tranquillo, vero? Mio fratello dev’essere venuto qui qualche volta a studiare… o forse con qualche ragazza, non ricordo. Più probabile la prima, però!». Estel lo seguiva: si vedeva quanto le giovasse quell’inaspettata passeggiata nella natura. La sua natura di elfo regnava su quel piccolo bosco di periferia.
Scovato un posto soleggiato sulle foglie più soffici, vi si lasciarono cadere e chiusero gli occhi: era stupendo crogiolarsi al sole, con i rumori della città ovattati e impercettibili e il mormorio dell’acqua poco distante. D’un tratto Griša esclamò: «Com’è possibile che le macchine si sentano così poco? La strada non è a più di venti metri di distanza!».
Estel gli sussurrò di fare silenzio, e lo indusse ad appoggiare la testa sulle sue ginocchia, rilassandosi completamente. «Prova ad ascoltare il vento» bisbigliò, passandogli le dita tra i capelli «E non dirmi cosa senti: io capisco questo linguaggio». Lui ubbidì: sentiva il vento, l’acqua, le foglie, un merlo sui rami sopra di loro, ma non riuscì a capire che cosa stessero dicendo. «Sembra una lingua di senso compiuto» mormorò, afflitto «Ma io non riesco a capirla. Non mi sembravano parole felici, in ogni caso…». Rimase ad ascoltare ancora qualche minuto, sforzandosi di distinguere almeno qualche sillaba familiare, ma alla fine si arrese: «Inutile, non conosco questa lingua. Cos’è?».
Guardando lontano, dove il fiume con un’ansa spariva dietro un grosso tubo coperto di muschio e alghe, Estel spiegò: «È la lingua delle fate, della natura… e di noi elfi. È strano, però: come hai fatto ad intuire la malinconia di quello che diceva il bosco? I tuoi poteri psichici riescono forse a compensare il fatto che la tua natura sia completamente umana? Come vampiro avresti un futuro: non mi stupirebbe se tu potessi avere a che fare anche con l’altro mio regno».
All’improvviso Griša si illuminò: «Potresti farmi diventare un elfo?» chiese, pur intuendo quanto potesse essere ingenua la sua domanda. Ma lei rispose: «Purtroppo no. Potrei morderti e trasformarti in vampiro, e poi darti qualche goccia del mio sangue di elfo; ma so che questo per te è inconcepibile, e non voglio insistere. Tesoro, non devi sentirti obbligato: è una scelta di vita che devi fare tu. Non pensarci, per il momento».
Parlarono a lungo della questione, fino a quando il sole scomparve dietro le cime degli alberi e la temperatura calò drasticamente. Allora si alzarono e si diressero verso l’università, con l’allettante pensiero di un bicchiere di cioccolata bollente presa al distributore.
La stavano ancora bevendo, appoggiati ad un termosifone, quando videro arrivare Dralbij in fondo al corridoio. «Oddio» pensò Estel «Non sono ancora le quattro. E ha un’espressione che non promette nulla di buono». Girando lo sguardo su Griša, poi, quasi si spaventò: era terreo, con la fronte corrugata e le labbra strette. «Non ce l’ha fatta» lo udì dire con un filo di voce.
Dralbij aveva gli occhi lucidi ed era pallido. «Non ho passato l’esame» annunciò in tono incolore «Credevo di potermi ritirare e ritentarlo al prossimo appello, ma quando ho voluto farlo mi sono accorto che il tempo limite per ritirarsi era già trascorso. E così mi hanno bocciato. Andiamo a casa: il treno delle quattro e mezza non lo perderemo».
Uscirono in silenzio, nessuno sapeva che cosa dire, e nessuno osò parlare fino a quando giunsero in vista delle imponenti colonne che costituivano l’entrata della stazione. Dralbij pronosticava, avvilito: «Perderò l’anno, già lo so. Ero il primo della classe al liceo, e ora sarò solo un ripetente. Per forza: uscendo da un istituto d’arte, come avrei potuto sperare di affrontare Ingegneria senza difficoltà?».
Griša gli mise un braccio intorno alle spalle, e cercò di rincuorarlo: «Coraggio, gemello…».
Non finì mai la frase. Dralbij si rivoltò come un serpente, e sibilò furioso: «Adesso basta! Io non sono il gemello di nessuno, lasciami stare, stammi lontano! Questo è il mio lato Realista che prende il sopravvento!».
Il tempo si cristallizzò intorno a loro, e una miriade di schegge taglienti si conficcarono nel cuore della loro fratellanza. Colto di sorpresa e completamente incapace di reagire, Griša abbassò la testa e sentì gli occhi riempirglisi di lacrime. Non udì neanche Estel che si scatenava contro Dralbij: «Ti ha dato di volta il cervello? Sei impazzito o cosa?».
Sulla banchina della stazione, Estel lo abbracciò e gli strinse una mano, intrecciando le dita. «Tesoro?» lo chiamò, ma lui taceva fissando il vuoto. Aveva ricacciato indietro le lacrime, e un solo pensiero dominava la sua mente: quella notte non avrebbe diviso il letto con un traditore. Il problema era: dove andare? Certamente, Estel l’avrebbe ospitato più che volentieri… ma non poteva abusare così della sua gentilezza: era così ferito che l’avrebbe trattata male senza volerlo, e forse la cosa migliore da fare era stare solo con la sua dolorosa delusione. Proprio Dralbij l’aveva tradito: Dralbij, del quale lui si fidava come di se stesso.
Si accasciò sul sedile del treno – ma quando vi era salito? Non lo ricordava – e chiuse gli occhi, fingendo di assopirsi per essere lasciato in pace. Dralbij era seduto al suo fianco, ma era come se non ci fosse.
Incorniciate da rollio del treno, le parole di Estel risaltarono in quel silenzio affilato: «Hai eliminato l’unica cosa nella quale lui credeva veramente. Sei un mostro! Avevamo parlato anche prima di te, e non immagini quanto orgogliosamente tuo fratello abbia esaltato quello che c’è tra di voi. Diceva che nulla al mondo avrebbe potuto dividervi… e guarda cos’hai fatto: l’hai distrutto!». Dralbij cercò di giustificarsi, lui stesso sconvolto: «Lo so, lo so… maledizione, lo so! Ero fuori di me, non so cosa mi sia successo! Non lo pensavo veramente, lo giuro, io… Dio mio!» «Parla piano» ringhiò lei «Almeno lascialo dormire». Poi non lo considerò più e si dedicò a Griša, accarezzandogli impercettibilmente i capelli sopra la fronte bollente.
Quando si svegliò, Griša non guardò nemmeno in faccia Dralbij. «Stanotte dormo fuori» disse con la voce soffocata «E non ho nessuna intenzione di tornare nei prossimi giorni. Passerò solo per prendermi qualche libro e dei vestiti, stasera. Vado da Asso».
Estel gli scostò la frangia dagli occhi, e gli propose in tono gentile e incoraggiante: «Perché non vieni da me qualche giorno, invece? Saresti più vicino a casa… e poi, staresti con me… voglio dire, se vuoi. Prima di decidere, però, leggi la lettera che ti ho scritto oggi, nel boschetto: non avrei nemmeno voluto dartela, per il momento… ma tienila. Io ti aspetterò». Griša parve riaversi per un istante, le sorrise e la baciò malinconicamente. «Grazie» sospirò «Questa notte… verrò da te. Dammi solo il tempo di prepararmi lo zaino per domani e un pigiama».
Alla stazione di Pietroburgo, non degnò Dralbij di uno sguardo e si incamminò da solo, a piedi, lungo la strada. Dralbij non cercò di seguirlo. Depresso e colpevole, salì in macchina e partì.

Non si rivolsero nemmeno un monosillabo: Griša cacciò nello zaino i libri, lo spazzolino da denti e un pigiama, e uscì, livido e con gli occhi stretti per trattenere le lacrime. Si portò via anche la chitarra.
Arrivò fino a casa di Estel in bici, dilaniato dal gelo notturno, e riuscì a rasserenarsi solo quando l’ebbe tra le braccia, sul divano. Solo allora riuscì a spiccicare: «Dralbij mi ha tradito». Lei lo zittì con un lungo bacio: «Adesso non ci pensare. Sono sicura che vi riappacificherete in un attimo, se solo lascerete che si calmino le acque. Per il momento sei qui, con me, e domani starai tutta la giornata con il tuo migliore amico. Adesso rilassati e non ci pensare, anche se sarà difficile».
Debolmente, con un sospiro sfiduciato, chiuse gli occhi: la tensione terribile di quelle ultime ore l’aveva sfibrato, e lo sforzo di trattenere le lacrime gli faceva bruciare la gola. Estel comprendeva benissimo la sua delusione, e non sapeva cosa fare per dargli un minimo di conforto.
L’idea di dividere la notte con lui era in sé particolarmente allettante, ma le sembrava ingiusto approfittare così del suo enorme dispiacere. E poi, avrebbero avuto altre occasioni. In fondo, erano insieme da appena una settimana; e che triste fine della prima settimana! Risentì un moto di rabbia verso Dralbij: come aveva potuto essere così cattivo? E cosa avrebbe suturato i lembi strappati della ferita che aveva diviso quei due fratelli che sembravano gemelli siamesi? Avrebbe voluto organizzare un incontro tra loro, ma già aveva capito quanto cocciuto e diffidente sapesse essere il suo Griša: era capace di fossilizzarsi in un angolo, rifiutando ottusamente qualsiasi forma di dialogo. Accidenti alle sue barriere contro chiunque riuscisse a fargli del male anche solo una volta!
Lo tenne abbracciato per tutta la sera, anche quando guardarono un film; verso le due, indovinando la sua stanchezza, suggerì in tono amorevole: «Non è meglio se ora andiamo a dormire? Sei stanco, e domani devi andare a scuola» «Io domani a scuola non ci vado» borbottò Griša. Dio, quanto desiderava un bicchiere di vodka «E tu, non resti sveglia fino all’alba? Non andare a letto per forza: posso stare sveglio. E voglio stare sveglio, non resisterei se sognassi il traditore». Non l’aveva più chiamato per nome, né “mio fratello”: bruttissimo segno.
Lo prese per mano e lo accompagnò in camera da letto; Griša prese docilmente il pigiama e andò in bagno, e quando uscì Estel lo stava già aspettando sotto le coperte. «Vieni qui» sussurrò, acutamente consapevole di quanto lo desiderasse. Lui si infilò sotto la trapunta senza parlare, ma si vedeva che non era per niente tranquillo: certo, una situazione del genere era atrocemente familiare. E lui stava troppo male, ed era ancora troppo presto, per andare oltre l’invisibile confine che inconsapevolmente si era tracciato quattro anni prima… con Bettina.
Si baciarono a lungo, però, molto lentamente e a lungo. Non avevano alcun limite di orario, quella notte, potevano stare insieme finché avessero voluto. E quando Griša si addormentò tra le braccia di Estel, lei rimase fino all’alba a guardarlo dormire, con i capelli mossi appena dai loro respiri vicini e l’espressione serena di un bambino. Nessuno avrebbe potuto dire quello che sentiva dentro. Gli scostò un ricciolo che gli sfiorava la fronte e fece per coricarsi, ma all’ultimo momento si trattenne: si era addormentato davvero come un bambino, sul suo seno, e le fece una tenerezza infinita. Riuscì comunque ad avvolgersi nella trapunta e a cadere in un sonno estremamente tranquillo come non ne faceva da tempo: la sola presenza di colui che amava aveva spazzato via anni ed anni di sofferenze.
Sorse il sole a dissipare la nebbiolina ghiacciata del mattino, facendo brillare i prati coperti di brina simile a neve di minuscoli scintillii iridati. Fuori doveva fare ancora molto freddo. Estel e Griša dormivano abbracciati sull’ampio letto, sordi al risveglio del mondo oltre le tapparelle abbassate, infinitamente felici di stare così. Nella tenue penombra della stanza entrò Attila, miagolando per attirare l’attenzione, ma vedendo che la sua padrona era ancora a letto, si rassegnò ad aspettare e si acciambellò in fondo al letto, ronfando sommessamente. Non era per natura un gatto paziente, e a causa di certe complicazioni insorte quand’era nato non aveva nemmeno il senso dell’equilibrio, cosa che lo faceva apparire goffo e traballante; ma quel mattino fu silenzioso e delicato, tanto che nemmeno Griša – che notoriamente aveva il sonno leggerissimo – lo sentì arrivare.
Se lo trovò acciambellato a fianco quando si svegliò, nella tarda mattinata, e sulle prima rimase disorientato: dov’era? Perché non era nel suo letto, a casa sua, con Dralbij nella cuccetta inferiore che gli diceva di sbrigarsi se voleva arrivare a scuola in tempo per copiare e passare i compiti per casa? Poi all’improvviso ricordò, e al solo pensiero di quanto era successo poche ore prima si sentì addosso una gran voglia di piangere, mista a un nuovo sentimento che non aveva mai provato per Dralbij: il rancore.
Guardandosi intorno distinse i contorni della stanza di Estel: dunque era vero, non aveva sognato niente. Si sentiva come ubriaco, e non ricordava nitidamente la notte appena trascorsa. Aveva bevuto? Avevano fatto qualcosa di più che baciarsi? Non avrebbe saputo rispondersi. Certo, non doveva aver combinato disastri, se si trovava ancora tra quelle lenzuola. Più precisamente, tra quelle lenzuola e l’abbraccio di Estel, ancora profondamente addormentata. Non l’aveva lasciato per tutta la notte, stringendolo più forte se il pensiero inconscio delle parole di Dralbij lo faceva gemere e tremare nel sonno. E Griša ricordò un dormiveglia, forse dopo appena poche ore dall’alba, in cui si era drizzato a sedere ingoiando un urlo, e lei senza dire una parola l’aveva tirato a sé e rassicurato fino a quando il suo respiro era tornato regolare.
Lentamente, per non svegliarla, si alzò e si trascinò in bagno. Davanti allo specchio, notò di avere le occhiaie, l’espressione sconvolta e i capelli tutti aggrovigliati. Il codino, segno della sua fratellanza con Dralbij, era ridotto ad un ciuffo annodato. Volle tagliarlo, ma non avrebbe mai osato aprire i cassetti di una casa non sua per cercare la forbice; così si accontentò di lavarsi il viso con l’acqua fredda, svegliandosi del tutto. Non aveva fame, ma si sentiva debole: in effetti, non aveva mangiato la sera prima, ed era a stomaco vuoto da quasi ventiquattr’ore.
Tornando in camera, vide che Estel non si era ancora svegliata. Si vestì silenziosamente, infilò il giubbotto e si sedette in giardino, al sole, strimpellando distrattamente la chitarra: era l’unico modo che conosceva per non pensare a Dralbij. Nel giro di qualche minuto aveva già creato una melodia, e si stava dilettando ad improvvisarci sopra quando udì un rumore dalla strada. Licantropi? Impossibile, in pieno giorno. E poi non c’era nemmeno la luna piena. Preoccupato si guardò intorno, ma non vide nessuno. Eppure i rumori continuavano: sembravano provenire ora da un cespuglio congelato di rose che aspettavano la bella stagione per rinascere, ora dagli alberi, ora dalle foglie cadute. Avevano la cadenza di una discorso, su questo non aveva alcun dubbio. Incuriosito e intimorito fece qualche passo verso il rosaio, ma subito la voce – ormai era sicuro che si trattasse di una voce – si spostò sui rami più alti di un albero. Per un attimo vide uno scintillio, ma forse era solo il sole che si rifletteva sul ghiaccio della grondaia.
E poi sentì un canto. Era una melodia dolcissima, che faceva venir voglia di sedersi ad ascoltarla per sempre. Era quasi ipnotica, ma non sembrava volerlo trascinare da qualche parte. «Chi è?» sussurrò, rivolto verso il sole «Cosa succede?». Il canto continuava, ora ritmato dallo sgocciolio delle grondaie, e ad un tratto un merlo lanciò il suo alto trillo che si intonò perfettamente a quella strana musica.
Griša si fece prendere dal panico: qualunque cosa stesse succedendo, gli era ignota; ed essendo in quel momento del tutto indifeso, si tappò le orecchie e si precipitò in casa.
Rimase ancora qualche secondo nell’entrata, col respiro corto, e sobbalzò quando udì le campane della chiesa battere l’una. Quasi subito dopo, la porta della camera da letto si aprì, ed Estel lo raggiunse perplessa: «Ti è successo qualcosa?» chiese «Sembri terrorizzato».
Griša sulle prime non volle spiegarsi: poteva essere stata un’allucinazione. Ma guardando la signora degli elfi che aveva davanti si arrese, e le raccontò quanto gli era successo in giardino. Estel lo ascoltò attentamente, e alla fine fece un sorriso forzato. «Tu forse non ti rendi conto di quello che hai vissuto» disse, colpita dal racconto «Hai sentito gli elfi cantare. Cosa impossibile per un essere umano. Sei sicuro di non avere, ad esempio, qualche contatto con uno dei miei due regni? In fondo, tu sei uno studioso del paranormale: i tuoi “poteri” potrebbero averti messo in contatto con gli elfi?» «Non lo so!» sbottò lui, ancora scosso «Io non ho fatto assolutamente niente. Ero seduto lì fuori con la chitarra, quando ho sentito un rumore strano che poi si è trasformato in una musica. Mi sono spaventato e sono corso in casa».
Estel attraversò il giardino e si fermò davanti al rosaio più piccolo. Accarezzò uno dei neri rami potati, e subito quello rinverdì e cominciò a risplendere. Da quella luce dorata spuntarono piccole, tenere foglie verdi, che si fecero via via più robuste fino a raggiungere la sommità del ramo, su cui nacque un bocciolo di rosa, candido come la neve. Griša, incredulo, la osservava. Poco dopo, lei incominciò a parlare a voce quasi impercettibile, in una lingua sorprendentemente melodiosa, come se stesse parlando con qualcuno.
Quindi si alzò e si diresse verso di lui, prendendogli una mano in un gesto rassicurante. «Andiamo in casa, qui fuori fa troppo freddo» esordì «Ti devo parlare, e tu devi promettermi che mi ascolterai fino alla fine, senza interrompermi». La risposta fu un muto ma sincero cenno di assenso.

Griša rimase due intere settimane fuori di casa, passando a prendere libri e vistiti solo quando era sicuro che Dralbij fosse a scuola. Al pomeriggio studiava a casa di Asso, di sera suonavano e scrivevano canzoni, e tutte le notti tornava a dormire a casa di Estel.
Quel mattino, dopo la sua strana avventura in giardino, Estel era stata estremamente schietta e sincera con lui: gli aveva ripetuto che sarebbe stato meraviglioso averlo come metà a regnare sui suoi due regni, ma l’aveva fatto in un modo tanto dolce e tanto convincente che Griša, nonostante la sua impaurita diffidenza riguardo l’argomento, aveva iniziato ad immaginare come sarebbe stata la sua vita da elfo-vampiro. Il suo rapporto con Estel, in quei giorni tanto difficili che avevano vissuto insieme, si era enormemente consolidato. L’idea poi che l’erede sovrano dei due mondi sarebbe potuto essere figlio suo e di colei che amava andava ben oltre la trama dei suoi più rosei racconti. E forse non era tanto male essere un vampiro, nonostante ciò comportasse un’illimitata fiducia nei confronti di Estel. Tuttavia, se prima – vuoi per esperienze passate, vuoi per genuina paura – era stato sospettoso e guardingo per principio, dopo quello che aveva condiviso con lei sentiva che, lasciandola fare, avrebbe fatto una buona scelta.
E così, il pomeriggio del 20 febbraio, mentre sonnecchiava – o meglio, fingeva di sonnecchiare – sotto la coperta insieme a Estel, iniziò a parlare in tono pacato, volto a nascondere la crescente tensione: «Lo sai, amore? Ho molto riflettuto su quanto mi hai detto. Non ci sono più molte persone, al giorno d’oggi, disposte a credere a mondi magici che sembrano esistere solo nella fantasia dei sognatori. Io però ci ho sempre creduto, e sarebbe atroce scoprire che i tuoi regni stanno per scomparire. Per questo, se ancora mi ritieni degno nonostante i miei precedenti rifiuti, dettati dalla paura e non dal cuore, voglio che tu sappia che mi sento pronto a mettere la mia vita nelle tue mani, se questo può servire a salvare tutto».
Estel si accomodò meglio appoggiata a lui. Sentiva il suo cuore battere in fretta e il suo respiro accelerato, ma percepiva un nuovo sentimento che fino ad allora era stato solo un barlume: la fiducia. Griša si era completamente affidato a lei, ciecamente, pur sapendo di dover morire. Per amore.
«Mia madre era bellissima» raccontò, lisciandogli piano i capelli «La regina degli elfi, che risplendeva di una magica luce propria. Quando mio padre la vide si innamorò subito di lei, e non passò molto tempo perché cominciassero a vedersi tutte le notti. Poi si sposarono; ma mio padre tenne sempre segreta la sua natura… fino a quando mia madre gli annunciò di essere incinta di me. Cosa sarebbe nato dall’incrocio di un elfo con un vampiro? Non mi volevano… ma questa è un’altra storia. Io, invece, ti ho subito detto la verità; e il tuo amore così sincero, suggellato dall’importante scelta che hai fatto, vale per me più di ogni altra cosa. Per l’ultima volta: guarda fuori, Grigorij. Il sole è tramontato, e se ti mordessi adesso non ci sarebbe poi alcuna possibilità di tornare indietro. Sei sicuro di quello che vuoi fare?».
Griša la guardò a lungo, mortalmente bella, e le passò le dita tra i capelli soffici e simili a fili d’inchiostro, con l’eccezione di due ciuffi bianco argentati, del colore della luna. Non rimase però ipnotizzato da quegli occhi splendenti nel buio: ne sostenne lo sguardo, giurando: «Sì, Selene. Fai quello che devi fare».
Lei cominciò a baciarlo lentamente, cercando di tranquillizzarlo. Era sincero, ma ugualmente doveva essere anche terrorizzato. Quando scivolò con le labbra ad accarezzargli la pelle sottile del collo, lo sentì trattenere per un attimo il respiro e si fermò a cercare il suo sguardo. Ma Griša teneva gli occhi chiusi: erano forse lacrime di paura ad imperlargli le ciglia? O era la luce della luna?
«Ciao, amore mio» sussurrò «Non sarà doloroso. Il morso di un vampiro è piacevole, se dato nel modo giusto e con questa intenzione. Quando ti sveglierai, avrai la vita eterna da trascorrere al mio fianco».
Detto questo, tornò a baciarlo, cercando il punto dove la giugulare passava più vicina alla pelle. Quando l’ebbe trovato, esitò ancora un istante, turbata dal tremito che sentiva sotto le sue labbra.
E infine, con un colpo deciso, affondò i canini sentendo subito il sangue caldo scivolarle in gola. Doveva controllarsi, però: soltanto qualche goccia in più avrebbe potuto ucciderlo per sempre.
Griša spalancò gli occhi, consapevole della sua morte. Per un attimo la paura ebbe il sopravvento, ma fu solo un istante: quando un’ondata di piacere mai provato prima lo travolse, pensò confusamente: «Allora è così bella la morte?», poi chiuse gli occhi e vide solo un baratro di tenebre senza fine.
Estel lo lasciò andare, sentendolo pesante tra le sue braccia. Era fatta: l’aveva ucciso per averlo per sempre con sé. Quanto tempo sarebbe passato prima di potergli parlare ancora? Doveva essere questione di minuti. Nell’attesa cominciò a girare nervosamente per la stanza; ogni tanto si fermava a guardarlo, immobile e abbandonato. Sembrava che dormisse profondamente.
D’un tratto pensò che, appena sveglio, avrebbe dovuto avere una gran fame. Rapida come una stella cadente svanì in un bagliore di luce azzurra, e attraversò la finestra trasformata in un pipistrello color della luna: avrebbe trovato una vittima e ne avrebbe travasato il sangue in un recipiente… per Griša.
Il quale, sospeso in uno spazio simile all’acqua, rivedeva davanti a sé tutte le scene della sua vita finita a diciotto anni per poi durare per sempre. L’infanzia all’orfanotrofio. L’ evasione. La libera vita randagia per le strade di Liverpool. L’adozione da parte del ricco miliardario di Southampton che ogni mese provvedeva a mandargli un consistente assegno per pagare la casa e la scuola. Bettina e le altre avventure. I concerti con il suo primo gruppo, gli Smoky Beetles. La fuga a Pietroburgo, quando la lotta con i Realisti si era fatta guerra aperta. Dralbij, gli Shining Night. E tutti i libri che aveva scritto. Stava sognando? Morendo? Tornando alla vita? Non l’avrebbe mai saputo dire.
Ma quando aprì gli occhi, con l’impressione di avere le palpebre cucite, gli sembrò di essersi solo assopito. Eppure era spossato, stremato, esausto, tanto che non riusciva nemmeno ad alzarsi: era tutto vero o aveva sognato?
Voltò lo sguardo intorno, e incrociò il sorriso rassicurante di Estel, splendente d’orgoglio e d’amore. «Sono… morto?» domandò in un rantolo. Lei, per tutta risposta, intinse la punta di un dito nel recipiente di sangue che teneva sulle ginocchia e glielo passò sulle labbra riarse. «Sei un vampiro appena nato, quindi ancora debole e indifeso, ma già con il primo pasto comincerai a rimetterti in forze. Aspetta, non cercare di alzarti ora: almeno i primi sorsi, è meglio se li bevi senza muoverti troppo». Così dicendo gli sollevò la testa e lo aiutò a bere il sangue ancora tiepido che gli aveva portato.
Griša non ebbe alcun moto di repulsione verso quella sostanza di un cupo rosso rubino che gli colava tra i denti: istintivamente, deliziato, ne mandò giù qualche golata con avidità, sentendosi rigenerato. Fiera di quanto in fretta stesse imparando, Estel commentò: «Non mi ero sbagliata sul tuo conto».
Quando si fu ripreso, Griša iniziò subito a fare domande: «Ora però sono un vampiro puro, e non tollererei la luce del sole. Domattina, per fortuna, non ho materie importanti a scuola e posso stare a casa: come farò però a vivere solo di notte? E quante volte devo andare a caccia? Perché non mi sono ancora spuntati i canini a punta? Sono già in grado di trasformarmi in pipistrello? Cosa succederebbe se azzannassi un licantropo?» «Per l’amor del cielo, basta!» rise Estel «Allora, andiamo con calma. Un vampiro non ha bisogno di più di due o tre pasti di sangue al mese, ma per i primi tempi potresti aver bisogno di qualche goccia di sangue in più. I canini ti cresceranno tra qualche giorno, appena ti sarai abituato alla tua nuova natura; forse anche domani notte, dato quanto rapidamente ti sai adattare. Dovrai avere più pazienza, invece, per quanto riguarda la trasformazione: è difficilissimo, avrai bisogno di mesi di pratica, ma ti aiuterò io se vorrai. I licantropi, per il momento, lasciali stare: ne parleremo quando sarà il momento. E per quanto riguarda la vita diurna, non ti devi preoccupare: questa notte la passerai qui, con me, in modo che ti possa tenere sotto controllo. Domani mattina, all’alba, dovrai mordermi e bere un po’ del mio sangue di elfo: così avrai la mia stessa doppia natura» «Mordere te?!» esclamò Griša, saltando in piedi non senza vacillare «Mai!». Spazientita, lei lo indusse a tornare sul letto e gli rimboccò meglio la coperta, ribattendo: «La ferita si rimarginerebbe in un attimo. Di giorno sono un elfo, quante volte te lo devo dire? Avanti ora: resta qui, tranquillo, e se non riesci a dormire aspetta l’alba».
Andò a finire che la aspettarono insieme, parlando tutta la notte. Griša era ancora piuttosto spaurito, ma si sentiva piuttosto bene per essere alla sua prima notte da vampiro. E con Estel vicina, non temeva più niente.
Un’ora prima dell’alba, quando le tenebre sono più fitte, improvvisamente cominciò a passarsi nervosamente le dita sui denti, borbottando: «Cosa succede? Brucia!». Un istante più tardi i canini gli si aguzzarono notevolmente, dandogli la stessa cupa, assassina apparenza di colei che l’aveva trasformato. Estel si stupì: «Sei un allievo incredibilmente precoce! In tal caso, non avrai difficoltà, tra poco, a prendere il mio sangue. A proposito: lo prenderai dalle vene dei polsi, non dalla gola, dato che te ne occorre solo qualche stilla».
Quando il primo raggio di sole strappò la cortina di nebbia mattutina, Estel si affrettò ad abbassare le tapparelle in modo che la luce, letale, non colpisse il nuovo vampiro. Quindi gli si avvicinò e, porgendogli solennemente un polso, lo esortò: «Fa’ presto, la notte è finita ormai».
Ma Griša non voleva assolutamente farlo: «Non posso ferirti!» ripeteva, ostinato. Ci volle una simulata esplosione di rabbia da parte di lei per persuaderlo; e finalmente, per la prima volta, piantò i denti in carne viva e pulsante e ingollò il sangue, che gli parve meravigliosamente puro e dolce. Chiuse perfino gli occhi, beato, mentre sentiva una nuova energia sbocciargli dentro.
Tornò presto in sé, e subito iniziò a sperimentare – seguendo i suggerimenti di Estel – le possibilità che gli avrebbe dato la sua natura diurna. Ad ogni scoperta si deliziava sempre di più, e aumentava anche la sua convinzione di aver fatto la scelta giusta.
Stava cercando di imparare a capire la lingua degli elfi quando, al di là del cancello chiuso, vide arrivare Dralbij.

Avanzava a passi rapidi, rigirandosi nervosamente tra le mani le chiavi della macchina. Teneva il bavero del cappotto alzato contro il vento freddo, ma non arrivava a nascondere gli occhi tristi. «Sei qui» disse soltanto «Giustamente. Posso entrare?». La lucentezza del mattino sembrava essersi offuscata; Griša ringhiò: «Per quanto mi riguarda, preferisco lasciarti nel tuo Realismo. Ma siccome questa non è casa mia, aspetta che lo chiedo alla padrona».
Estel, vedendolo rientrare così cupo e serio, fece per chiedergli cosa fosse successo; ma lui la prevenne: «C’è Dralbij, là fuori, e vuole entrare in casa. Credo sia venuto per parlare con me: peccato che io non ne abbia la minima intenzione» «Per favore» lo sorprese lei, facendogli una lunga carezza tra i capelli «Adesso basta. È da dieci giorni che nemmeno lo nomini, e il cielo sa quanto ne soffrite tutti e due. Ascoltalo: sono certa che risolverete tutto. In fin de conti, siete gemelli: e l’uno dà per scontata la presenza dell’altro».
Sebbene controvoglia, lui si lasciò cadere sul divano e prese in braccio Attila, che cominciò subito a fare le fusa. Il gatto, però, percepì in breve il suo stato d’animo, e volle scendere; in quel momento Dralbij si sedette all’altro capo del divano, con Estel a dividerlo dal fratello, e nella stanza calò una cappa di silenzio insostenibile.
E fu nel silenzio che risuonarono, nitide, le sue parole: «Mi dispiace». Due parole, sospese nell’aria che sembrava elettrica o in attesa di qualcosa. Aveva evitato lo sguardo del fratello, e teneva gli occhi fissi sul disegno del tappeto che copriva il pavimento in marmo nero. Griša fece finta di non sentirlo, fino a quando Estel gli strinse una mano in un gesto quasi supplichevole. Allora sbottò, in tono accusatorio: «Non ti credo. Sei stato capace di sputare sopra la nostra fratellanza, l’unica cosa nella quale ancora credessi, e credo sia meglio per me tornare a vivere da vagabondo piuttosto che dividere ancora qualcosa con te. Sei venuto a cercarmi, e lo apprezzo, ma hai fallito la tua missione. Non tornerò. Non posso fidarmi ancora di te… per quanto possa essere penoso ciò». L’ultima frase l’aveva aggiunta a mezza voce, alzandosi bruscamente e affacciandosi alla finestra. Avrebbe voluto correre a casa, certo, e magari passare l’intero pomeriggio a raccontare a Dralbij della sua nuova vita… ma non poteva. Estel gli aveva consigliato di tenerlo nascosto, almeno i primi tempi, fino a quando non si fosse sentito abbastanza protetto da eventuali attacchi. Se quel maledetto giorno di fine delle illusioni non fosse mai esistito!
«Non mi sono reso conto di quello che ho detto» riprese Dralbij, ferito «Solo quando ormai era troppo tardi mi sono accorto della mostruosità che mi era uscita, spinta dalla delusione per non aver passato l’esame. Sai che io, agli albori dell’Anti-Amore, avevo detto di aver messo da parte il mio cuore per non dover finire nella rete dei sentimenti? Ebbene, è successo ciò che all’inizio volevo evitare: mi sono affezionato ad un’altra persona, e questo sei tu. Io ti voglio bene, fratellino: te ne prego, dimentica quello che ti ho detto. Non lo pensavo veramente e mai l’ho pensato». Conclusa la sua perorazione, si alzò e gli si avvicinò, fermandosi esitante a qualche passo di distanza da lui che gli voltava le spalle.
Statuario, Griša osservava la luce del sole tra le foglie. Senza accorgersene, giocherellava col codino che gli si era arricciato su una spalla: era il segno della loro fratellanza, e aveva voluto tagliarlo quella terribile sera, ma non l’aveva fatto. «Se io dovessi tornare» mormorò infine «Chi mi assicurerebbe che non mi ritroverei ancora nella stessa situazione? Come posso fidarmi di te?».
Per tutta risposta, Dralbij lo abbracciò.
Sprofondata tra i cuscini del divano, Estel pregava in silenzio: «Riappacificatevi…». Non voleva influenzare le scelte di Griša, e per tutto il tempo evitò di guardarlo o di rivolgergli anche un solo cenno. Addirittura, in quel momento così delicato, chiuse gli occhi. Quando li riaprì, Griša e Dralbij si stavano stringendo la mano destra: era fatta!
La tensione, che si era fatta insostenibile, svanì improvvisa come era venuta, simile alle prime nebbie autunnali. Dralbij, ancora dubbioso, si stava guardando intorno: sul tavolino del salotto erano accatastati i libri di scuola di Griša, sui quali doveva aver studiato in quei lunghissimi dieci giorni. Gli parve di vederlo, accoccolato sul tappeto con i testi davanti e la penna stretta tra le dita, mentre prendeva appunti sul quaderno. Chissà se era riuscito a studiare o se inconsciamente aveva sempre pensato a quel brutto screzio che si era delineato tra di loro. Lui, personalmente, era stato malissimo all’idea, e sapere di essere l’unico responsabile lo faceva sentire meschino e spregevole, ma non nel modo che gli procurava quella gioia perversa che aveva fatto conoscere anche al fratello. Era un disagio latente che ingrigiva le sue giornate.
«Andiamo a casa?» gli domandò con un filo di voce, temendo un rifiuto. Doveva essere stato benissimo in quei giorni, solo con la persona che amava giorno e notte: perché tornare alla routine, perdipiù con colui che l’aveva tradito?
Griša non aspettava altro, ma fino all’ultimo evitò di farglielo capire: raccolse le sue cose, preparò velocemente lo zaino e annunciò: «Ho finito. Possiamo andare». C’era una traccia di sorriso, nel suo tono di voce, che non riuscì a dissimulare.
Prima di partire, mentre Dralbij lo aspettava in macchina, Griša si fermò da Estel a ringraziarla per l’ospitalità: «Mi hai dato un letto dove dormire e la certezza di trovare sempre un piatto caldo» disse, rivangando la sua antica vita randagia «Sono stato qui per dieci notti, e chissà quanto ho mangiato; ma saprò ripagarti, te lo prometto, anche se non sarà mai abbastanza. Ringrazia anche tua madre da parte mia: non l’ho vista molto spesso in questi giorni». Lei lo abbracciò, inducendolo ad appoggiarsi allo stipite della porta, e appoggiandosi a lui ribatté: «È stato bellissimo averti qui come se fossimo sposati. Anche se ci conosciamo in fondo da poco tempo, mi sembra che tu sia sempre stato con me: grazie a te per avermi regalato ore così liete». Per salutarsi, si diedero un lungo bacio, promettendosi di rivedersi il più presto possibile.
Griša si chiuse il cancello alle spalle, con l’eco delle ultime parole di lei che lo accompagnava: «Sono fiera di te: hai cambiato vita completamente, e ti ci sei adattato in meno di ventiquattr’ore. Potresti essere tu a far avverare la profezia relativa alla nascita di un mio figlio… e ne sarei felice».
Salì in macchina con la fantasia affollata di immagini: lui ed Estel con un figlio in braccio? Un figlio destinato a salvare la stirpe delle creature del giorno e della notte? Si sentiva pronto a tutto, con lei accanto.
I dieci giorni di separazione erano serviti a lenire le ferite provocate quel giorno tra il rombo dei treni e il brusio della stazione: a Griša bastò tornare sul suo letto con i ricordi di quei giorni al sicuro nello scrigno del cuore per riuscire a fare sì che il maledetto 10 febbraio non fosse mai esistito.
Nella cuccetta inferiore, Dralbij si addormentò sereno per la prima volta dopo interminabili giorni di sonni agitati. Quante volte si era svegliato di soprassalto, e aveva visto il letto del fratello crudelmente vuoto!
Ma ora basta: l’ostacolo era stato superato felicemente. Perché tormentarsi ripensandoci? Ne avrebbero incontrati di peggiori, indubbiamente, ma se fossero rimasti uniti ce l’avrebbero fatta. Di questo erano entrambi sicuri.

Quando Asso venne a sapere che Griša era tornato a casa dopo aver trascorso notti e notti a casa della morosa, volle subito sapere tutto: «Dunque alla fine hai trovato una ragazza fissa! Immagino che ora dovrete trovare un falegname esperto per aggiustare il letto che avete sfondato durante i vostri incontri di fuoco!» «Guarda che non ho fatto nulla di quello che pensi tu» specificò Griša, aprendo il quaderno di letteratura e temperando la matita per gli appunti. Era serio, ma aveva un’innegabile espressione compiaciuta nel poter contraddire quell’amico che il più delle volte aveva ragione.
Asso esplose: per fortuna non era ancora arrivata la professoressa. Iniziò a picchiare i pugni sul banco, incapace di trattenersi. «Dieci giorni con la ragazza e non ci hai concluso niente!» lo canzonava affettuosamente «E cosa facevate, alla notte? Giocavate davvero con le pentoline?».
Griša fu sul punto di sogghignare: «No, ammazzavamo licantropi», ma si contenne giusto in tempo. Decise di raccontare solo quella parte di verità digeribile ai più, e rispose: «Secondo me non è ancora il momento. Da parte mia, intendo. Voglio dire… ancora non me la sento. È presto, e il suo amore con tutta la mia forza forse non è ancora riuscito a cicatrizzare le altre ferite. Non mi sono mancate certo le occasioni, eppure… no, insomma». Asso, stavolta, non scherzò. Aveva completamente dimenticato quanto l’amico avesse sofferto per amore, per quella stessa meravigliosa avventura nella quale si era lanciato, e capiva le sue esitazioni. L’amore di Estel avrebbe dovuto raggiungere altezze vertiginose per volare oltre i picchi dei suoi fallimenti passati. Accidenti a quei quattro anni con Bettina. «In fondo hai ragione» concluse, aprendo a sua volta il quaderno «Meglio aspettare qualche settimana in più che perdere tanti mesi d’amore per fretta».
La professoressa iniziò la lezione, gemendo le parole una ad una e lamentandosi di chiacchiere sottovoce che non si sentivano. Ogni tanto si fermava a bere dalla fedele bottiglietta o a cacciarsi in bocca una caramella, per poi ricominciare a costringersi a parlare. Deliziati, gli alunni cercavano di scommettere quanto ancora avrebbe resistito prima di lamentarsi della sua salute malferma o del tempo inclemente.
Quando però prese la sua copia della biografia di Dante Alighieri e cominciò a leggerla con la sua voce sforzata, Griša non riuscì più a mantenere la concentrazione e si mise a fare minuscoli disegni sui bordi della pagina: era bravissimo in quelle miniature, e riusciva davvero a far scorrere più in fretta il tempo. Nel banco accanto al suo, Asso aveva trovato un nuovissimo passatempo ancora migliore del suo: incidere con l’unghia lunga che si teneva sul pollice un pezzo di gessetto che la spiritosa insegnante di biologia gli aveva scagliato per punirlo di qualche battuta. Ad un tratto gli venne un’idea: estratto dall’astuccio un cacciavite, inseparabile compagno di tante incisioni sui banchi, prese a svitare meticolosamente una delle grosse viti che tenevano saldo il piano del banco del suo vicino. Quando l’ebbe staccata, la contemplò con un sorrisetto compiaciuto e continuò ad incidere il gessetto con quella: stava creando una vera opera d’arte, che regalò a Griša quando l’ebbe finita.
«Come mai questo pensiero gentile?» ironizzò lui. Asso attese qualche secondo prima di rispondere: «Perché ti voglio bene»: giusto il tempo che ci volle perché Griša si alzasse e rovesciasse involontariamente il banco svitato, con un baccano impressionante, tra le urla della professoressa e le risate del resto della classe.
L’ora successiva era quella di matematica: lezione ideale per parlare come se si fosse al bar. Griša sistemò sul banco il quaderno e la calcolatrice, prese in mano una matita per fingere di prendere appunti e cominciò a chiacchierare: «Lo sai, esimio collega? Ieri mattina, a casa di Estel, ho scritto una canzone dolcissima guardandola dormire. Gli accordi sono tutti maggiori, e anche se è arpeggiata non sembra affatto malinconica». Asso lo interruppe: «Malinconiche? Le tue canzoni fanno venire voglia di suicidarsi! Sanno da morto, senti che tanfo…», ma subito tornò serio per leggere il testo. Non c’era nulla da obiettare: quella nuova storia faceva davvero bene a Griša. Purché non finisse come tante altre prima.
Per tutta la durata della lezione, mentre la professoressa parlava a raffica, i due amici si dedicarono ad una minuziosa rifinitura della canzone. Sembravano concentratissimi sul seno e sul coseno dell’angolo alfa, cioè esattamente su quanto più lontano potesse essere dalla loro mente, e quando suonò la campanella avevano per le mani due canzoni contemporaneamente. «Diventeremo famosissimi» pronosticava Griša «Immagina: Estel mi ha parlato, ultimamente, di un locale non molto distante da qui, dove hanno anche il karaoke. Un giorno ci saranno le nostre basi musicali, e i nostri fans faranno a gara a chi canta meglio! Cosa importa se all’università io e te saremo ai due capi della Russia? Ora di settembre saremo già la rivelazione del millennio…» «Che locale è?» si informò Asso, ma dopo la risposta ne sapeva quanto prima: «Mi sembra qualcosa come Number One, ma non prendermi in parola: quando Estel l’ha nominato stavo per addormentarmi, e può anche darsi che mi sia sognato tutto» «Tu stai sempre dormendo quando è ora di andare a morose» puntualizzò lui, soddisfatto della sua arguzia. Griša era troppo impegnato a sognare ad occhi aperti per badargli.
Ora dopo ora, la mattinata scolastica volse al termine. Se gli studenti al mattino erano stati diligenti nel disporre sul banco astucci e quaderni, ora cacciarono tutto alla rinfusa negli zaini e si precipitarono fuori, prima che il professore di greco, particolarmente logorroico verso la fine dell’ora, cercasse di trattenerli.
Una volta fuori, si raggrupparono tutti sul marciapiede antistante la scuola, e cominciarono a discutere animatamente dell’imminente gita scolastica. «È l’ultima gita che faremo insieme» teneva banco Kazami, una ragazza giapponese «E dobbiamo renderla indimenticabile. Monaco di Baviera, giusto? Quindi, birra a fiumi. Dovremo procurarci tanto alcol da far impallidire le fabbriche di birra di tutta la Baviera. E poi stecche di sigarette, e tutto quello che riuscite a portare via da casa». Intervennero Tiffany e Marlene, che con Terry formavano la triade femminile della copiatura durante i compiti in classe: «E tenete presente che con noi ci sarà solo il professore di storia dell’arte: ha già provveduto ad informarsi sulle birrerie della zona!» «O sui bordelli» aggiunse Asso, facendo ridere tutti.
La gita a Monaco sarebbe stata un immenso brindisi di addio al liceo, questo lo sapevano tutti. Un funerale allegro prima dell’esodo verso le facoltà universitarie di tutta la Russia. Una buona metà della classe aveva già provveduto a procurare le macchine fotografiche: l’idea era quella di raccogliere tutte le foto su un immenso cartellone che li avrebbe accompagnati fino al temuto esame di maturità.
Griša sorrideva vagamente, immaginandosi la gita. Monaco: non era lì che era nata l’imperatrice Sissi? E non era lì che Estel aveva sempre sognato di andare? Decise: le avrebbe portato tutto ciò che fosse riuscito a trovare su di lei. L’unico problema riguardava la classe che avrebbe viaggiato con loro: una quinta superiore da Southampton, con la quale erano gemellati. Precisamente, la classe di Bettina e di sua sorella Silver; giusto per ricordare a chi rischiasse di dimenticarlo che il mondo non è poi tanto grande. E Griša era terrorizzato all’idea di rivedere Bettina, e di dover convivere con lei nello stesso albergo per cinque giorni. Cinque giorni senza Estel, in compagnia della sua peggior nemica: non ne dubitava, sarebbe stata un’impresa ardua, ma era ben determinato a divertirsi fino all’ultimo con i suoi compagni.
«Partiremo il 14 marzo» lesse Kazami sul programma «Il che vuol dire che abbiamo circa tre settimane per prepararci. Mi raccomando allora: fumo e alcol!».
Griša e Asso si incamminarono insieme, l’uno diretto verso casa, l’altro verso la fermata della corriera. «Sarà un’orgia» profetizzò Griša «E io non potrò neanche ubriacarmi felicemente, sapendo che ci sarà Bettina con noi. Ormai il grande sentimento che provavo per lei è stato soppiantato da uno ben più forte, così grande che non riesco ad identificarne i confini; ma quella ragazza è geniale, e terribilmente imprevedibile: non riuscirei a difendermi da lei nemmeno se stessi in guardia per tutto il tempo!» «Vorresti stare all’erta per centoventi ore?» scherzò Asso «Auguri!».
Si separarono sotto un cielo bianco che prometteva neve; e sotto i primi fiocchi leggeri Griša rifletté, assorto: «Se Bettina dovesse tentare qualcosa, io cadrei sicuramente nelle sue trappole. Ma lei ancora non sa che io sono insieme a Estel! Se venisse a sapere che ormai ho la ragazza, forse mi lascerebbe in pace. Dio mio: come può l’amore diventare terrore?».
Perso nelle sue meditazioni psicologiche, non si accorse che ormai la neve aveva iniziato a cadere fitta: la temperatura era salita, in quei giorni, e c’era da aspettarsi ancora qualche forte bufera di neve. «Purché non cada domani pomeriggio» pensò, preoccupato «È l’unico giorno in cui nessuno può darmi un passaggio fino a casa di Estel, e mi toccherebbe andarci in bicicletta. Devo stare via di casa comunque: mi sembra che domani Dralbij debba dare ripetizioni di matematica a Lestadt, e li disturberei gironzolando per casa».
Svoltò in Via dei Fiori Bianchi calandosi il colbacco sugli occhi: possibile che in quella via il vento fosse sempre contrario? Ormai la neve cadeva quasi orizzontale, e lui non vedeva l’ora di essere a casa, davanti ad un piatto di minestra fumante. Le preoccupazioni per la gita erano scomparse: la forza dell’amore gli avrebbe dato il coraggio di affrontare qualsiasi cosa. E poi, per il momento, il problema maggiore era rappresentato dal tempo.

L’indomani c’era il sole; Griša partì nelle prime ore del pomeriggio, pedalando veloce sulle strade già sgombrate dalla neve. Gli lacrimavano gli occhi dal freddo, ma era ben riparato dal colbacco e dai guantoni di pelle. Già pregustava una tazza di tè a casa di Estel, e poi un caldo abbraccio sul divano: sì, era stato fortunato a trovare una persona così straordinaria con cui dividere l’eternità.
La sua vita infinita. In pochi giorni si era perfettamente abituato alla doppia natura che Estel gli aveva conferito, e riusciva già a nascondere perfettamente i canini che gli si allungavano insieme alle ombre della sera. Nessuno avrebbe mai potuto sospettare nulla: eppure era successo tutto appena cinque giorni prima! Orgoglioso di essersela cavata così bene, diede due colpi più forti sui pedali e fece l’ultimo tratto di strada sfrecciando come una saetta e sgommando sulle lastre di ghiaccio. Frenò davanti a casa di Estel, ma aspettò qualche secondo prima di suonare il campanello: gli piaceva pregustare l’attesa, assaporare ogni stilla di quegli istanti frizzanti.
Il freddo, però, era penetrante: si decise a suonare, notando che la macchina della mamma di Estel non era parcheggiata nel cortile interno. Dunque Estel era sola in casa, e con ogni probabilità ancora addormentata, alle tre del pomeriggio. Suonò di nuovo, sperando che sentisse il campanello e gli aprisse presto: già una volta sua mamma l’aveva fatto entrare dicendogli di svegliarla, ma lui aveva preferito lasciarla dormire ed era tornato a casa a piedi, sotto una nevicata senza precedenti.
Finalmente Estel aprì il cancello: indossava un soffice pigiama di pile rosa e una vestaglia di lana. «Come mai così discinta?» la prese in giro Griša, togliendosi gli scarponi bagnati e rimboccandosi i risvolti sfilacciati dei jeans per non rischiare di spruzzare il pavimento «E se al mio posto fosse arrivato qualche tuo spasimante?» «Quanto sei stupido» ribatté lei, scompigliandogli i capelli schiacciati dal colbacco «Lo sai che non ti tradirei mai e poi mai, neanche se mi ci costringessero con le peggiori torture. La morte, piuttosto che fare una cosa simile. Vieni di sopra, in camera: ho acceso il riscaldamento e riattizzato la stufa. Sarai pieno di freddo con tutta questa neve. Più tardi possiamo anche prepararci qualcosa di caldo da bere, se ti va».
Era bellissimo essere accolti così: quella tiepida atmosfera familiare dava sicurezza e sensazioni indimenticabili nel loro piccolo.
Si sedettero sul letto, stretti sotto una coperta di lana, osservando i giochi che la luce del sole faceva intorno a loro. Estel, che si era appena svegliata, si abbandonò completamente appoggiandosi a Griša, che le accarezzava piano i capelli. Non avevano alcun limite di tempo, avrebbero potuto stare così per sempre. Chissà, se un giorno avessero davvero avuto un figlio, quanti momenti di tranquillità sarebbero riusciti ad avere. Entrambi immaginarono di stringersi l’una all’altro, tenendo un neonato tra loro: era il sogno più bello che avessero mai fatto.
Si sdraiarono sotto le coperte, caldi e rilassati, baciandosi lentamente pur avendo entrambi il fiato corto. Era un’emozione che si rinnovava continuamente, come se fosse sempre la prima volta, eppure quel giorno qualcosa era diverso: i loro morbidi baci si fecero famelici, le loro carezze più rapide e incerte. Griša tremò, ma non volle ritrarsi. Nemmeno quando Estel lo indusse a scivolare sopra di lei, affondandogli le dita tra i capelli quasi con violenza. Sentivano crescere tra loro un desiderio smisurato, ma non sapevano fino a che punto spingersi. Non era troppo presto ancora?
In ogni caso era già troppo tardi per tirarsi indietro: nella stanza calda e profumata di incenso i maglioni erano inutili, e presto a dividere i loro cuori ci fu solo la pelle fremente. Poi il loro abbraccio, simultaneamente, si fece più profondo. Avevano il cuore a mille che batteva come un uccello impazzito nella voliera.
Estel era completamente felice per la prima volta in vent’anni di vita. Innamorata persa di quel giovane conosciuto quasi per sbaglio, che anche in un momento così intimo sapeva essere dolce e timido. Anche a lui doveva apparire tutto come un sogno bellissimo, lo si capiva da come si lasciava andare fiduciosamente sull’onda che seguiva.
Griša non osava aprire gli occhi per paura di scontrarsi con un’altra realtà, ma si fece forza e tuffò lo sguardo in quelle pupille color del mare. Sentiva il leggero contatto delle loro labbra, e con la voce rauca sussurrò due sole parole, grandi però abbastanza da poter riempire il mondo: «Ti amo». Le scostò i capelli dalla fronte e la coprì di teneri baci esitanti. Mai in vita sua aveva provato qualcosa di simile per un’altra persona, e fare l’amore con lei era una sensazione così intensa da lasciarlo stordito.
Estel lo strinse più forte, guidandolo verso altri mondi, camminando su sentieri nuovi fino a quando fu la luce della luna ad illuminare i loro corpi nudi sotto le lenzuola.
Solo allora Griša scivolò di lato, crollando esausto con gli occhi chiusi. Era solo lontanamente consapevole delle unghie di Estel che gli tracciavano leggere strade lungo la schiena percorsa da brividi, ma trovò la forza di trascinarsi fino a lei, abbandonandosi definitivamente tra le sue braccia. La sentiva calda e rilassata sotto il suo respiro. Mai, mai e poi mai aveva provato nulla di simile, ne era sicuro. La baciò delicatamente, indovinando più che vedendo le sue labbra distese in un sorriso appagato. Avrebbe voluto addormentarsi, ma doveva tornare a casa: in fondo a qualche angolo di cielo sentì suonare sette rintocchi del campanile. Era quasi ora di cena, ma non sarebbe riuscito ad alzarsi nemmeno se l’avesse voluto.
Stette così, stretto a colei che amava più della sua stessa vita, accennando invisibili disegni su quella pelle vellutata con la punta delle dita, fino a quando sentì che i canini gli si erano di nuovo appuntiti e le forze gli erano tornate. Puntellandosi su un gomito contemplò la signora dei vampiri che gli giaceva accanto, sfolgorante di bellezza alla luce della luna.
Estel lo abbracciò ancora, e ancora si ritrovarono a perdersi reciprocamente. Senza foga, stavolta: lentamente, gustando tutti i dettagli delle sensazioni che li facevano rabbrividire, con gli occhi negli occhi anche mentre si baciavano con passione.
Finirono per arrendersi tra le coperte nello stesso istante. Insieme. E certi di restarlo per sempre.
Avevano un’eternità di momenti del genere davanti, e forse fu solo quello a convincere Griša ad alzarsi anche se a malincuore e cercare i vestiti che aveva lasciato cadere distrattamente nell’impeto dell’amore.
Prima di partire, però, non rinunciò ad un ultimo bacio: uno scorcio del paradiso che aveva conquistato.
Estel lo guardò allontanarsi sotto la luna, con la sciarpa che gli svolazzava alle spalle, protetto dal vento dal colbacco di pelliccia e soprattutto dal calore che gli fondeva il cuore. Rivedeva ancora la sua espressione mentre diceva di amarla: quasi impaurito, come se troppe volte i sogni gli fossero sfuggiti di mano quando ormai li aveva afferrati. Eppure, anche in quel timore, gli occhi gli brillavano di un sentimento più forte di ogni altra cosa. Estel non si era mai sentita così amata: prima, nel suo passato, c’erano stati solo ragazzi insensibili, che l’avevano sfruttata e poi abbandonata, ridendo alle sue spalle e vantandosi con gli amici della loro presunta vittoria. E ora era arrivato Griša: dolce, timoroso, remissivo, era riuscito a fare breccia nel suo cuore. Tornò in casa e si lasciò cadere sul letto sfatto, chiudendo gli occhi in un beato dormiveglia.

Nei giorni seguenti, la loro storia iniziò a radicarsi sempre più profondamente. Erano diventati inseparabili, e ogni secondo che trascorrevano insieme era come una benedizione. Trovavano qualsiasi circostanza ideale per incontrarsi, e ormai non si contavano più le lunghe serate che trascorrevano soli con il loro amore.
Il giorno prima della partenza per la gita scolastica, Griša commentò afflitto: «Cinque giorni senza di te, a migliaia di chilometri da Pietroburgo, e perdipiù insieme alle Regine Realiste. Me la vedo brutta!». Estel, che stava giocherellando con i suoi capelli, glieli ingarbugliò scherzosamente e cercò di incoraggiarlo: «Penserai a me tutto il tempo e il solo pensiero ti darà forza. E nel caso ti dovessi dimenticare di me, ricordati che andrai nella terra natale di Sissi: la vedrai ad ogni angolo della strada e ti verrò in mente io. Ti ho anche fatto vedere tutti i film su di lei che possiedo, e hai letto la sua biografia: visita per me tutti i posti che ti ricordi!».
Poi avevano fatto l’amore, e quando il mattino seguente Griša era partito, non temeva più la presenza di Bettina, che avrebbe visto a metà strada. Si rannicchiò sul sedile della corriera, avvolgendosi nella giacca, cullato dal rombo del motore e dal chiacchiericcio dei compagni. Asso, che era naturalmente seduto di fianco a lui, dopo aver cercato inutilmente di scoprire tutto quanto l’amico aveva concluso nel fine settimana con Estel si alzò e attraversò il corridoio centrale per raggiungere i pochi compagni che non stavano sonnecchiando
Quando, a metà strada, salì sul pullman anche la classe di Southampton, Griša parve istantaneamente svegliarsi: escludendo il disagio delle due Regine, aveva parecchi amici coi quali corrispondeva per posta, e non vedeva l’ora di rispolverare la sua lingua madre. Sebbene anche Dralbij fosse inglese, tra loro erano così abituati a parlare in russo che lo facevano anche quando erano soli, e i rari dialoghi in inglese si facevano sempre più sporadici.
La 5^A era felice di avere Griša tra loro: potevano ricorrere a lui come ad un vocabolario vivente di inglese se dimenticavano qualche termine o qualche modo di dire, sicché le conversazioni erano fluide e scorrevoli, per la gioia dell’insegnante di inglese che però non aveva partecipato alla gita per malattia e quindi non poteva sentirli. Né poteva avere alcun sentore del fatto che i compiti in classe risultassero sempre piuttosto ben fatti: Griša era abilissimo a passare gli esercizi svolti, e loro non erano secondi a nessuno nel copiarli modificando leggermente dall’originale.
Al confine fecero una sosta, e Griša ne approfittò per precipitarsi ad una cabina telefonica a chiamare Estel. Aveva sognato quel momento per tutte le prime sette ore di viaggio, e prima di partire aveva comprato una scheda telefonica. Guai a chi l’avesse disturbato in quel momento; perfino Asso si tenne a distanza, e Bettina – una volta scoperto chi la sua vittima stesse chiamando – preferì rimandare i suoi attacchi alla notte in albergo.
Asso lanciò solo un’occhiata distratta all’amico che, dimentico dell’ora di pranzo, parlava fittamente al telefono; ma quell’occhiata gli bastò per capire che qualcosa di brutto stava per succedere o era già successo.
«Cosa?!» aveva urlato Griša, stringendo i pugni così forte da sbiancarsi le nocche e conficcarsi le unghie sui palmi. All’altro capo del filo, centinaia di chilometri distante, Estel aveva ripetuto, con la voce incrinata dal pianto: «Purtroppo è vero. Tra pochi giorni mi trasferirò a Mosca, ho trovato lavoro. L’ho saputo questa mattina». Aveva fatto una lunga pausa per trattenere le lacrime, poi aveva promesso: «Ma non me ne andrò prima che tu sia tornato da Monaco, te lo prometto, tesoro. Almeno un’ultima volta ci rivedremo».
Griša tornò dai compagni stravolto. Asso e Terry gli corsero subito incontro ma non osavano rivolgergli la parola. In breve anche gli altri si avvicinarono, incuriositi, e ruppe il gelido silenzio un’altra grande amica di Griša, nonché la suggeritrice ufficiale nei compiti di matematica, Breshka: «Vuoi un biscotto ai mirtilli?».
Fu quell’offerta titubante a sciogliere la tensione. Griša, con un sorriso grato, prese un biscotto e si sforzò di apparire padrone di sé. «Grazie, ragazzi, siete gentili» sospirò «Ho solo ricevuto una notizia non molto bella: la mia ragazza si trasferirà lontano da Pietroburgo, a Mosca, e molto probabilmente non ci vedremo per settimane» «Una notizia “non molto bella”?» intervenne Terry «Che eufemismo! Io e mio moroso ci vediamo solo nei fine settimana perché anche lui vive distante, e già così è brutto. Non vedere la persona che si ama forse anche per mesi… e vivere col dubbio di essere traditi o dimenticati?». Griša si rasserenò: «No, non Estel. Lei… non mi dimenticherebbe mai, né tantomeno mi tradirebbe». Il solo pensiero delle parole dolci che si erano detti il giorno prima – come sembrava lontano! – fu sufficiente a dargli la forza di andare avanti e pensare lucidamente. No, non avrebbe permesso che qualcuno gli portasse via Estel. Mai e a nessuno. A costo di rapirla, o di trasferirsi con lei, ma non poteva perderla.
Arrivarono a Monaco all’ora di cena: giusto il tempo di sistemarsi nelle camere, fare una doccia e prepararsi per fare il giro delle birrerie. Il professore che li accompagnava, come tutti prevedevano, li lasciò liberi, accontentandosi di avvertirli: «Domani mattina la sveglia è alle sette e mezza, e avremo tre musei da visitare. Vedete voi a che ora tornare in albergo!».
Nessuno era disposto a tornare prima delle tre del mattino, questo era poco ma sicuro, e confidavano tutti nel potere del caffè.
Caffè che, il mattino seguente, si rivelò essere allungato con abbondante acqua calda. Quindi del tutto inefficace sulle loro menti annebbiate dal sonno e dalla birra. La maggior parte di loro si era ubriacata senza ritegno e non aveva nemmeno dormito: nella mezz’ora di autobus che li separava dal museo, parecchi crollarono.
Griša era l’unico della sua classe ad essere rimasto relativamente sobrio in confronto ai compagni, e nonostante la notte in bianco che aveva alle spalle riuscì a seguire attentamente le spiegazioni delle guide. Gli interessavano gli artisti dei quali erano esposte le opere nei musei, ma soprattutto si era già messo alla ricerca di qualunque cosa potesse riguardare Sissi. Voleva portare a Estel quanti più regali fosse riuscito a trovare, dato che per Dralbij aveva trovato subito un prezioso libro di pelle su cui studiare gli incantesimi che ancora non gli riuscivano. Sorrise, ripensando ai loro grossi tomi di maga nera, magia bianca e alchimia: il più delle volte riusciva, con suo fratello, a realizzare gli incantesimi che vi erano descritti. Un quaderno su cui annotare i migliori sarebbe sicuramente andato bene.
Cominciò dunque la prima giornata di gita, con l’angoscia nel cuore che combatteva un acerrimo duello contro l’amore e la fiducia.

Bettina, venuta a sapere di ciò che turbava il generale nemico, cominciò subito a cercare di colpirlo dove lo sapeva più debole, aiutata anche dall’ugualmente perfida sorella gemella: «Non ti sembra sospetto che la tua Estel abbia aspettato proprio la gita per dirti che se ne andrà? Forse ora è lì con l’amante che le ha proposto di fuggire con lui, e se la ride pensando alla vita che la aspetta lontano da te! A proposito della sua vita: alcuni miei sudditi di Pietroburgo mi hanno riferito certi aneddoti piccanti che sicuramente sarai curioso di sapere…» «Sta’ zitta!» ringhiava Griša, feroce. Aveva paura non di sapere, ma di perdere il controllo. Se fosse successo dopo il tramonto, non sarebbe riuscito a impedirsi di sgozzare Bettina a morsi e bere il suo sangue. Lei, però, non gli badò nemmeno e ghignò: «Conosci Luke, uno dei nostri comandanti, nonché grande amore della vostra signora Mary? Ebbene, è stato lui il primo per Estel… ma non certo l’unico! Si è concessa a tutti coloro che l’hanno desiderata…».
Griša alzò d’un tratto il viso teso verso di lei e scoprì i denti. Il sole era tramontato, e i canini brillavano lunghi e mortali, pronti ad affondare nel sangue. «Ti suggerisco di smetterla» soffiò. Non avrebbe voluto rivelarle di essere diventato un vampiro, ma non era riuscito a tacere «Sapevo di Luke, ma so anche che si fanno degli sbagli nella vita. Tu, per esempio, sei stata il peggior errore per me! Adesso sparisci dalla mia vista, se non vuoi finire i tuoi giorni prima del tempo. E metti via quel paletto di frassino: non riusciresti ad uccidermi, dato che in me vive anche una parte da elfo».
Non avendo più idee sul momento, Bettina si rassegnò a lasciare la stanza. Rimasto solo e certo di esserlo per parecchio, dato che il suo compagno di stanza Asso era andato al vicino supermercato a comprare della vodka, si abbandonò sul letto e lasciò che le lacrime gli scorressero liberamente sul viso. «Non posso perderti, Estel» gemette, esausto. In fondo all’armadio aveva riposto un sacchetto di tela, nel quale ogni giorno nascondeva ciò che comperava per lei: quei regali che sarebbero diventati un addio.
Ai piedi del letto c’era una scrivania, già invasa di bottiglie e bicchieri. La liberò e, presa dalla valigia una matita, cominciò a scrivere un breve racconto nel quale immaginava come sarebbe stata la partenza di Estel. Scrivere di ciò che lo faceva soffrire, amplificandolo e privandolo di qualsiasi speranza, l’aveva sempre fatto sentire meglio. Così, nel racconto, Mosca era diventata New York e lui non si era mai riappacificato con Dralbij; e già mentre scriveva, rendendosi conto che la realtà non era ancora così tragica, si sentì pronto ad affrontare qualunque cosa.
Scriveva sempre più in fretta, senza mai cancellare una sola parola: non aveva mai avuto bisogno di correzioni, in quei momenti: le parole gli uscivano di getto, esattamente come lui le pensava, anche se qualche volta faticava a descrivere le sensazioni più profonde.
Nel giro di un’ora il racconto era finito:
Innamorato perso e, per la prima volta in vita sua, felice di esserlo: così si sentiva Griša, sforzandosi di ignorare la sottile vena di paura che gli agitava l’animo. Paura di un sentimento troppo grande per essere controllato, paura di perdere colei per la quale si sarebbe sacrificato tra le peggiori torture, paura del nulla che doveva seguire.
Ma Estel se ne sarebbe andata nel giro di poche settimane, era inevitabile: il laccio del tempo si stringeva soffocando sempre più la sua vita. Aveva da poco – da troppo poco – trovato la felicità a fianco di Griša nel mondo Antirealista, e già sapeva di dovervi presto rinunciare. Ai due amanti non rimaneva altro da fare che vivere fino in fondo ogni istante che l’ingrata vita riservava loro e accumulare ricordi per la povertà di dopo.
Ogni mattina si svegliavano sempre più angosciati: un giorno in meno che li separava dall’addio. Il resto dell’esercito Antirealista guardava con imponente tristezza Estel e Griša, desiderando ardentemente di poter fare qualcosa e rimanendo tragicamente consapevole di non avere più carte in mano. Il massimo aiuto che qualcuno poteva offrire loro era incarnato nella figura di Moonlight, il migliore amico di Estel, da poco promosso a capitano, che metteva sempre a disposizione la sua macchina – era il più grande di tutti loro – per favorire qualsiasi incontro romantico.
A incupire ulteriormente la situazione contribuiva soprattutto il lutto che aveva colpito gli Antirealisti: Dralbij, il generale Dralbij, fratello di Griša, se n’era andato per sempre dopo aver pronunciato le parole più dure di tutta la sua vita che si erano automaticamente trasformate in un giuramento Realista.
Griša aveva ancora davanti agli occhi quella scena: sullo sfondo affollato eppure estraneo e anonimo di una stazione, Dralbij gli si era rivoltato contro, ringhiando: «Io non sono il gemello di nessuno, e questo è il mio lato Realista che prende il sopravvento!». Ogni volta che ci pensava chiudeva involontariamente gli occhi per impedire che le lacrime lo tradissero: non aveva pianto nemmeno in quel momento orribile, e tutto il suo incommensurabile dolore si era trasformato in una perfida barriera che l’aveva allontanato per sempre da Dralbij. Quella terribile sera, nemmeno l’amore di Estel aveva potuto fare nulla per risanare le sue ferite, ferite che non si sarebbero mai più rimarginate.
Il gelido inverno russo era finito, la primavera era scivolata via con le ultime nevicate e le prime piogge, e ora stava sbocciando un’estate dolcissima baciata dal sole. Gli alberi si erano ricoperti di foglie, e il vento cantava e mormorava tra le loro fronde, duettando con il lieve gorgoglio della Neva che scorreva proprio lungo la Roccaforte Antirealista.
Proprio qui Estel e Griša si erano dati appuntamento l’ultimo giorno; loro due soli, il generale e il colonnello, per darsi l’addio.
L’aereo per New York sarebbe partito prestissimo: erano le loro ultime tre ore da trascorrere insieme.
Entrambi erano distrutti dalla tristezza, stremati da notti insonni, sconfitti dalla realtà che aveva trionfato; la bellezza dell’estate pietroburghese non serviva a rincuorarli, niente e nessuno avrebbe potuto.
I due si lasciarono cadere sul morbido tappeto di muschio in riva al fiume, stretti in un abbraccio disperato, tremando di dolore.
«E così, è arrivato anche il momento di dirci addio» mormorò Griša. Aveva gli occhi colmi di rabbia e di vano sconforto, e le pupille dilatate al punto da invadere le iridi scure che tante volte si erano illuminate d’amore. Estel gli affondò le dita tra i capelli – per l’ultima volta! – mentre una lacrima le solcava il viso pallido e triste: «Non lo dire…» sussurrò con voce tremante «Chissà, forse un giorno torneremo insieme! È un sogno, no? E noi siamo i seguaci del sogno! Questo non sarà un addio, basta crederlo» «A volte anche i sogni più belli finiscono» rispose Griša amaramente «Ci dimenticheremo l’una dell’altro, le nostre strade divise procederanno in direzioni diverse. Ricorderemo forse per anni i bei momenti trascorsi insieme, dal primo all’ultimo, ma inevitabilmente finiremo per perderne memoria».
Estel, abbandonata tra le sue braccia, rimase a lungo in silenzio prima di dire esitante: «Tu mi hai insegnato qualcosa di molto importante: non dire che i sogni sono inutili, perché inutile è la vita di chi non sa sognare. Finché io e te sogneremo il giorno in cui ci ritroveremo, sarà come essere sempre insieme!».
La cosa peggiore era che nessuno dei due credeva davvero a quanto diceva.
Le tre ore, ridicolmente brevi, finirono in pochi istanti. Arrivò Moonlight, con la stessa espressione di un carceriere che scorta il condannato verso l’esecuzione, e annunciò: «È ora di andare». Anche lui non riusciva a credere che Estel fosse costretta ad andarsene: aveva trovato in lei l’amica più sincera, e non l’avrebbe più rivista.
Estel e Griša si sedettero sul sedile posteriore dell’auto: lo stesso posto che avevano occupato tante volte in circostanze ben diverse. Rividero gli inizi della loro storia, a tenersi per mano nelle sere buie di viaggio, incerti e felici… il loro primo bacio… la notte in cui Griša le aveva regalato un anello… e ora era tutto finito!
Moonlight cercò più volte di iniziare un discorso, ma il pianto gli strozzava la gola; guidò fino all’aeroporto in silenzio, con le lacrime che gli scorrevano sulle guance.
All’aeroporto c’erano tutti, l’esercito Antirealista al completo. Il posto occupato da Dralbij era stato lasciato vuoto in sua memoria, per quanto dolorosa fosse la vista di quella spaccatura interna al gruppo.
Fu un addio tristissimo; solo Griša rimase in disparte, con un’espressione assassina, fissando l’aereo che gli avrebbe presto strappato il cuore. Aveva gli occhi perfettamente asciutti, tanto che Estel si preoccupò: tenendosi tutto dentro, stava finendo per diventare un mostro di cinismo e cattiveria. Gli si avvicinò in silenzio e lo prese per mano, sentendo le dita di lui intrecciate alle sue sempre più rilassate.
Poco dopo, Griša parve ritornare in sé, sebbene gli occhi gli brillassero ancora di follia. «Amici» esordì, raddrizzandosi il cappello da generale «Ce la fate a cantare l’Inno Antirealista in onore del nostro colonnello?». Lui stesso non era sicuro di riuscirci. Prese la chitarra e si sedette sull’asfalto, arpeggiando le ormai celebri note minori dell’introduzione. L’esercito Antirealista si unì al canto, tutti sull’attenti, con la mano sul cuore.
C’erano anche alcune pattuglie Realiste, che al vedere quella scena solenne si lasciarono vincere loro stessi dalla commozione.
E, lontano e nascosto alla vista, c’era anche Dralbij. Appoggiato al muro della sala d’attesa, cantava l’Inno a bassa voce, troppo piano per essere udito, dolorosamente consapevole della sofferenza di Griša, lui stesso ferito dalla realtà.
L’aereo era pronto a partire.
Gli Antirealisti indietreggiarono, lasciando soli sulla pista Estel e Griša.
I due, immobili l’uno di fronte all’altra, si guardavano negli occhi senza parlare. Griša avrebbe voluto sprofondare in quegli occhi ipnotici, dello stesso colore cangiante del mare in inverno, annegarvi in fondo. Estel ancora non voleva credere che fosse davvero il momento.
Si baciarono a lungo, lentamente, persi in un mondo senza tempo che svaniva dissolvendosi nel tempo reale, ormai esaurito.
«Mi chiedo come sia possibile soffrire così» disse Estel «Forse avevi ragione tu quando dicevi che Amore fa rima con Dolore, ma non è a questo che penserò: voglio ricordare soltanto i momenti più belli che abbiamo vissuto insieme in questi mesi».
Griša le porse un quaderno rilegato, cercando invano di sorridere: «Allora porta con te questo. È il mio diario… il diario che ho iniziato a scrivere quest’inverno, quando ti ho conosciuta. Ho scritto l’ultima volta stamattina, e non ho mai saltato un giorno: la nostra storia è tutta qui».
Era il momento.
Estel, dopo l’addio a tutti gli Antirealisti, si rivolse l’ultima volta a Griša: «Ti amo», disse semplicemente, ma in quelle due parole c’erano tutte le loro vite.
Era già sull’aereo quando Griša riuscì ad articolare: «Anch’io ti amo, colonnello…».
I motori ruggirono… l’aereo cominciò a scivolare sulla pista… decollò… e presto fu solo una scheggia di dolore in un cielo innaturalmente azzurro e privo di nuvole.
Griša cadde in ginocchio ai bordi della pista, tenendosi il viso tra le mani. Lacrime calde gli scorrevano tra le dita, lacrime sole e inutili, da troppo tempo trattenute. Nessuno osò avvicinarglisi: che cos’avrebbero potuto fare?
Soltanto Dralbij, vedendolo in quelle condizioni, mosse qualche passo verso di lui.
Si fermò prima di raggiungerlo: lui non c’entrava più niente con loro. «Coraggio, fratellino» mormorò, andandosene.
Il futuro non importava a nessuno: esistevano solo il passato perso per sempre e il presente.
Uno alla volta, l’esercito sciolse la formazione, e tutti tornarono alle loro case.
All’aeroporto rimase solo Griša, e si trattenne lì, tramortito dal dolore, fino a quando una splendida luna piena salì ad illuminare la pista.
Il generale sconfitto dal destino si alzò lentamente e si trascinò verso la Taverna dei Rimpianti: solo lì, nei riflessi di un bicchiere di rosso, poteva sperare di rivedere i suoi fantasmi del passato…
La Taverna dei Rimpianti. Ci sarebbe tornato, già lo sapeva. Era lì che avrebbe annegato il suo amore pur sapendo di non esserne in grado.
Asso lo trovò ancora alla scrivania, completamente ubriaco. Aveva bevuto da solo un’intera bottiglia di vodka, che giaceva vuota sulla moquette della stanza. Fissava il foglio sul quale la sua scrittura si era fatta sempre più tremolante, ma non lo vedeva. Gli si avvicinò e gli passò un braccio sulle spalle, mormorando soltanto: «Non la perderai. Il mondo è troppo piccolo per tenere lontane due persone che si amano veramente».

Come ultima gita fu un trionfo del divertimento di classe. Erano relativamente liberi, e l’ultima notte perfino Griša e Bettina lasciarono da parte le ostilità per dilettarsi a fare baldoria con i compagni. Le bottiglie vuote non si contavano più, e tutti – ubriachi o fumati persi – aggiungevano qualcosa di ridicolo da aggiungere allo Stupidario. Asso girava per la stanza con un’asse del water al collo. Un altro loro amico, che si era sentito male, alla premurosa domanda «Vuoi un fazzoletto?» da parte di Morgana aveva risposto: «Sì, e anche un gattino». Breshka, che aveva festeggiato quel giorno i vent’anni, continuava a ripetere alzando una bottiglia di birra: «Voi però ricordatevi che fino a mezzanotte è ancora il mio compleanno». C’era chi diceva frasi senza senso, chi rideva e perfino chi vomitava. Morgana, pur essendo lei stessa ubriaca, girava per la stanza trasformata in un accampamento e si prendeva amorevolmente cura di tutti. Nel pomeriggio, lei e Griša avevano mangiato in un fast food, commemorando la famosissima estate del 1972 che avevano trascorso divertendosi immensamente: la Regina e il generale sembravano i due grandi amici di un tempo, e ne parlarono quella notte anche con Bettina. Griša, bevuto al massimo, si era messo verso l’alba a declamare frasi tratte dal libro relativo a quell’estate indimenticabile che aveva scritto, Story X, ma anche così era stato abbastanza lucido da impedire che Bettina se lo portasse a letto solo per il gusto di indurlo a tradire Estel.
Tutto il giorno di viaggio successivo, i ragazzi lo trascorsero dormendo in corriera. «Sono distrutti» commentava l’autista, grato a quel silenzio sonnecchiante. Griša, Asso e Bettina, schiacciati su due sedili, russavano beatamente smaltendo la sbornia notturna, e il primo a svegliarsi fu Griša.
La testa gli faceva male, ma era tutto sommato contento: era da parecchio che non si divertiva così tanto con i vecchi amici. Il peso di Bettina, sdraiata su lui e Asso, gli riportava alla mente antichi abbracci, ma la promessa di vedere Estel quella sera stessa era sufficiente ad allontanare quelle tristi nuvole da lui.
A metà strada la classe di Southampton salutò i compagni di Pietroburgo che dovevano tornare nel loro gelo russo con la promessa di scriversi il prima possibile; nella corriera mezza vuota, ora, ognuno disponeva di due sedili dove poter dormire comodamente. Ed era il primo giorno delle vacanze pasquali: una volta tornati a casa, avrebbero potuto riposarsi tutto il giorno seguente.
Arrivarono a Pietroburgo intorno alle nove della sera. Griša aveva previdentemente telefonato a Dralbij, avvisandolo con tono innocente di non aspettarlo alzato. «Abbiamo avuto qualche piccolo intoppo al ritorno» aveva detto «Dovrei arrivare a casa prima dell’una, credo».
E, nel parcheggio antistante la scuola, coronamento di cinque giorni di attesa, c’era la macchina di Moonlight. Nella corriera cominciarono a serpeggiare bonarie frecciatine rivolte al loro compagno che già si era preparato a scendere: «Non aspetti nemmeno di essere a casa?». Griša, con gli occhi sfavillanti di gioia e la sciarpa tirata a coprire i canini aguzzi, si limitò a salutarli frettolosamente e recuperare in un istante la valigia. Moonlight gli andò incontro, esclamando festosamente: «Bentornato!», poi lo aiutò a caricare la valigia nel bagagliaio.
Estel lo aspettava sui sedili posteriori. Il suo sorriso d’amore era però velato dalla malinconia: quella sera poteva essere un addio, e lo sapeva. Griša salì in macchina, senza avere ancora detto una sola parola, ammutolito dall’averla lì, così vicina. Avrebbero trovato una soluzione, e l’avrebbero fatto insieme.
Moonlight guidava verso la periferia, diretto verso un locale che avevano scoperto da poco, ma lo trovò chiuso. Così, senza disturbare i due che se ne stavano abbracciati dietro, fece una rapida inversione e si fermò solo davanti ad un pub nella zona antica della città.
Una volta dentro, al caldo, Griša cominciò a raccontare della gita per allentare la tensione. Era sempre stato abile come oratore, quando decideva di fare capolino dal suo guscio di malinconico e silenzioso eremita, e sapeva essere oltremodo spiritoso. Raccontò a Moonlight di tutte le ragazze che avevano cercato di approfittare di lui durante la gita, e tra i suoi brontolii stizziti «Io sono fedelissimo a Stella!» e i commenti orgogliosi di Estel «Ma tu sei solo mio!», davanti all’ennesima birra (che non aveva nulla a che vedere con quella di Monaco), riuscì a deviare il discorso dal triste argomento che tutti si sforzavano di evitare.
Fo Moonlight a tornare improvvisamente serio, e lo fece quando Estel si assentò qualche minuto per salutare un gruppo di sue amiche che passava per strada in quel momento. «Sai che partirà la prossima settimana, vero?» sussurrò, chino sul tavolo del locale «Giovedì o venerdì. Dobbiamo fare qualcosa per impedirlo, se davvero lo vogliamo, perché non c’è più molto tempo». Griša deglutì: non ricordava che i suoi ultimi giorni con Estel fossero così pochi. «Non c’è la possibilità che trovi un lavoro qui vicino?» chiese, pur sapendo già la verità, e senza aspettare una risposta decise: «Non lascerò che la vita porti via il mio più grande amore».
Quando, verso mezzanotte, salirono in macchina, Moonlight accese la radio ad alto volume, in modo da lasciare all’amico carta bianca. Avrebbe deciso lui, con Estel, il da farsi.
I due, rannicchiati sui sedili posteriori, si guardavano negli occhi senza parlare. I baci non servivano ad affievolire il dolore che l’imminente separazione suscitava in loro. Si tenevano per mano, come se quel gesto potesse impedire che il destino si compisse… e forse era proprio così.
La luna sorrideva sopra di loro, illuminando la buia strada di periferia che era Via dei Fiori Bianchi, e la musica della radio faceva da sordina ai loro pensieri. Era una canzone italiana, di un cantante molto apprezzato del quale però non ricordavano il nome pur pensando che fosse qualcosa che faceva venire in mente l’arte italiana. Griša fece un respiro profondo e pronunciò le fatidiche parole che sapeva avrebbero cambiato le loro vite a costo di nuotare controcorrente. «Amore mio» iniziò, sostenendo gli azzurri, magnetici occhi di lei lucidi di lacrime «Io sono disposto a rinunciare allo studio finito il liceo. Sacrificherei l’università per la famiglia. Se tu avessi un figlio, e una casa in cui abitare, pensi che potresti evitare di partire per Mosca?». Estel trasalì: «Sei impazzito o soltanto ubriaco?» esclamò «Non potrei mai accettare una cosa simile! Per favore, tesoro, non insistere». Chi altri mai avrebbe potuto offrire un così grande sacrificio per lei? In quel momento sentì di amarlo oltre ogni comprensione… ma era una regina orgogliosa, e mai l’avrebbe dato apertamente ad intendere. Evitò lo sguardo determinato di lui, nel quale già vedeva colare la delusione, ma intrecciò meglio le loro dita senza parlare.
Moonlight stringeva il volante, pregando tra sé rivolto all’amica: «Non abbandonarlo ora!». Nessuno l’avrebbe mai sentito, ma sapeva che i suoi pensieri erano condivisi da tutti.
«Ce la faremo» sussurrò Griša debolmente «Ad ogni costo, ma ce la faremo. Il mio padre adottivo di Southampton è un miliardario, e ogni mese mi manda un assegno che sarà sufficiente a farci vivere bene anche in tre» «Sono i soldi per i tuoi studi» obiettò Estel, e lui si infuriò di disperazione: «Al diavolo l’università! Dovessi io trovare il lavoro più infimo del mondo, o qualunque altra cosa, non ti lascerò andare così!». Poi la sua voce si fece stanca, mentre supplicava: «Non posso lasciare andare la persona che amo più della vita che ho sacrificato nel nome dell’eternità».
Estel si accomodò meglio tra le sue braccia, cercando di addolcirlo: «Appunto, l’eternità. Tornerò, te lo prometto, ti do la mia parola…». Griša non rispose: come Antirealista credeva nei sogni, ma non al punto di credere ad una frase simile. Neanche l’amore più grande avrebbe resistito per decenni a chilometri di distanza, era abbastanza concreto da rendersene conto. «Io ti ho detto cosa farei» concluse, dandole un ultimo bacio triste «Ma non posso impormi nelle tue scelte». Così dicendo scese dalla macchina, augurò la buonanotte a tutti e si incamminò verso casa.
Vedeva la luce accesa alla finestra della cucina, e sapeva che Dralbij doveva essere lì ad aspettarlo. E difatti era seduto al tavolo, con un libro davanti e il bollitore del tè che fischiava sommessamente sui fornelli. Non ebbe bisogno di fare domande per capire cosa passasse per la mente del fratello: anche lui aveva ricevuto la notizia su Estel, e si limitò a promettere, versando una tazza di tè caldo e zuccherato: «Contate pure anche sul mio aiuto». Sfinito, Griša lo abbracciò e balbettò, con la voce incrinata: «Ti voglio bene».

Fu una notte lunga per Estel e Moonlight: i due rimasero svegli a lungo, nel caldo dell’abitacolo dell’auto, a discutere. Già una notte d’inverno l’avevano fatto, ma per motivi ben diversi: sembrava la degna conclusione ciclica di quella breve, sfortunata storia. Moonlight era furioso: «Distruggerai Griša, partendo!» ripeteva, testardo «E farai stare male anche tutti noi che ti vogliamo bene e che saremmo pronti a dare l’anima pur di aiutarvi a restare insieme. Forse non lo ami abbastanza da accettare la proposta che ti ha fatto?». Estel tacque: non lo amava abbastanza? Era quella l’impressione che dava? Forse era vero, non sempre sapeva esprimere al meglio i suoi sentimenti… ma era innamorata, sul serio, se ne era resa conto già da molto tempo. Perdere Griša? Mai. Fu allora che una fredda determinazione divampò in lei, finalmente libera da ogni briglia. «Non partirò» disse, scoprendo i canini affilati in un ghigno di paura e convinzione «Costi quel che costi, non lo lascerò. Rimarrò a Pietroburgo, e lo dirò domani stesso a mia madre!». Moonlight esultò: «Brava! È questa la Selene che conosco io! Forza allora: vai a dormire e cerca di essere in forze per quando affronterai tua madre. E non permettere che sia un destino avverso a dividerti da colui che ami: sei una regina e puoi!».
Estel non aveva mai avuto una vita facile; ma ora, con tutti gli amici dalla sua parte e la solida certezza di un amore incrollabile, finalmente le nubi temporalesche che credeva eterne si stavano diradando.
Tuttavia, pur sentendosi sicura e protetta, quella lunga notte non riuscì a dormire. Andò a caccia e rimase fuori fino all’alba, mietendo vittime e dissetandosi con il loro sangue. Si imbatté in una sparuta pattuglia di licantropi, e li mise in fuga uccidendone due.
Prima che il sole la sorprendesse rientrò in casa, e trovò sua madre in cucina intenta a preparare il caffè. «Già sveglia?» disse la donna, accendendosi la prima sigaretta della giornata. Estel si sedette al tavolo e disse con noncuranza: «No, sono tornata a casa adesso. Sono stata con Griša, e poi qui fuori con Moonlight». Sua madre non parlò per qualche minuto, riflettendo, e dopo un sorso di caffè giudicò in tono inespressivo che tradiva però un certo compiacimento: «Griša, eh? Ormai questa storia va avanti da qualche mese. Hai detto che lui, finito il liceo, frequenterà l’università: è una scelta perfetta. Se la frequentasse a Mosca, poi, potreste addirittura andare a vivere insieme».
Estel quasi rovesciò la fruttiera: accidenti, perché quel discorso doveva venire fuori subito e così direttamente? «Mamma, io…» mormorò, facendosi di colpo più sicura quando si accorse di avere al polso il braccialetto che le aveva prestato Griša «Io non andrò a Mosca. Voglio restare qui, a Pietroburgo, con la vita che mi sono costruita. E troverò un lavoro qui. Se non mi vuoi più in casa, me ne andrò da un’altra parte; e se lo vuoi sapere… credo che per qualche mese non potrò lavorare». Ecco, stava per dire il grande segreto che ancora a nessuno aveva rivelato. Sua madre posò il cucchiaino nella tazza con un brusco rumore metallico, ma lei non la lasciò controbattere e finì, quasi con aria di sfida: «Aspetto un bambino. Di Griša. E lo voglio tenere».
Si aspettava urla, strepiti, forse anche di essere cacciata di casa in malo modo. Invece la mamma, dopo aver fumato freneticamente un’altra sigaretta per ammortizzare la tensione, prese un tono teso ma per nulla arrabbiato e dichiarò: «Questo cambia tutto. Grigorij mi sembra una persona seria, e poi è un ragazzo diligente, studioso e beneducato. Sa di questo… fatto? Non scomparirà nel nulla? Ti starà vicino?». Gli occhi azzurro chiaro di Estel si illuminarono di sole mentre rispondeva: «Gliene ho parlato. Ed è pronto anche a rinunciare a tutto pur di crescere dignitosamente nostro figlio. Per questo ho voluto dirti tutto, subito: comunque vada, io ho preso la mia decisione. Sbattimi fuori, se può farti sentire meglio: lui sarà sempre pronto ad accogliermi, e lo stesso vale per i nostri amici. Io non sono più sola!».
Madre e figlia si studiarono l’un l’altra nella cucina: da troppi anni ormai non si parlavano così francamente, e quella mattina aveva lasciato in loro un segno indelebile. Era lo spartiacque destinato a cambiare per sempre i loro rapporti. In meglio. Si abbracciarono forte, dopo tanti anni di screzi e incomprensioni, certe che d’ora in poi sarebbe stato tutto diverso.
Estel non aveva sonno, o era troppo felice per farci caso: inforcata la bici, si diresse verso Via dei Fiori Bianchi.
Qualche chilometro oltre il centro di Pietroburgo, Griša dormiva un sonno agitato, ancora turbato dal rifiuto che Estel aveva fatto della sua proposta. Dralbij si era svegliato prima di lui, e per non disturbarlo si era messo a studiare in soggiorno. Prima, però, aveva preso furtivamente il suo fidato mazzo di tarocchi e aveva letto ciò che le carte gli volevano dire: non era un messaggio pessimista… eppure c’era qualcosa che non andava. Perché, ad esempio, gli parlavano di un trionfo dell’amore e della separazione? Avrebbe voluto approfondire, ma sapeva quanto Griša odiasse l’infallibilità di quei tarocchi, che già altre volte in passato avevano portato alla luce fatti che sarebbero dovuti rimanere segreti. E non gli sembrava certo il caso di infierire: era distrutto all’idea di aver fallito l’unico tentativo che aveva a disposizione di impedire la partenza di Estel. Cosa fare, dunque?
Si era appena lasciato sprofondare sul divano, con il manuale di chimica sulle ginocchia, quando il campanello suonò. Si precipitò ad aprire prima che qualcuno svegliasse suo fratello, e quando vide Estel ferma sul pianerottolo con un sorriso sfavillante ad illuminarle il viso capì prima ancora di sentirglielo dire quello che era avvenuto. «Non te ne andrai!» esclamò, facendola entrare.
Lei entrò in cucina per depositare sciarpa, guanti e giaccone e gli gettò le braccia al collo spiegando: «Starò a Pietroburgo almeno per altri nove mesi… giusto il tempo che nasca mio figlio, ossia tuo nipote!».
Dralbij cadde seduto sulla prima sedia che gli capitò a tiro, incapace parlare. Il libro di chimica giaceva, aperto, sul pavimento. «Figlio?» articolò a fatica «Madonnina santa! E immagino che tu sia qui per dirlo a Griša, giusto? Congratulazioni, in ogni caso… e il papà del bambino intanto dorme! Si è alzato mezz’ora fa per lavarsi, e poi è tornato a letto. Vallo a svegliare: si è rigirato nel letto tutta la notte, ed è ancora lì a poltrire, o a smaltire le sbornie della gita. Io nel frattempo cercherò di abituarmi all’idea di essere zio… magari mentre vado a far un po’ di spesa. A più tardi!».

Sulle prime, Estel non ebbe il coraggio di svegliare Griša: doveva essersi da poco messo tranquillo dopo una notte agitata. Teneva il capo leggermente reclinato sul cuscino e le labbra appena dischiuse, e il suo respiro lento era indice di un sonno sereno e senza sogni. I capelli, arricciati sulle tempie, poggiavano sulla federa bianca del cuscino, risaltando dei loro mille riflessi dei colori autunnali. Aveva tutti i lineamenti distesi, come se una coltre di calma si fosse adagiata lievemente su di lui. le sue mani, appoggiate sull’orlo delle lenzuola, erano immobili e abbandonate: Estel gliele prese pian piano, e le sentì calde e sicure tra le sue ancora un po’ fredde dalla corsa controvento. Qualche minuto dopo salì ad accarezzargli i capelli, seguendo con la punta delle dita la forma dei riccioli più chiari che come onde gli incorniciavano il viso. Non c’era da stupirsi se parecchie sue compagne stravedevano per lui, e si sentì fiera di essere riuscita a conquistarlo. «Avrei fatto l’impossibile pur di averti, se non l’avessi fatto tu» bisbigliò. Leggiadra come una farfalla su un fiore, si chinò verso di lui: voleva fare del suo risveglio un angolo di paradiso.
Griša era ancora rilassato, ma si capiva che già aveva lasciato la fase più profonda del sonno: forse pensava che quella presenza al suo capezzale fosse ancora un sogno. Cominciò a baciarlo quasi pigramente, senza riuscire a trattenere un brivido quando si accorse che lui, pur non essendo sveglio del tutto, stava ricambiando il suo gesto. Sentì, più che vederle nella penombra, le sue braccia sempre un po’ esitanti cingerle la vita dapprima con circospezione, poi con desiderio. Si lasciò stringere in quell’abbraccio, col cuore che batteva forte. Griša aprì gli occhi sprofondando nei suoi, così carichi di passione in quel momento, e d’un colpo volle scrivere qualcosa per lei: una canzone, magari, che avrebbe accompagnato il suo viaggio verso Mosca e i suoi ricordi futuri.
«Amore» gemette «Non te ne andare, io… io ho bisogno di te». Estel lo baciò più a fondo, balbettando commossa: «No, te lo prometto. Starò qui, con te. Non ce l’ho fatta a partire, e non avrei potuto farlo perché…». Si fermò. Ormai era sdraiata sul letto, poteva sentire la tensione di Griša che ancora si rifiutava di credere a quella notizia così bella da togliere il respiro. Lo guardò negli occhi un lungo minuto, poi affondandogli le dita tra i ciuffi arruffati concluse: «Tesoro… sono incinta. Stai per diventare papà».
Per un attimo ebbe paura: e se lui non avesse voluto tenere il bambino? E se qualcosa fosse andato storto proprio ora che sembrava tutto così perfetto? Ma Griša, superato lo shock iniziale, le rivolse un sorriso raggiante, più luminoso sotto gli occhi scintillanti di emozione. «Ti amo» mormorò «E sono orgoglioso di… di noi».
Dolcemente, molto lentamente, cominciarono a fare l’amore; e come ogni volta si abbandonarono del tutto reciprocamente. Tenevano gli occhi chiusi, coprendosi di baci, persi in un altro mondo infinitamente lontano da quello reale. Era così bello trovare un rifugio tra le braccia dell’altro, sapendo che sempre, comunque e dovunque, si sarebbero ritrovati per sempre. Si sentivano protetti dal mondo, capaci di sconvolgerlo con l’onnipotente forza del loro amore che aveva fatto il miracolo di creare un’altra vita. La vita di un figlio che avrebbe salvato due mondi dimenticati.
Estel, che ancora non aveva dormito, prese sonno sul letto di Griša, tra le coperte aggrovigliate. Lui la lasciò fare, abbracciandola delicatamente, e la coprì con il caldo pile che teneva ai piedi del letto. Era bellissima, assopita così, e non l’avrebbe svegliata per alcun motivo. Si alzò senza rumore e sparì sotto una doccia bollente, beato, in grado però di ragionare lucidamente.
3 febbraio: era lì che tutto era iniziato. E ora, con i primi profumi dell’estate che intiepidivano la gelida aria di Pietroburgo, la loro storia sembrava essere arrivata al massimo, oltre ogni sua migliore aspettativa. L’acqua calda gli scorreva sulla pelle segnata dai graffi affatto dolorosi di Estel, lavando via anni ed anni di pessimismo, di paure, di disillusioni: l’amore aveva trionfato, alla fine, e come in tutte le belle favole tutto era andato per il meglio. E vissero felici e contenti.
Avrebbero avuto un bambino, una famiglia, un futuro senza fine da dividere e vivere sempre insieme: non sarebbe potuta andare meglio di così.

Maggio ormai: le avvisaglie dell’estate si erano fatte sempre più concrete, e la tensione per gli esami di maturità segnava con un’ombra inquietante tutte le giornate di Griša. Studiava, ma come sempre confidava nella sua ottima capacità mnemonica e oratoria: se si fosse ricordato anche solo i concetti fondamentali, si sentiva in grado di articolare un discorso convincente. «Dovresti fare giurisprudenza, non lettere» gli dicevano tutti, ma lui testardo ribatteva: «Un fuorilegge come me?», e si rimetteva a leggere i manuali di letteratura, filosofia, greco e latino. Matematica non faceva parte della commissione d’esame: un problema in meno a cui pensare. C’era però greco, ma con la rete di copiatura di Asso e Terry contava di riuscire a cavarsela.
Un’altra data, prima dell’esame, costituiva per lui e Dralbij un cruccio: il 7 di quel mese. Gli Shining Night erano stati scritturati per un primo concerto che, sebbene di scarsa entità, costituiva per loro il debutto sul palcoscenico: si trattava di intervallare, con le loro canzoni, le esibizioni di tre cori di bambini. Con una sola chitarra, tuttavia, avrebbero dovuto dare il meglio per fare una figura decente: se avessero trovato almeno un pianista entro quella data!
Fu Estel a dare loro l’idea: «Una ragazza della mia vecchia compagnia, Rina. Abita piuttosto fuori dal centro, ma conosco la strada e vi ci posso accompagnare: è bravissima, ve lo posso garantire, e innamorata del suo pianoforte. Possiede anche una pianola elettronica che potrete caricare in macchina il giorno del concerto». Griša e Dralbij cercarono subito Rina, le spiegarono la situazione di fretta in cui si trovavano, e combinarono le prime prove per la sera seguente, alle otto e mezza.
A un quarto alle dieci stavano ancora girando senza meta per i campi delle periferie di Pietroburgo: Dralbij era sempre più nervoso, e un paio di volte giunse al punto di inveire contro Griša che, distratto, pensava al pomeriggio appena trascorso con Estel. «Devi proprio essere così poco d’aiuto?» sbottò esasperato, al che Griša ringhiò: «Non è colpa mia se non hai capito la strada!», e si chiuse in un ostinato silenzio, tacendo anche di aver visto una cabina telefonica sul bordo della strada. La notò Dralbij quando percorsero per la terza volta quella stessa via, e corse subito a chiamare Estel, disperato: «Ci siamo persi!». Cercò di farsi spiegare la strada anche da Moonlight e dalla stessa Rina, ma ugualmente quando arrivarono il contachilometri segnava sessantadue chilometri percorsi invece dei dieci scarsi che avrebbero dovuto fare. Erano entrambi irritabili all’inverosimile, sull’orlo di una crisi di nervi, e quella serata non fu una delle loro migliori esibizioni.
Le prove dei giorni seguenti, comunque, smentirono ogni possibile incertezza: gli Shining Night erano dotati di sufficiente talento da superare anche le difficoltà meno prevedibili, e Rina sapeva tenere testa alle loro canzoni senza eccessivi problemi. Una sera venne anche Estel ad assistere, e giudicò alla fine: «Domenica sarà un successo, se suonerete come avete fatto questa sera».
Sennonché, la sera del sabato precedente il concerto, Rina telefonò ai due fratelli, lamentandosi costernata: «Ragazzi, è terribile! Ho fatto un incidente con la macchina, e… mi sono fatta male ad una mano. Non potrò suonare con voi al concerto, mi dispiace».
Moonlight, in perfetta buona fede, passò da casa loro a salutarli quella sera e commentò: «Non dovreste essere così agitati, anche se è il primo concerto. Seguite l’esempio di Rina: l’ho incontrata al bar mentre accompagnavo a casa Estel, e stava giocando a biliardo tutta spensierata». Si interruppe d’un tratto, vedendo l’espressione dei due. «Cosa…?» incominciò.
«Ha detto di essersi fatta male» tuonò Griša, afferrando il giubbotto «Dov’è? Giuro che le darò un buon motivo per avere qualche osso steccato!». Dralbij lo fermò appena in tempo tagliandogli la strada: «Credi che sia sola?» disse «Ha dalla sua tutta una compagnia pronta a menare le mani, e tu avresti la peggio. Vuoi forse rovinare il concerto? Insieme, io e te possiamo ancora salvare la situazione: siamo un duo fortissimo, se crediamo in ciò che facciamo. Fidati! Andiamo a dormire, ora, e cerchiamo di essere pronti per domani. Vorrà dire che ci dedicheremo esclusivamente alle nostre canzoni, senza considerare quelle che ci ha aggiunto Rina».
Ma non fu una notte tranquilla: i due non fecero che svegliarsi e riaddormentarsi, imprecando a mezza voce contro quella ragazza che li aveva piantati così. Avevano un’alta concezione di sé, – ma forse a volte rasentavano la megalomania – e quello era un affronto personale che andava punito. «La vendetta è un piatto che va servito freddo» ribadiva Dralbij, e lo ripeté fino al pomeriggio seguente quando, dopo un pranzo veloce, caricarono chitarra, spartiti e costumi di scena sulla macchina e partirono verso il circolo che avrebbe ospitato il concerto.
I colori Antirealisti erano il viola e il blu, rispettivamente per il primo e per il secondo generale. I due, in un ulteriore segno di fratellanza, si erano scambiati le maglie dell’uniforme ufficiale, e quando finirono i loro complicati riti scaramantici – mania soprattutto di Griša, reminiscenza della sua prima band pietroburghese, i Mad Moons – entrarono in scena inghiottendo la tensione.
Estel e Moonlight erano in prima fila, pronti a fare il tifo per loro, e avevano portato anche una loro amica, compagna di Dralbij alle lezioni di ballo: Vanja, detta per chissà quale motivo Frizz. I tre, appena gli Shining Night comparvero nella luce del sole di maggio, si scatenarono con applausi e urla di giubilo: da soli riuscivano a sovrastare i contenuti applausi del centinaio di persone presenti.
Incoraggiati, Griša e Dralbij cominciarono il primo brano: le note pure e semplici della chitarra accompagnavano con modestia e perfezione le loro due voci, come sempre fuse in un’armonia senza pari. Anche da soli, effettivamente, riuscivano ad ottenere buoni risultati; e nessuno li aveva mai sentiti suonare con Rina, quindi non esistevano termini di confronto.
Snocciolando le canzoni a due a due, e fermandosi a bere acqua fredda sotto il tendone allestito per la raccolta fondi del centro che li aveva scritturati, presero sempre più dimestichezza col pubblico: l’ansia da palcoscenico era già svanita alla seconda ripresa, e i due pensavano soltanto a divertirsi con la loro musica.
I tre spettatori più esagitati accoglievano puntualmente ogni canzone con applausi e strilli, e gridavano i testi che avevano imparato a memoria per enfatizzare l’entusiasmo del resto del pubblico che, come qualsiasi folla, si lasciò trascinare. Soprattutto durante la gloriosa canzone finale, l’Inno Antirealista, che anche il colonnello e il capitano cantarono ad una voce con una mano sul cuore.
Dopo un tempo effettivamente breve per un concerto serio, gli Shining Night si trovarono circondati dagli spettatori che volevano complimentarsi con loro. Estel scavalcò le sedie vuote che ancora la separavano dalla scalinata che aveva fatto da palcoscenico ai due generali e si precipitò ad abbracciare Griša, stampandogli un bacio orgoglioso sulle labbra. «Che foga!» esclamò lui, senza fiato, e la spinse dolcemente verso il muro nascosto del portico che circondava il cortile. «Se questo concerto è stato un trionfo» mormorò, tenendola stretta a sé «Te lo dedico, mia regina».
Era semplicemente tutto perfetto: tutto andava per il verso giusto. La bella favola continuava, e non avrebbe mai conosciuto la parola “fine”. I due innamorati erano pienamente d’accordo e, forti della loro unione, sapevano che avrebbero potuto superare qualunque ostacolo soltanto prendendosi per mano.

Fine prima parte.

leggi la seconda parte

* Erica Apolloni nasce a Zevio (VR) il 17 luglio del 1987, e attualmente risiede a Terranegra di Legnago (VR)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

molte cose andrebbero riviste dal punto di vista della protagonista...

Anonimo ha detto...

veramente un bellissimo libro