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mercoledì 18 novembre 2009

Ai confini dell'infinito (di Erica APOLLONI *)

Grigorij e Haku Delacroix

Domland

Piccole luci colorate, ovunque, che lampeggiavano o tremolavano come stelle nella penombra della stanza. Con le pesanti tende di velluto nero e il materiale fonoisolante alle pareti, la sala d’incisione avrebbe dovuto essere soffocante, ma appena fuori dalla porta si udiva il ronzio del condizionatore: maggio non era ancora finito che già l’afa estiva si faceva sentire in tutta la sua estenuante pesantezza.
Non che quel rumore desse fastidio o intralciasse alcunché: Griša era solo, laggiù, solo con le sue spie luminose e qualche ricordo che da mesi cercava di affacciarsi alla sua memoria. Soprattutto, non stava registrando musica: le sue chitarre, mute sui trespoli, baluginavano nel filo di luce polverosa che spioveva obliquo da un angolo della tenda scostata.
Se ne stava appollaiato su una sedia, davanti al monitor di un computer, e dava di tanto in tanto un’occhiata all’enorme mixer che occupava tutto il resto del tavolo. Sembrava concentratissimo, sordo a tutto il resto, con i capelli fitti e incolti che ogni tanto gli solleticavano le spalle sotto la camicia aperta; se li spostò distrattamente dalla fronte, e dopo un’ultima occhiata alle impostazioni del computer pigiò deciso il tasto di registrazione.
Partì subito il ritmo incalzante e allucinato di un brano house: gli altoparlanti sembravano vibrare, il segnalatore di decibel alla sua sinistra lampeggiava di rosso, ma lui non se ne curava e seguiva le martellate della musica con la testa, continuando a mixare tracce su tracce con un vago sorriso. Quella sera, nella discoteca in cui lavorava come dj più osannato, i suoi brani inediti avrebbero fatto sfinire anche i ballerini più resistenti: e lui voleva rimanere solo, solo sulla pista illuminata dalle luci frenetiche, a sfoggiare i nuovi passi di break dance che aveva messo a punto sul selciato dietro a casa.
Non che fosse un megalomane: era consapevole di essere diventato molto attraente, nel giro dell’ultimo anno trascorso a Southampton dopo l’infelice parentesi pietroburghese, ma evitava accuratamente di comportarsi da stucchevole vanesio. Centellinava i sorrisi, interveniva a ballare solo quando la discoteca stava per chiudere e non aveva mai trascorso più di cinque minuti davanti allo specchio. Certo, con le dovute eccezioni: a volte era divertente sfruttare il suo fascino per ottenere le grazie altrui o qualche favore; ma nulla era più gratificante che rintanarsi al fresco a suonare o mixare basi.
Griša si stiracchiò sulla sedia, sbadigliando, mentre una sveglia scattava sull’inevitabile ora del tè: a secondi, ormai, qualcuno avrebbe bussato alla porta antincendio della sala d’incisione, portandogli un vassoio di tè – freddo, almeno mentre fuori l’aria era così torrida – e uno spuntino. Aveva una provvista di birre e tramezzini nel frigorifero del seminterrato, utili soprattutto quando trascorreva l’intera giornata a incidere canzoni o prepararsi nuove basi con gli amici, e lì aveva intenzione di lasciarli.
La merenda tardava ad arrivare, e lui si accomodò meglio sulla sedia con un profondo sospiro rilassato: era in vacanza da più di un anno, lontano dai guai che l’avevano portato in fin di vita, e ora doveva solo pensare a divertirsi e riprendersi.
Ma già mentre riordinava pigramente la scrivania si rese conto che troppi ricordi avevano incominciato a mordicchiargli le cicatrici del cuore, e sebbene avesse sviluppato una velocità considerevole nel chiudere la memoria, quel giorno non fu così facile.
Aveva alle spalle una vita fatta di fughe e disavventure: ora che da mesi viveva sereno, a che scopo torturarsi con i ricordi?
Una lama di sole tagliava la stanza a metà, e i suoi occhi vi si persero mentre la mente galleggiava, alla deriva, tra le onde oziose di un passato che non voleva passare mai.
Fino a dodici anni era stato completamente solo: prima in orfanotrofio, poi nelle baraccopoli dei docks di Liverpool. Era abituato a cavarsela da solo, ad attaccare prima di essere attaccato o a scomparire in caso di pericolo, a guadagnarsi da vivere con mille piccoli espedienti. I suoi amici d’infanzia erano tutti ragazzini di buona famiglia, che a una certa ora dovevano tornare a casa per la cena, mentre lui rimaneva a vagabondare per i moli immaginando come dovesse essere la vita in una vera casa. Non avendola mai conosciuta, però, non poteva rimpiangerla; e in fondo gli andava bene così. Era libero e conosceva cose che qualsiasi suo coetaneo nemmeno aveva mai sentito nominare. Un anziano marinaio gli aveva pazientemente insegnato a leggere e a scrivere, dopo la fuga dall’orfanotrofio, e lui approfittava dei libri scolastici dei suoi amici per non sentirsi in alcun modo inferiore a loro.
Poi, alla morte del marinaio che l’aveva accolto nella sua baracca di lamiera, Griša si era spostato a Southampton con un lungo viaggio su un treno merci, e per la prima volta la dea bendata aveva guardato verso di lui facendogli incontrare un compositore destinato a rimanere nella storia nel giro di pochi anni. Sir Norbert Oldfield l’aveva accolto nella sua villa, facendogli compiere studi adeguati per essere al passo con i futuri compagni di scuola; l’aveva iscritto all’anno giusto – la terza media, ormai – e lui aveva passato brillantemente l’esame finale; ma soprattutto, gli aveva insegnato a suonare la chitarra. E da allora per Griša non era esistito più nient’altro.
Sapeva già suonare, aveva imparato da solo nel tentativo di racimolare qualche monetina suonando per le strade, e le lezioni del patrigno l’avevano portato ad un livello considerevole di maestria. Da lì era nato il suo gruppo musicale, i Gabbiani, che aveva perfino ricongiunto i suoi amici di Liverpool trasferitisi a Sud per frequentare il liceo.
Col senno di poi poteva rimproverarsi aspramente: perché mai aveva deciso di fuggire da quel nido sicuro?
C’era stata Bettina, il primo vero amore della sua vita, ed era stata forse la sua storia più importante; era finita male, poi altre avventure cercate per dimenticarla gli avevano lasciato l’amaro in bocca… ma perché se n’era andato da Southampton? Perché aveva seguito il suo istinto nomade, preferendo un incerto avvenire in Russia?
Ancora minorenne, poco dopo il suo diciassettesimo compleanno, Griša aveva scritto una lunghissima lettera al patrigno e a tutti i suoi amici: San Pietroburgo gli appariva come una città di promesse pronte per essere mantenute.
E, in effetti, per tre anni era stato felice lassù. Aveva trovato una ragazza che gli aveva insegnato il russo, si era applicato con impegno e testardaggine per impararlo nel minor tempo possibile, e intanto Norbert provvedeva a mandargli l’assegno mensile per pagare un appartamento e gli studi superiori. Per arrotondare, si era trovato anche un lavoro: spalleggiato da una nutrita compagnia di nottambuli, tutti di qualche anno più grandi di lui, aveva conosciuto il Number One Music Disco Pub. Si trattava di uno sperduto night-club oltre le campagne pietroburghesi, famoso per i suoi antichi splendori ma ormai decaduto: erano sempre le stesse compagnie che vi bazzicavano, ma più per abitudine che per divertimento. Lui era arrivato lì quasi per errore, una notte, e poi non se n’era più andato: il suo gruppo di amici contribuiva a tener su il locale, portando ogni sera qualcuno di nuovo, e in breve i due proprietari gli avevano offerto un posto fisso come dj lì dentro. Si andava dalle tranquille serate di karaoke, in cui Griša dava il meglio di sé come cantante, alle nottate a tema in cui si ballava fino all’alba.
Ma soprattutto, Pietroburgo aveva significato per lui il più doloroso fallimento della sua vita.
Non era più un ragazzino di quattordici anni che, insieme a Bettina, bighellonava per i prati inglesi rincorrendo l’ombra di un aquilone con il sacchetto della merenda nello zaino. Ormai le sue storie erano serie, già da adulto.
E nella penombra del Number One aveva incontrato Estel: la più lunga e tragica storia della sua vita, che l’aveva stroncato con la sua fine crudele. Erano stati insieme per un intero anno, con qualche brutto screzio risolto in un bacio: l’aveva cantata come una dea, amata al punto da abbandonarsi fiduciosamente tra le sue lenzuola – proprio lui, che non si fidava di nessuno! –, fino a quando avevano deciso di vivere insieme. Estel era incinta, e a il 31 ottobre del 1976 aveva dato alla luce la loro figlia Elisabeth.
La girandola della loro vita era veloce, ma si sa quanto rapidamente il vento possa cadere: una terribile notte di marzo, Estel era fuggita con un camionista di dodici anni più vecchio di lei portandosi via anche la piccola Elisabeth. E non aveva lasciato tracce.
Griša ne era uscito distrutto. Si era buttato a capofitto sull’alcol, spesso rincasava all’alba con le narici imperlate di un’impalpabile polvere bianca, completamente allucinato eppure consapevole del suo abbattimento. La compagnia si era sfasciata sulla sua tragedia, nessuno più voleva avere a che fare con un ubriacone tossicodipendente, il Number One aveva ripreso in poche settimane la strada del fallimento.
In un raro momento di lucidità aveva deciso: sarebbe tornato a casa, in Inghilterra, lontano da quella catastrofe. Era riuscito, prima di andarsene, ad incontrare l’uomo di Estel: l’aveva massacrato di botte, riducendolo in fin di vita con la forza della disperazione, e il giorno dopo era ripartito. Finalmente a casa.
Una sola persona non l’aveva mai abbandonato in quell’inferno, l’aveva aiutato a trovare la sua vittima, sostenuto nelle notti più stravolte, confortato quando la nostalgia di Estel minacciava di fracassargli il cuore anche attraverso la densa nebbia psichedelica nella quale cercava di nasconderla: era un ragazzo della sua età, che come lui viveva da solo a Domland, il più piccolo sobborgo di San Pietroburgo. Si chiamava Haku, e la cosa più straordinaria tra loro due era che sembravano condividere lo stesso passato: a volte sembrava che loro due fossero più che gemelli, addirittura la stessa persona sdoppiata in due corpi che oltretutto si assomigliavano molto. Haku e Griša: tutti li avevano sempre conosciuti come fratelli. E perché no? Entrambi erano stati nel medesimo orfanotrofio, solo che mentre l’uno era stato adottato da una famiglia russa, l’altro era fuggito non molto tempo prima. Spesso, scherzando ma in realtà facendo sul serio, si erano messi d’impegno a cercare qualcosa sulle loro origini, sebbene ormai fossero convinti di essere se non proprio gemelli, almeno parenti stretti. Troppe coincidenze li accomunavano.
Se non fosse stato per Haku, Griša si sarebbe tolto la vita la notte stessa in cui Estel se n’era andata.
Dopo quell’orribile periodo, a piccoli passi e circondato dalle affettuose attenzioni degli amici che non vedeva da anni, Griša aveva iniziato a guarire: il clima pacifico e festoso di Southampton non avrebbe mai potuto cancellare le sue cicatrici, ma il dolore si andava gradatamente affievolendo.
Il suo unico ponte con quel passato era l’incrollabile amicizia di Haku, ma negli ultimi tempi anche lui stava passando un periodo difficile: si era perdutamente innamorato di Lillie, una ragazza irlandese che però non sembrava corrisponderlo davvero. Troppo spesso Haku, nelle lunghe lettere che scriveva ogni mese, lasciava aperti discorsi sospetti; era perfino scoppiato a piangere una sera, al telefono, ripetendo tra i singhiozzi: «Aiutami, non ce la faccio più». E Griša presentiva che quelle tra lui e Lillie fossero ben più che “feroci litigate”, ma Haku non voleva sentire ragioni: un po’ alla volta, anche i loro dialoghi si erano affievoliti.
Perché non invitarlo a Southampton qualche giorno? Villa Oldfield era enorme, un castello restaurato circondato da boschi che declinavano fino alla spiaggia privata, con dozzine di stanze per gli ospiti: Haku avrebbe potuto portare anche Lillie, quindi non avrebbero dovuto sorgere problemi.
Griša aveva deciso: dopo la merenda e finito di mixare l’ultima base avrebbe telefonato all’amico in Russia. Non c’era bisogno nemmeno di chiedere conferma a nessuno: Norbert non era mai a casa, impegnato tra una registrazione e un concerto, mentre tutta la sua banda non vedeva l’ora di rivedere il vecchio amico.
Aveva meditato a lungo, molto a lungo: il sole era già scomparso dallo spiraglio tra le tende, e qualcuno aveva depositato sul tavolino all’entrata della sala d’incisione un vassoio con tartine, tè e una mela lucida. Vicino al telefono lampeggiava una spia rossa: quale chiamata poteva essere stata tralasciata? Perché nessuno in tutta la casa aveva risposto?
Si sentì prendere dal freddo, mentre un indefinito malore gli stringeva lo stomaco, ed ebbe paura. In un attimo salì le scale, macinando i gradini a due a due, e piombò nel salotto proprio mentre Norbert finiva di spiegare ad un non identificato interlocutore: «Una telefonata da San Pietroburgo, ma nessuno di noi conosce il russo, e quando mio figlio sta preparando le musiche per le sue serate è meglio non disturbarlo».
La cornetta di quel maledetto telefono parve sollevarsi dalla base al primo squillo. Sul display lampeggiava il prefisso di Pietroburgo. Griša la sollevò con le mani che tremavano, ma la sua voce era ferma quando rispose.
Fissava con gli occhi scuri il calendario appeso lì sopra, che segnava il 30 maggio, una data qualsiasi. Poi, di colpo, le pupille gli si dilatarono fino a coprire le iridi; sbiancò e dal fondo della gola gli uscì un rantolo: «Oh, no» balbettò «Cristo… non lui!».
Chiunque gli avesse parlato aveva già riattaccato. Griša si accasciò sul pavimento, con la schiena contro il muro e la cornetta ancora stretta convulsamente tra le mani scosse da un tremito incontrollabile. Teneva gli occhi sbarrati, e per un terribile istante Norbert lo rivide come quando era tornato dalla Russia, sconvolto e distrutto.
Finalmente riuscì a sussurrare, con le parole scandite da un gelo impressionante: «Haku è morto».

* * *

Domland non era un paesino, tant’è che pochi a Pietroburgo conoscevano quel nome. Era meno che una frazione, soltanto una lunga strada costeggiata da fiori selvatici bianchi, lungo la quale la maggior parte delle abitazioni era disabitata. Haku era l’unico inquilino di un condominio deserto, e viveva con la sola compagnia di un gatto siamese. A pochi metri da casa sua viveva una coppia con una figlia di quattro anni più giovane di lui, Moran, e in fondo a Via dei Fiori Bianchi si era stabilita una donna sulla quarantina, che era appena tornata da un lunghissimo viaggio in America insieme ad un rimasuglio di colonia hippy. Lui, però, da qualche tempo evitava la loro compagnia e preferiva stare rinchiuso in casa. Già, ma perché? Non aveva dato spiegazioni a nessuno.
Eppure, la notizia della sua morte era arrivata dappertutto nel giro di poche ore. La lunga strada arroventata dal sole non era mai stata così frequentata come quel pomeriggio, e Lillie percorrendola per la prima volta dopo tanto tempo si sentì a disagio con tutti quegli sguardi curiosi e intimiditi che la sfioravano furtivi.
Insieme a lei c’era la sua migliore amica nonché complice più fidata: era una ragazza della sua stessa età, una giovane zingara che aveva perso tutta la sua famiglia in un incendio doloso divampato nei carrozzoni in cui viveva, e si chiamava Kim. Le due bazzicavano sempre insieme, erano come gemelle, e il loro rapporto non era molto diverso di quello tra Haku e Griša. Un’intesa totale, un sodalizio incrollabile, una cieca fiducia reciproca.
Insieme erano anche quel giorno, nell’afa estiva, ferme sotto il condominio un po’ diroccato con tutte le finestre chiuse. Tutte, tranne quelle dell’ultimo piano: il sole riverberava sull’abbaino aperto. Forse Haku, un attimo prima di morire, aveva guardato quel pezzetto di cielo desiderando solo di raggiungerlo.
A quel pensiero Lillie si sentì stringere il cuore, e dovette appoggiarsi alla parete per sostenersi. Il ruvido contatto dell’intonaco giallo sotto le dita, il calore dell’estate, il ronzio di un’ape lì vicino: doveva assolutamente ritornare in sé.
Ormai lei e Haku erano insieme da quasi un anno, ma chi poteva definire la loro una vera storia? Solo ora che non l’avrebbe mai più rivisto si rendeva conto di tutto il male che doveva avergli fatto. L’aveva trascurato, umiliato, maltrattato, tradito e alla lunga indotto a preferire la morte ad una vita insopportabile. Lui era solo, solo con il suo amore impossibile, condannato a stare insieme a lei con la sola forza di un sogno: quello di poterle ancora rubare un bacio. Quante volte l’aveva supplicata, sempre più debolmente, di ritornare ai pochi giorni felici che avevano fatto iniziare la loro lunga avventura! Si rivide nell’atto di ridergli in faccia nel migliore dei casi, o di inferocirsi contro di lui non appena entrava nel discorso. Era troppo tardi, troppo tardi per tutto.
La rottura finale si era consumata da meno di due giorni: ormai sfinito dalla situazione, Haku aveva deciso di giocare tutte le sue carte. Non era mai riuscito ad abituarsi a vedere Lillie, la sua ragazza, circondata da dozzine e dozzine di spasimanti. Lei gli assicurava di non averlo mai tradito, pur avendo avuto tutte quelle possibilità, ma nello stesso tempo era sempre più cattiva nei suoi confronti: impossibile non trasformare i sospetti in certezze. E lui, non avendo più amici da quando aveva deciso di regalarle tutta la sua vita, aveva trascorso giornate intere chiuso in casa ad aspettare sue notizie che arrivavano sempre più raramente. «Con chi sarà ora?» era diventata la sua ossessione.
E così, due giorni prima, era riuscito a entrare nel sofisticato computer di lei.
Prima aveva letto attentamente tutti i teneri messaggi che tanti le avevano scritto, eppure ancora la fioca fiamma delle illusioni cercava di non spegnersi nel suo cuore: «Lei non li considera minimamente» si era ripetuto, con le mani che tremavano convulsamente sulla tastiera «L’ha sempre detto di essere “mia e solo mia”, perché mai dovrebbe accettare le proposte di tutta questa gente?». Ma già aveva aperto le cartelle in cui erano archiviate le sue foto: foto di ragazzi, tutti più grandi di lei, e foto di Lillie stessa nelle pose più provocanti. Lui non le aveva mai viste prima. In quel momento un’altra cartella aveva attirato la sua attenzione già stravolta: quella della corrispondenza inviata. «Le foto potrebbero essere una sorpresa per il mio compleanno» si era ingannato, mentre lo stomaco iniziava a contrarglisi dolorosamente «Manca poco più di un mese, si sarà preparata in anticipo, e sono certo che per quanto tutti possano cercare di entrare nelle sue grazie, lei non darà mai loro corda».
Gli erano bastate poche frasi per vedersi crollare davanti tutto il suo castello di carte. Carte pesanti come macigni che gli distruggevano il cuore. «Sei il mio amore geloso», aveva scritto a uno, e ad un altro pochi giorni prima: «Come mai ti fai sentire così poco? D’accordo che non siamo morosi… o sì?». Senza contare gli innumerevoli «amore», «pulcino» e «tesoro» disseminati ovunque.
Haku si era rannicchiato con la fronte sul tavolo del computer, distrutto. Aveva perso tutto già da chissà quanto tempo, ma la conferma lampante aveva fracassato anche l’ultimo filo di vita: in quel momento era già morto.
Lillie l’aveva trovato così, in preda a singhiozzi silenziosi, che nemmeno si curava di nascondere quello che aveva scoperto. «Tu» gli aveva detto, con la voce simile a punteruoli di ghiaccio «Tu sei un essere infame!». Aveva cominciato a schiaffeggiarlo, a prenderlo a calci, aveva scaraventato dalla finestra tutti i suoi regali di un tragico anno insieme, strillando senza ritegno, svergognandolo davanti a tutta la sua famiglia. E lui, impassibile: la lasciava fare, con gli occhi verdi fissi davanti a sé e le lacrime che gli sgorgavano incessanti lungo le guance sbiancate. Un rivolo sottile di sangue gli gocciolava dal naso fino al mento, mescolandosi a quel pianto così silenzioso da fare paura. C’era il vuoto in fondo alle sue pupille che si andavano dilatando in uno sguardo folle: era impazzito dalla disperazione. «Me l’avevi promesso» era riuscito a rantolare «Io e te eravamo ancora insieme. Me l’avevi promesso».
La furia di Lillie era esplosa: mai in vita sua aveva usato un tono così duro, aveva la voce rauca dalla rabbia e gli occhi ridotti a due fessure gonfie di odio selvaggio. «Come ti sei permesso?» ringhiava, continuando a riempirlo di sberle. Haku non sentiva il dolore: con quella calma allucinata che l’aveva portato alla fine si era avvicinato alla porta, imbrattando il pavimento di grosse gocce rosse, e si era avviato a piccoli passi lungo la strada. Le scarpe da ginnastica calpestavano lettere e regali abbandonati sul marciapiede, la sua dignità e tutto l’amore strascicavano sul cemento insieme ai risvolti sbrindellati dei jeans.
Lentamente, Lillie si era calmata: anche se non l’avrebbe confessato mai a nessuno, nemmeno a se stessa, aveva avuto paura di Haku. Era un morto che camminava, e in fondo era comprensibile la sua reazione… ma l’aveva spiata, e lei non poteva assolutamente perdonarglielo. «Io senza di te non so stare» mormorò rivolta alla strada deserta.
E poi era arrivata Kim, spaventata: «Cos’è successo ad Haku? È ferito, sta male! Cos’è tutto questo disastro?». Lillie non si sarebbe mai abbassata al punto da dimostrare qualsiasi debolezza davanti a nessuno: «È finita» era stata la sua laconica risposta.
«È finita» aveva detto Haku, tornando a casa. Teneva in braccio il suo gatto, ascoltando le ultime fusa, e lasciava scorrere lo sguardo vacuo lungo le mura familiari e accoglienti di casa sua. Continuava a piangere, per quanto gli occhi gli facessero male, non riusciva a fermarsi; però stava bene, con le forze che declinavano lentamente. Ora cominciava a sentire il male delle botte incassate in silenzio, aveva in bocca il sapore del suo sangue. Aperta una birra – l’alcol bruciava forte – aveva trangugiato un’intera confezione di potentissimi sonniferi; era in bagno, e lo sguardo gli era crollato sul rasoio che si rifletteva nello specchio sotto il suo doppio devastato da sangue e da lacrime. La lametta sulla pelle dei polsi ricordava le tenere carezze di due innamorati, quelle che a lui erano negate da mesi… per essere riservate ad altri. A lui l’onore di potersi definire “insieme a Lillie”, a loro tutto il resto. Rise, mentre la vista gli si offuscava. Com’era scuro il suo sangue sul lavandino! Nulla a che vedere con quello rosso brillante che gli era sprizzato dal naso ai primi ceffoni e che gli si era coagulato in un’orribile maschera sul volto e sul collo.
Era riuscito a sdraiarsi sul canapé del soggiorno, insensibile a tutto, lasciando che quella vita impossibile gli colasse via senza modo di tornare indietro. Un viaggio di sola andata, un treno senza stazioni che era già partito. Il capolinea, il binario morto: la fine di quella disperazione.
«Lillie».
Il nome della sua ragazza gli tremò sulle labbra spaccate come una lacrima sulle ciglia. «Lillie» sussurrò di nuovo, sentendo che il freddo gli attanagliava braccia e gambe. Voleva dirlo un’ultima volta, «Lillie ti amo», anche se lei non gli rispondeva più da troppo tempo, ma non ne aveva la forza. Gli era negata perfino la più sfiduciata delle dichiarazioni.
Aveva raccolto le ultime forze per un tentativo estremo, ancorato alla realtà dai miagolii atterriti del siamese che girava freneticamente intorno al divano. Prima che potesse chiamarla una terza volta, un brivido violento gli attraversò tutto il corpo. Gli occhi gli avevano splenduto di una luce intensissima, la stessa che doveva avere avuto quando Lillie l’aveva baciato per la prima volta stringendolo forte a sé con tutta la verità dei loro inizi, e aveva reclinato la testa sul cuscino come se si fosse assopito.
Haku era morto, solo con il suo ultimo sogno distrutto.

* * *

San Pietroburgo, di nuovo. Come se non fosse mai andato via.
Seduto al bar dell’aeroporto, con un bicchiere di caffé in una mano e una brioche nell’altra, Griša seguiva gli aerei che scivolavano silenziosi sulla pista, oltre i vetri antisuono. Il viaggio notturno non era stato pesante, Norbert gli aveva spesato la prima classe, ma la tensione l’aveva stancato parecchio. I ricordi strazianti degli anni trascorsi là, nel suburbio dimenticato da Dio che era Domland, sembravano una ragnatela insidiosa nella quale suo malgrado si sentiva già invischiato. Chi era il ragno, stavolta? La verità era che aveva una paura tremenda, si sentiva braccato dal passato, e stavolta partiva già con uno stato d’animo terribilmente abbattuto: Haku non c’era più, era stato ucciso, era finito il tempo di confidarsi e consigliarsi con lui. Era come se gli avessero strappato una parte di sé.
Non credeva alla notizia del suicidio: ricordava Haku come un giovane pieno di vita, innamoratissimo della sua Lillie e pronto a divertirsi con gli amici. Anche se non si sentivano da mesi, non poteva essere cambiato così radicalmente. Le scarse notizie recenti che aveva di lui non erano delle migliori, ma nemmeno così tragiche da portarlo ad una soluzione così drastica: stava scrivendo un lungo racconto dedicato a Lillie, avevano diverbi piuttosto frequenti ma sempre risolti in breve, passavano insieme tutti i finesettimana e uscivano tutte le sere. Cosa mai poteva essere capitato?
Il funerale si sarebbe tenuto nel pomeriggio alle tre, e l’orologio dell’aeroporto segnava le dieci in punto: risoluto, Griša si caricò sulle spalle robuste lo zaino e l’inseparabile chitarra e si incamminò verso la fermata dell’autobus, raccogliendosi i capelli dietro la schiena per rinfrescarsi il viso. Il cielo era coperto di grosse nuvole grigie, ma l’afa rendeva l’aria irrespirabile e greve di umidità: magari a Domland, così fuori dal centro, una bava di vento avrebbe alleviato il caldo.
Mentre Pietroburgo scorreva fuori dai finestrini, Griša riandò con la mente alla strada che doveva percorrere prima di arrivare a destinazione: l’ultima fermata era all’inizio della periferia, e Domland era in cima ad una collinetta coperta di campi incolti. Lo aspettava una marcia nell’aria immobile di almeno quaranta minuti, e le sue scorte d’acqua cominciavano a scarseggiare: poteva solo sperare che si alzasse il vento ad abbassare la temperatura.
E intanto la sgradevole sensazione di “già vissuto” gli scorreva fredda nelle vene. Ricordava perfettamente tutti quei luoghi, come se fosse stato lontano appena qualche giorno, e brandelli sempre più consistenti di memoria tornavano a galla come i relitti di un naufragio: locali, strade, case, amici di quell’altro tempo…
Domland.
Quasi si sarebbe aspettato di trovare la macchina di Estel parcheggiata davanti a casa sua: quante volte era successo! Solo allora si rese conto che la prospettiva di rivederla non gli faceva alcun effetto: qualcosa in lui era morto quella notte al Number One, e nulla avrebbe mai potuto risuscitare in lui la capacità di amare, di fidarsi di qualcun altro, di perdonare i torti subiti. Ma no, lei non ci sarebbe più stata, e lui non era più capace di rattristarsi della cosa. «Non mi importa più nulla» concluse ad alta voce, appoggiando una mano sul portone del condominio chiuso.
Sprangato? Aveva dato peso sulla porta, tutto il peso della memoria, e uno spiraglio di buio gli si era aperto davanti. Prevedendo la lunga camminata, quel giorno indossava solo una camicia aperta e un paio di pantaloni leggeri lunghi fino sotto il ginocchio: gli si accapponò la pelle sentendo il refolo fresco che proveniva da quella casa morta come il suo unico inquilino.
Griša si sedette sul muretto d’entrata, pensieroso, rivivendo le infinite ore trascorse lì sopra con l’amico scomparso. Lui era sterminato dopo la fuga di Estel, e Haku lo sosteneva con parole confortanti e birre ghiacciate: perché non aveva saputo ricambiare il favore? Perché non aveva indagato sulle telefonate disperate di colui che forse solo ora era tranquillo? Come aveva potuto sottovalutare tutto?
Prima che il senso di colpa lo imprigionasse, un rumore dall’interno lo spaventò: sembrava il pianto di un bambino piccolo. «Elisabeth?» mormorò. Il passato si stava già concretizzando intorno a lui?
Si accorse subito che quello non era un vagito di neonato, ma un mesto miagolio: il gatto di Haku doveva essere ancora chiuso là dentro!
Griša amava gli animali, e non ebbe un solo istante di esitazione: credeva nei fantasmi, non si sentiva per nulla a suo agio lungo le rampe buie delle scale impolverate, eppure si arrampicò fino al quinto piano del condominio chiamando: «Dwimmerlaik!».
Anche la porta dell’appartamento era aperta, abbandonata sui cardini, e il maestoso siamese dagli occhi azzurri sedeva sul tappeto d’ingresso – la scritta Welcome sembrava così fuori luogo da risultare inquietante – miagolando a voce spiegata. Parlandogli con un filo di voce lo prese in braccio, e gli promise: «Ora mangeremo qualcosa, e poi ti porterò a casa con me, a Southampton. Sei d’accordo?». Il gatto faceva le fusa, ma non reagiva: eppure era famoso proprio per la sua capacità spesso comica di articolare versi perfettamente comprensibili in risposta ai discorsi del padrone! Con un sorriso teso Griša si rese conto di aver parlato in inglese; passò non senza un considerevole sforzo al russo, e solo allora Dwimmerlaik gli elargì un lungo miagolio di assenso.
Eccoli dunque insieme nel regno di Haku.
Un ampio salotto, uno scrittoio antico sotto l’abbaino, un divano – testimone della solitudine in cui aveva vissuto – e la chitarra in un angolo. Un tavolo in cucina, la dispensa ancora piena, un’unica sedia. La porta chiusa del bagno, ma ricordava le piastrelle turchesi. La camera da letto, disordinata, disseminata di disegni e racconti… No, un momento. Dov’erano finiti tutti i disegni di Haku?
Griša entrò in camera da letto, intimorito da quel vuoto sconcertante. Qualcuno doveva aver portato via tutto. Sulla scrivania, di fianco al computer, c’era solo un’agenda con una biro appoggiata sulla lucida copertina marrone scuro. «Diario», diceva una scritta a pennarello. Lo raccolse cautamente, ma non ebbe il coraggio di aprirlo: «Nessuno è entrato in questa stanza, non ancora» rifletté tra sé «Hanno solo pulito le tracce di sangue in bagno e in salotto. Se voglio scoprire qualcosa prima che arrivi la polizia ad indagare, devo farlo subito; e arriverà di certo: si dice che Haku non si sia solo tagliato le vene e imbottito di sonniferi, ma che fosse stato anche pieno di lividi e botte. Non era un suicidio, non voglio crederlo, non può essere possibile».
Stava per aprire il diario, con Dwimmerlaik che lo studiava acciambellato sulla scrivania, quando si accorse che il computer era ancora acceso. «Dio mio» esclamò, collegando la spina del monitor – era staccata, ecco come aveva fatto a non accorgersene subito – «Aveva tutto qui dentro».
La schermata che gli apparve davanti era fitta di parole: doveva esserci una dozzina di pagine, con ogni probabilità il libro che stava scrivendo per Lillie. «Ci stava ancora lavorando» dedusse «Quindi non può essersi tolto la vita per qualche tragedia con lei. Qualcuno ha assassinato Haku!».
Il gatto gli si accovacciò in grembo, e quel caldo peso ronfante gli rese coraggio. Parlare con lui ad alta voce faceva bene, era l’antidoto ideale per quel silenzio così fitto da apparire doloroso. «Il castello di sabbia» lesse, in un elegante carattere celtico.
Fu come essere risucchiato nel mondo dei racconti di Haku. Lui stesso era uno scrittore, conosceva benissimo quella sensazione, ma quella volta tutto sembrava diverso: poteva qualche meccanismo inconscio (fantasma) indurlo a leggere tutto con cura, esortarlo a fare presto, trascinarlo tra le pagine?
Griša Delacroix chiuse gli occhi, ascoltando il ronzio del computer. Per un po’ gli parve di essere ancora a casa, a Southampton, affaccendato intorno all’impianto di mixing e registrazione. Dopo un incubo del genere, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata telefonare ad Haku e promettergli una lunga lettera.
Infine, con un brivido, cominciò a leggere.


La storia di Haku

Nei bassifondi di San Pietroburgo si potevano trovare derelitti di ogni tipo e di ogni età, ciascuno con la sua storia più o meno triste alle spalle: abbandonati o fuggiti dalla famiglia, senza una casa né un lavoro, sconfitti da amori finiti male, o semplicemente vagabondi per scelta di libertà. Tutti, in ogni caso, cominciavano come fantasmi a bazzicare per i vicoli sudici nel tardo pomeriggio, poco prima che il piccolo negozio di alimentari chiudesse: una scorta di birra o vino da quattro soldi, qualcosa da mangiare, e poi c’era solo la notte da trascorrere in qualche locale di infimo ordine, lasciando affogare nell’alcol una vita sprecata o consumata in un grigiore perenne.
Lì, in fondo ad una lunga strada scandita da malati lampioni giallognoli, si trovava il pub frequentato solo dai più tristi di quei barboni, dagli innamorati infelici, da chi ormai può aspettarsi dalla vita soltanto il rimpianto di un tempo forse mai avuto veramente. Si chiamava Le Lanterne, ma fin dal giorno in cui per la prima volta la porta di legno si era aperta – forse anche allora cigolava con quel gemito malinconico – tutti lo conoscevano come La Taverna dei Rimpianti, l’ultima spiaggia di uomini abbandonati a se stessi. Nella bassa penombra scurita da piccole lanterne gialle che sembravano loro stesse addossarsi come silenziosi ubriachi contro le pareti di legno, si distinguevano i tavolini piccoli, occupati sempre da una sola persona, sui quali spiccavano bottiglie semivuote. I brevi riflessi verdi, innaturalmente cupi nella scarsa luce, sembravano brillare come occhi pieni di lacrime dietro mozziconi agonizzanti di candele solitarie. Qualcuno fumava: rozze sigarette fatte a mano che si consumavano dimenticate tra dita tremanti. Il fumo grigiastro aleggiava lento intorno alle lanterne, simile ad una gelida nebbia autunnale.
Il silenzio aveva il suo regno alla Taverna dei Rimpianti: nessuno parlava, nessuno interrompeva il rigagnolo di pensieri del vicino di tavolo, tutti se ne stavano zitti e immobili con le loro nostalgie.
Il più giovane frequentatore del pub non aveva ancora compiuto vent’anni.
Arrivava tutte le notti, lasciava qualche moneta sul bancone del bar e si sedeva in un angolo che ormai tutti gli riservavano in un tacito accordo. A volte aveva un chitarra sulle spalle, e qualcuno gli faceva avere un biglietto: lui leggeva il titolo scribacchiato a matita, si spostava in una saletta secondaria, prendeva la chitarra e cominciava a cantare. Era bravo: aveva una voce molto dolce e pensosa, specialmente quando qualcuno gli chiedeva un blues, e nonostante gli occhi chiusi non era difficile indovinare il suo sguardo triste e sfiduciato.
Nessuno conosceva il suo vero nome, ma tutti erano al corrente della sua triste storia che non lasciava spazio alla speranza: nulla di strano, dunque, se così giovane aveva già perso l’illusione del vivere.
Era cresciuto in un orfanotrofio, lontano, in Inghilterra. Era fuggito e per anni aveva vagabondato tra marinai, zingari e miserabili. Un marinaio di Liverpool gli aveva regalato la sua prima chitarra, che lui aveva imparato a suonare da solo, e da allora era riuscito ad integrare i guadagni di saltuari lavori con le mance che racimolava in giro con qualche canzone. Era poi stato accolto da un miliardario di Southampton, che in due anni aveva fatto di lui un’altra persona: l’aveva aiutato a scoprire le radici della sua famiglia, l’aveva messo al passo con gli studi che non aveva mai potuto fare – era straordinariamente intelligente, e senza impegnarsi eccessivamente aveva raggiunto voti alti in tutte le materie –, e gli aveva proposto poi di vivere per sempre nella grande villa in riva al mare. Una nuova vita e un nuovo nome: sir Edward Oldfield, giovanissimo baronetto inglese già avviato verso una sicura carriera di successo.
Norbert Oldfield aveva già altri sei figli: tutti più grandi del nuovo arrivato, tutti con un posto assicurato nella più prestigiosa università d’Inghilterra, e tutti ben disposti verso quel ragazzino così diverso da loro. Loro si assomigliavano in tutto, con i capelli corti e scuri e gli occhi celesti, studiosi e scherzosi, orgogliosi dello stemma di famiglia che troneggiava su ogni architrave della villa. Lui era schivo e taciturno, preferiva sedersi sulla spiaggia solo con la chitarra, e si nascondeva gli occhi verdi dietro i folti capelli biondo scuro, volutamente incolti. Aveva apprezzato moltissimo il gesto del signor Oldfield di prendersi cura di lui, ma non aveva voluto accettare quel nuovo nome che sentiva scomodo: lui era Gregory Delacroix, così l’aveva chiamato sua madre prima di morire, e all’orfanotrofio era sempre stato conosciuto semplicemente con il nome che la direttrice usava per chiamarlo: John.
Non gli importava niente che la storia dei Delacroix fosse sempre stata segnata da generazioni di criminali e delinquenti, tutti prima o poi finiti in qualche esecuzione capitale o, in tempi più recenti, a marcire in prigione. Suo padre aveva ucciso sua madre e si era poi suicidato, e lui era finito a Strawberry Fields per sei interminabili anni. Ma ora che era riuscito a liberarsi dell’anonimato di “John” e scoprire l’unica cosa che i suoi genitori gli avessero lasciato, era ben deciso a mantenere il suo vero nome.
L’idea che tutti lo considerassero un malvivente, in fondo, gli aveva sempre fatto comodo: diffidente e chiuso com’era, si era assicurato una tranquilla solitudine dietro le barriere del suo temuto nome. I suoi fratellastri, ogni tanto, lo canzonavano affettuosamente: «Se tu fossi nato in Italia saresti sicuramente il figlio del più potente boss della mafia, e nessuno per il tuo cognome oserebbe mai mancarti di rispetto!» «Succede così anche qui» ribatteva lui, laconico, che non scherzava mai «Non sono un mafioso né un teppista, ma mi va bene che la gente mi consideri tale».
Dopo quattordici anni di ostinate barriere, poi, la svolta dell’amore: una ragazza, Bettina, era riuscita a scalfire le mura del suo castello. Per la prima volta si era sentito veramente amato e desiderato, e a poco a poco il suo carattere si era ammorbidito lasciando trapelare una dolcezza insospettabile: era un romantico sognatore che finalmente credeva in qualcosa.
E furono due anni felici, sereni come mai prima: amore, musica, studio e famiglia gli avevano dato tutto ciò che non aveva mai avuto prima. Fino a quando, senza alcuna spiegazione apparente, la storia con Bettina cominciò ad andare male fino a morire in un tragico litigio. Di notti d’amore, di canzoni sulla spiaggia, di pomeriggi trascorsi a studiare insieme, non era rimasto più niente.
John era ripiombato nella sua sfiduciata solitudine, stavolta resa ancora più amara dal rimpianto. E Norbert non aveva tardato a farglielo notare: «Un altro quattro in latino? Un tre in greco?». Lui non rispondeva e si limitava a fissarlo con quegli occhi da gatto, impassibile, mentre qualcosa dentro di lui si dibatteva: «Scusami, papà, scusatemi…».
Poi quella sera, alla fine del secondo anno di liceo passato con voti meno che mediocri, era uscito di nascosto dalla finestra, con uno zaino e la chitarra, lasciando di sé solo un triste biglietto del quale ancora risentiva l’eco nelle lunghe notti alla Taverna dei Rimpianti: «Mi dispiace di essere stato una delusione per gli Oldfield…» «Grazie…» «Cercherò fortuna in Russia…» «Non cercatemi…».
Norbert non l’aveva cercato. Ma da allora aveva sempre provveduto, una volta rintracciato l’indirizzo, a spedirgli una mancia mensile che gli avrebbe permesso di vivere e, qualora lo avesse voluto, di proseguire gli studi.
Gregory era diventato Grigorij, in russo, e gli amici trovati a San Pietroburgo si rivolgevano a lui usando il diminutivo Griša. Aveva trovato una ragazza, con la quale aveva avuto anche una breve storia, che gli aveva insegnato il russo e ospitato a casa sua. Con tutto il suo impegno era riuscito a portare a termine il quarto anno di liceo classico, incontrando il suo più caro amico Asso e fondando insieme a lui un gruppo musicale famoso.
Di nuovo Cupido aveva incrociato la sua strada, stavolta nei panni di una ragazza di due anni più grande di lui. E quella era stata in assoluto la batosta più dura che avesse mai preso in diciotto anni di vita. Aveva amato Estel, per tredici mesi la loro storia era sembrata qualcosa di solido e indistruttibile, ma si era infine rivelata qualcosa di falso e logorato alle fondamenta. Avevano avuto insieme una bambina, e sembravano pronti a trascorrere così il resto dei loro giorni. Sembravano! Estel, si scoprì dopo, non aveva mai esitato a tradirlo e ferirlo: così come non ci aveva pensato due volte a fuggire con Maksim facendo perdere ogni traccia di sé.
Griša era letteralmente impazzito di dolore. Tutta la durezza della sua vita randagia, unita alla naturale tendenza dei Delacroix, aveva fatto di lui un teppista solitario, astuto e violento, che viveva lavorando di notte e il più delle volte rubando. Aveva incrociato casualmente Maksim e l’aveva ridotto in fin di vita a mani nude, fermandosi solo udendo in lontananza le sirene della polizia. Maksim, terrorizzato da lui, non aveva parlato nemmeno con Estel.
Il suo lavoro consisteva nel fare il dj in uno squallido karaoke di periferia, il Super Star, un piccolo locale popolato sempre dalle stesse persone, che gli rendeva sì e no i soldi sufficienti per mangiare durante la settimana. Chiudeva alle due della notte, e dopo per lui c’era solo un inconcludente vagabondaggio tra altri bar già chiusi, sui ponti della Neva, apparendo e scomparendo nella luce dei lampioni.
Alle prime luci dell’alba tornava a casa e dormiva tutto il giorno, fino all’ora di tornare al lavoro.
Tutti i suoi giorni si andavano spegnendo così, in una rassegnata, rabbiosa, voluta solitudine: sembravano le foglie di un albero in autunno. Aveva finito il liceo, cavandosela più per fortuna che per impegno, e si era iscritto all’università. Lettere. Almeno, in futuro, avrebbe avuto più probabilità di trovare un lavoro e farsi una famiglia, o almeno così pontificava Norbert Oldfield. Il patriarca. Ma a lui, Grigorij Delacroix, non importava nulla del futuro.
Perfino il dolore lacerante per la perdita di Estel, per il crollo di tutti i suoi sogni, sembrava essersi abbandonato ad un continuo languore. Si era assuefatto alla tristezza, allo scoraggiamento, e spesso scivolava in un alcolizzato vittimismo. Anche la nostalgia per sua figlia era ormai per lui un dato di fatto, ed era convinto che niente e nessuno avrebbe mai saputo tirarlo fuori dal baratro nel quale si era gettato. Né l’avrebbe concesso.
Ora nella sua ristretta cerchia di amici (i compagni dell’università, gli unici con i quali ancora trascorreva momenti sereni lontano dai rimpianti di casa) tutti lo chiamavano con un soprannome volto ad evitare tanto il diminutivo che inevitabilmente gli faceva riaffiorare alla mente il ricordo di Estel quanto il timore che il suo infausto cognome: Haku.
Almeno così, recitando nel ruolo di un altro se stesso, poteva ancora trovare qualche avanzo felice da raccogliere in una vita che non gli aveva dato niente e tolto tutto.

All’altro capo di Pietroburgo, oltre il più grande ponte sulla Neva, la notte era ben più lunga: vicino al centro non erano rari i locali che chiudevano all’alba, e certo non avevano niente a che vedere con posti come il Super Star o la Taverna dei Rimpianti.
Ce n’era uno in particolare, il Silent Hill, che proseguiva l’apertura notturna fino all’ora di colazione. Era molto grande e luminoso, arredato in un perfetto stile irlandese. Anche la schiumosa birra scura che vi circolava sembrava più rossa e fresca attraverso le grandi vetrate verdi che davano sulla strada: i proprietari la ordinavano direttamente in Irlanda.
Haku scoprì quel posto per caso, dopo una serata al Super Star. Non aveva sonno né voglia di rinchiudersi nel suo appartamento sporco e disordinato, del quale non si curava da settimane. Per un attimo vide il letto sfatto, le lenzuola aggrovigliate, le lattine di birra e le bottiglie di liquori vuote abbandonate un po’ dappertutto, le scatolette di carne che mangiava quando i soldi scarseggiavano stipate negli angoli… un perfetto appartamento da derelitto. «Finirai come un autentico delinquente» aveva detto Norbert «Vivrai di notte, rubando, in una lurida casa di periferia, ogni notte con una donna diversa…». Poi non l’aveva più ascoltato, ma quelle parole gli erano rimaste impresse. Aveva azzeccato tutto, eccetto le donne: per paura di innamorarsi e soffrire ancora, le evitava sempre. Ed non erano poche le ragazze che avevano messo gli occhi su di lui, sul dj. Parecchie avrebbero pagato pur di potergli affondare le dita tra i capelli, vedere nei suoi occhi la rara scintilla di un sorriso, abbandonarsi a lui anche solo per una notte e svegliarsi tra le sue braccia. Alcune erano rimaste conquistate dal suo lato oscuro, dal fascino del criminale, e pur di compiacerlo erano disposte a tutto. Haku approfittava spudoratamente di loro, senza preoccuparsene e senza provare più alcun sentimento: si faceva accompagnare fino a casa in macchina, il più delle volte ubriaco fradicio, e quando la ragazza di turno si preparava a seguirlo in casa le sbatteva la porta in faccia con uno strafottente sogghigno: «Buonanotte, gioia!». Oppure si faceva prestare soldi che non restituiva mai, né che gli venivano mai richiesti: l’unica persona che aveva insistito aveva trascorso un mese con la faccia sfigurata da calci e pugni.
Quando aprì la porta verniciata di verde non guardò in faccia nessuno e sprofondò su un divanetto, osservando l’insolito arredamento. Si sentiva a casa: innumerevoli bar di Liverpool, così vicina all’Irlanda, rispecchiavano quelle tradizioni. Le labbra gli si distesero inconsciamente in un vago sorriso, e decise di fermarsi sempre lì dopo il Super Star. Intravide in un angolo un palchetto: chissà se lì dentro avrebbero accettato un solitario chitarrista? O se avevano una band fissa disposta a prenderlo con sé?
Una delle cameriere del Silent Hill gli si fermò accanto con un sorriso cordiale e gli porse il listino. Haku la scrutò un istante (capelli lunghi ricci, scuri, occhi neri e un prosperoso seno troppo in evidenza) e ordinò: «Una birra e un’informazione». La giovane si chinò, riassettandosi la scollatura con noncuranza, ma lui la ignorò e chiese: «Avete un’orchestra qui dentro? Cercate un dj o un chitarrista?». Vedendo che i suoi provocanti atteggiamenti non avevano alcun effetto, lei si fece seria e rispose, acida: «La birra arriva subito. Per il resto rivolgiti alla favorita del proprietario: la vado a chiamare subito».
Qualche minuto dopo una seconda cameriera gli si avvicinò, con un boccale di birra scura su un vassoio: «Sei tu il musicista?» chiese, pratica. La favorita del proprietario? Non era difficile indovinare il perché: era molto carina: piccola ed esile, con i capelli rosso cupo e gli occhi di un caldo verde scuro, e doveva avere circa la sua età. Haku le rivolse un affabile sorriso, annuendo, ma questa volta fu lui a rimanere scornato: venne completamente trascurato. «Lasciami un recapito telefonico» disse lei, strappando un foglio dal blocchetto per le ordinazioni. Lui prese la penna con la sinistra e il boccale con la destra, e scarabocchiò il numero di telefono quasi con rabbia. La cameriera lo guardava con una strana espressione, e di colpo sbottò: «E sei pure mancino!».
Haku aggrottò le sopracciglia, perplesso, ma si limitò a tacere. Mai prima di allora gli era capitato di non riuscire ad ottenere le grazie di una ragazza! Le diede il foglietto e quasi ringhiò: «Questa birra è ottima, me ne porteresti un’altra?» «E beone!» commentò la ragazza, lasciandolo lì ancora più sconcertato.
«Ma tu guarda» pensò Haku, vuotando il boccale in pochi sorsi stizziti «Mi chiedo per chi mi abbia preso…».
Quando la vide tornare si rifiutò ostinatamente di parlarle: mugugnando qualcosa di incomprensibile posò sul tavolo una banconota e riprese a bere, ma quasi rischiò di soffocare quando la cameriera ribatté, in un perfetto inglese dal forte accento irlandese: «Credi forse di passarla liscia, inglese presuntuoso? Credevi veramente che al Silent Hill fossero tutti russi che non capiscono quando un cliente insulta una cameriera irlandese usando quel tuo squallido accento di Liverpool?».
Haku rimase a bocca aperta, dimenticandosi completamente la sua maschera fiera e impassibile. Dallo stupore gli occhi gli risaltavano più verdi che mai, e i capelli biondo scuro pettinati all’indietro con la brillantina sembravano in qualche modo accentuare la sua espressione di totale sorpresa. La cameriera sogghignò, compiaciuta, e tornò dietro al bancone tra gli sguardi ammirati delle colleghe.
«Colpito e affondato» pensò lui, rilassandosi contro lo schienale «Che figuraccia, e che caratterino…».
In quel momento due ragazzi gli si pararono davanti, scrocchiandosi minacciosamente le nocche: «Come ti sei permesso di importunare la nostra bella?». Haku alzò gli occhi, che di colpo divennero duri come due smeraldi, e sibilò: «Cosa volete? Lasciatemi in pace».
Un uomo robusto, sulla cinquantina, con corti capelli brizzolati e la barba mal rasata li apostrofò: «Figlioli, non voglio guai nel mio locale…», ma loro lo ignorarono e si appoggiarono al tavolino.
Da dietro il bancone, la giovane cameriera sbuffò: «Ci risiamo, un’altra discussione. Tutte le volte la stessa storia, con quei ragazzi: mi chiedo cosa vogliono da me».
Lavorava lì soltanto perché il padrone del Silent Hill, ora di nuovo seduto al tavolino con la voluminosa pancia contenuta a fatica da un maglione sformato, le passava di nascosto quasi il doppio dello stipendio che dava alle altre cameriere. Era innamorato perso di lei, e glielo dimostrava assecondando sempre tutti i suoi desideri, ma non si era mai fatto avanti: e lei certo non aveva alcuna intenzione di permetterglielo.
Quella notte la routine sembrava essersi spezzata: tutti i clienti tenevano gli occhi puntati sui due ragazzi, ora raggiunti anche dal resto del loro gruppetto di amici, che circondavano il nuovo avventore con aria minacciosa.
Le cameriere tacevano, immobili, e quella che aveva avuto quel breve battibecco con lui ora lo osservava con una strana espressione. «Hai visto?» sussurrò rivolta ad un’amica «Non ti ricorda nessuno? Stessi occhi, stesso sguardo arrogante, perfino una pettinatura molto simile. Non so chi sia, ma non mi piace». L’altra ragazza rispose, quasi esitante: «So solo che è il dj del Super Star, e che si fa chiamare Haku. E devo darti ragione: gli assomiglia moltissimo».
Di colpo tre ragazzi rovesciarono con uno schianto il tavolino, mandando i due boccali a frantumarsi sul pavimento, e prima che qualcuno potesse fermarsi si lanciarono su Haku.
Successe tutto troppo in fretta per seguire i rapidissimi movimenti della mischia: un istante dopo due ragazzi giacevano a terra con la faccia coperta di sangue, e Haku brandiva uno sgabello con aria assassina: «Volete che vi spacchi la faccia del tutto?» ruggì, scaraventando di lato lo sgabello e assalendoli a calci. Il padrone, pietrificato, non riusciva nemmeno a raggiungere il telefono per chiamare la polizia. Gli altri clienti si erano ritirati verso le pareti opposte e qualcuno stava pagando frettolosamente, ansioso di uscire.
Il terzo aggressore, probabilmente il capo, cercò di salvare gli amici ormai sfigurati dalle percosse; ma Haku si girò, e caricando un pugno spaventoso lo mandò a ruzzolare per terra, con il naso e la bocca spaccati e lucidi di sangue. In un balzo gli fu sopra, e cominciò a scuoterlo ferocemente, sbattendogli la testa sul pavimento e riempiendolo di pugni. Aveva un cattiveria, una velocità e una violenza che facevano paura, sicché mentre tre avversari erano a terra e due terrorizzati cercavano di svicolare, lui era praticamente illeso, eccetto un rivolo di sangue da un labbro.
Li avrebbe forse ammazzati se non avesse sentito qualcun altro avvicinarsi alla sua sinistra. Si girò di scatto ed ebbe appena il tempo di udire la giovane cameriera urlare: «Mi fai schifo!» prima di essere colpito da uno schiaffo incredibilmente potente, che quasi lo fece cadere indietro. Barcollò ansimando: ora perdeva sangue anche dal naso, ma le ferite dell’orgoglio erano quelle che bruciavano di più.
I tre feriti furono portati via dagli amici che erano riusciti a salvarsi, e intorno tutti tacevano. Si udiva solo il respiro accelerato di Haku, che saettava lo sguardo intorno. Ecco, l’aveva fatto di nuovo: violento e impulsivo com’era, stavolta si era cacciato in un bel guaio.
La cameriera evitava di incrociare i suoi occhi. Gli voltò le spalle e commentò, con un ostentato disinteresse: «Credo che quei cinque sbruffoni da stasera non importuneranno più gli altri clienti». Quindi andò verso il padrone del pub: «Non lo denunciare» gli disse, additando Haku «Si è difeso, anche se ha decisamente esagerato, e poi era ora che qualcuno desse una lezione a quel gruppo».
A poco a poco, tutti tornarono ai rispettivi tavolini. Haku si pulì alla bell’e meglio il sangue e lasciò tutti i soldi che aveva preso al Super Star davanti alle cameriere. «Non basteranno, ma per il momento non ho altro» mormorò «Buonanotte».
Era ormai l’ora di chiusura, e si sentiva stanco e triste. Così depresso da non chiedersi nemmeno il motivo delle strane reazioni di quella ragazza.
Di colpo se la trovò davanti, sul marciapiede, con un rotolo di bende in mano. Scattò subito sulle difensive, ma lei lo tranquillizzò: «Fammi vedere la mano: sei tutto gonfio, devi esserti rotto qualcosa. Vieni sul retro, almeno potrai metterti del ghiaccio».
E lui ubbidì, senza aprir bocca.
«A proposito» concluse la giovane, cercando nel frigo un sacchetto di ghiaccio «Mi chiamo Lillie».

Le luci del Silent Hill erano già tutte spente; soltanto nel retrocucina brillava una lampadina impolverata, bassa su un largo tavolo di metallo. Haku vi appoggiò sopra la mano, che si stava gonfiando e illividendo a vista d’occhio, e Lillie gliela coprì con del ghiaccio: il fresco contatto gli fece socchiudere gli occhi, pur rimanendo vigile come in attesa di qualche nuovo scherzo da parte di quell’imprevedibile ragazza.
Ma lei non lo guardava nemmeno. Si sedette a distanza, su una vecchia sedia traballante, e si accese una sigaretta esortandolo: «Cerca di riprenderti in fretta: ho un figlio che mi aspetta a casa» «Un figlio?» fece lui, sorpreso «Complimenti, quanti anni ha?». Lillie rimase un lungo minuto in silenzio ad osservare le braci della sigaretta che incenerivano lentamente. «Dieci mesi, e si chiama Dylan».
Dylan… le venne da sorridere. Un nome irlandese, a dispetto delle idee dell’uomo che purtroppo era suo padre. Girolamo, si chiamava, ed era nato nell’assolato Sud d’Italia. Quella del nome era stata l’unica vittoria che lei era riuscita ad avere.
Gli occhi le si incupirono al solo pensiero. L’aveva amato, quello sì, ma già dopo i primi mesi insieme aveva imparato a detestarlo: violento, ubriacone, un criminale da generazioni. Raramente l’aveva visto sobrio e lucido: il più delle volte la rintracciava urlando e bestemmiando, all’eterna ricerca di soldi per dosi sempre più alte di cocaina, quel demonio candido che l’aveva irretito. E lei, soggiogata, non era mai riuscita a lasciarlo: lo temeva, e per quanto il suo orgoglio si divincolasse come una tigre imprigionata era sempre stata costretta ad abbassare remissivamente la testa. Quante volte era stata costretta a prestargli soldi che poi non le erano più tornati indietro! Quante notti l’aveva visto ciondolare sotto le sue finestre a sbraitare imprecazioni! Quante volte gli aveva curato le mani fracassate in feroci zuffe! E quante volte, ormai disgustata da lui, era stata costretta lo stesso a… no, non voleva nemmeno pensarci. Le tornarono alla mente gli occhi verdi, i capelli biondi pettinati all’indietro, le labbra sottili storte in un ghigno arrogante, gli occhiali dalla spessa montatura nera, le mani coperte di cicatrici…
E ora quel nuovo cliente del Silent Hill sembrava la sua replica: sentì di detestarlo allo stesso modo. Lo guardò di sottecchi, intento ad avvolgersi meglio il sacchetto di ghiaccio sulle dita, e notò che in fondo tra lui e Girolamo c’era sì una certa somiglianza, ma dovuta soltanto al modo di fare e alla pettinatura. Se Haku si fosse lasciato ricadere i capelli sulla fronte, coprendosi gli occhi – quelli sì, erano pressoché identici –, certo non le sarebbe nemmeno passato per la mente di fare quel paragone.
D’un tratto Haku alzò lo sguardo: aveva un’espressione dolce e tristissima, e mormorò: «Anch’io ho una figlia, ha sette mesi… ma non la vedo da quando ne aveva quattro. Sua madre è fuggita con un altro, e da allora non ho più avuto loro notizie. Mi manca moltissimo la mia piccola Elisabeth: darei qualsiasi cosa pur di poterla rivedere…».
«Ecco di nuovo la coincidenza», pensò rabbiosamente Lillie. Le parve di vedere Girolamo, pigramente sdraiato sul letto disfatto, una sigaretta tra le dita, che borbottava pigramente: «Ho voglia di vedere mio figlio… gioia, me lo porterai qui domenica pomeriggio?». E lei che annuiva, impotente.
Si erano finalmente lasciati poco dopo la nascita di Dylan, ma le loro vite non avrebbero mai più potuto separarsi… almeno fino a quando il loro figlio non fosse diventato abbastanza grande da decidere di staccarsi completamente da suo padre. Anni, anni, anni… una vita davanti.
«Anch’io ho avuto una vita difficile» sospirò Haku, liberando la mano dal ghiaccio ormai sciolto «Ma credo che la tua situazione sia ben più spinosa della mia». Lillie trasalì: non si era nemmeno accorta di avergli rivelato tutta la storia. La stanchezza dopo ore di lavoro l’aveva completamente stordita. Scattò subito, pronta a difendersi, ma il suo interlocutore sembrava serio e sincero, quando concluse: «Voglio dire: la mia vita è solo grigia, vuota e inutile, ma credo sia molto meglio vivere nel deserto piuttosto che essere costretti ad avere accanto per anni una persona che si detesta».
Ora la somiglianza con quell’altro padre di famiglia rasentava lo zero. Haku sembrava solo un ragazzo qualsiasi, soltanto molto avvilito da una vita avara, e molto assonnato. Sbadigliò e si strofinò gli occhi come un bambino, dopodichè le rivolse un timido sorriso: «Mi dispiace per come mi sono comportato prima» confessò, alzandosi «L’impulsività è uno dei miei difetti peggiori. Posso fare qualcosa per farmi perdonare?» «Ci sono cose peggiori» sospirò Lillie. Da un armadietto aveva preso un grosso rotolo di bende «Vieni qua, devi tenere ferma la mano».
Era un’esperta, ormai, e nel giro di qualche minuto edificò una solida fasciatura sulle nocche livide e già segnate da vecchie cicatrici. «Non era certo la prima volta che facevi a pugni» commentò, fissando la stoffa con un cerotto. Lui si strinse nelle spalle, asciutto: «O violento, o morto. Sono un ragazzo di strada fin da quando avevo sette anni, e non ho avuto alternative».
«Un altro punto in comune» fu la muta risposta. Anche il terribile Girolamo era fuggito di casa e cresciuto in un accampamento di zingari. Lillie socchiuse gli occhi scuri, e chiese quasi sarcastica: «Non mi dire, ora, che sei imparentato con la famiglia Di Santo!». Sarebbe stato il colmo!
Haku scosse la testa, nervoso: «Di Santo? Tuo figlio è…? Conosco di fama quel cognome. No, non ho niente a che vedere con loro: il mio nome è Grigorij Delacroix».
Si zittì troppo tardi. Se la sua improvvisata infermiera era suo malgrado in contatto con la più potente casata di mafiosi e assassini italiani, certo era a conoscenza anche della storia – molto simile – dei Delacroix. Imbarazzato, cercò di rimediare: «Ma non ho mai conosciuto i miei genitori». E quell’ultima frase parve andare a segno, perché Lillie liberò un lungo sospiro mesto: «È già qualcosa».
Altra lunghissima pausa di silenzio. Fuori, oltre una finestrella appannata, si intravedeva la striscia rosa dell’alba.
«Chissà cos’avranno pensato le tue amiche» commentò Haku, con un debole sorriso stanco «Ti hanno vista fermarti qui con me dopo l’orario di chiusura…» «Non pensano nulla di compromettente» fu la secca risposta. Certo: avevano notato tutti quella sfacciata somiglianza, e nessuno ignorava l’odio che Lillie covava per il padre di Dylan. Nessun pericolo, quindi.
Di nuovo intercettò quegli occhi così familiari, ma stavolta vi fissò i suoi, sostenendo quello sguardo circospetto. Notò per la prima volta una lunga cicatrice rossastra che sembrava tagliare esattamente a metà il sinistro: partiva dalla fronte per finire appena sopra lo zigomo, e sembrava la traccia di una ferita piuttosto recente. «Sei stato fortunato con quella ferita» osservò «Non ti ha nemmeno sfiorato l’occhio. Come te la sei procurata?». Lui guardò lontano, oltre il vetro sporco ora illuminato sempre di più dall’aurora. Perché rivangare il ricordo di quell’orribile notte? Eppure, già mentre una parte di lui voleva chiudersi nel solito guscio, si ritrovò a raccontare: «È successo una notte, al Super Star. Stavo lavorando, felice dopo un pomeriggio passato insieme a Estel, quando lei mi ha chiamato in una delle salette separate. Non ero preoccupato, non mi sarei mai aspettato nulla di quello che sarebbe successo dopo, e di colpo mi ha confessato come si erano messe le cose tra lei e Maksim. Quel verme schifoso ha cominciato a minare la nostra storia tanto intensa quanto precaria, offrendo da bere a Estel, seguendola nei locali che frequentavamo, portandola a casa in macchina quando io ero costretto a fermarmi al Super Star . Me l’ha detto e io non ho voluto crederci, pensavo ad un pessimo scherzo, fino a quando il suo uomo è entrato nella saletta e mi ha detto di non avvicinarmi mai più a Estel. A quel punto ho perso il controllo: avevo in mano una bottiglia di birra, l’ho rotta contro un tavolino e gli sono saltato addosso. Non volevo picchiarlo: in quel momento l’avrei massacrato, anche a costo di finire in carcere a vita. Che importa, mi dicevo, che importa vivere senza colei che amo? E in fondo non è la maledizione dei Delacroix quella di morire dietro le sbarre? Sì: quella notte Maksim sarebbe morto, se le lacrime non mi avessero offuscato la vista. Mi sono fermato solo un istante, urlando, e qualcuno mi ha strappato a forza dal corpo che volevo fare a pezzi. Solo allora ho visto quel verme rialzarsi, traballando, e prendere in mano le chiavi della macchina: mi sono immaginato Estel insieme a lui, mi sono reso conto che tutto quello che prima dava un senso alla mia vita ora apparteneva a lui, e di colpo Maksim ha cercato di colpirmi con le chiavi, ferendomi però non in modo troppo grave». Si fermò, sfiorando con le dita il contorno della cicatrice, quindi concluse: «È stata finora la più profonda ferita che mi sono fatto in una lotta, ma è guarita senza bisogno nemmeno di suturarla. La ferita del cuore, invece, a volte sanguina ancora… per quanto io stesso mi sia imposto di ignorarla. Certe volte essere ubriachi serve a non ricadere nel vortice di pensieri troppo dolorosi: forse anche il padre di tuo figlio è diventato quello che è a causa di sofferenze troppo forti».
Lillie annuì: «Il padre di Girolamo è finito dietro le sbarre quando lui aveva appena dodici anni. Omicidio. Prima l’aveva picchiato, sua madre non si era mai curata di lui… e Girolamo è fuggito insieme agli zingari. È cresciuto solo e senza amici… ma niente può giustificare il suo comportamento fuori da qualsiasi somiglianza umana. Quell’uomo è una bestia! Un ricattatore, un prepotente, un…». La rabbia e l’odio le rendevano impossibile perfino il pronunciare altri insulti.
Tacque, con il respiro corto, stringendo i pugni così forte da sbiancarsi le nocche. E d’un tratto cambiò argomento. «Estel, hai detto? Estel Selene Dumond? Dunque sei tu il famoso Griša. L’allocco che per mesi è andato dietro a quella vipera. La conosco: puoi evitare di spalancare gli occhi in quel modo. Abbiamo la stessa età, la conosco da una vita e l’ho sempre detestata. Ed è sempre stata una falsa doppiogiochista» «Me l’avevano detto in molti» ammise Haku «Ma io non ho mai dato retta a nessuno. Sapevo che mi avesse tradito più volte, sapevo di contare appena un po’ più di nulla per lei, eppure mi illudevo che non fosse così. Meglio fingere di averla mia che restare solo a rimpiangerla, mi dicevo. E pur sapendo che non sarebbe durata ancora per molto, questa storia lunga tredici mesi mi ha dato moltissimo. La rimpiango… ma anche questo dolore prima o poi invecchierà fino a ridursi ad un’altra cicatrice».
I due si scambiarono un lungo sguardo: non erano poi così diversi, entrambi privi ormai di qualsiasi illusione. Erano cresciuti troppo in fretta, e ora non potevano che proseguire la loro vita senza sorprese.
Si avviarono in silenzio fuori dal Silent Hill, nella luce ormai rosea del giorno appena nato. «Buon riposo» concluse Lillie, incamminandosi verso il ponte. Haku guardò l’altra metà di Pietroburgo, la periferia nella quale abitava, e sospirò avviandosi nella direzione opposta: «Buon riposo anche a te… e grazie».

I sobborghi della città non erano pittoreschi come potevano essere le campagne irlandesi o certe tranquille strade di Liverpool: dovunque si estendevano vicoli bui anche al sole, tortuosi e invasi di immondizia. Le case diroccate offrivano un precario rifugio a chi viveva di notte, e tutto lì intorno gridava la sua malsana desolazione.
Lillie procedeva veloce tra cumuli di spazzatura, bidoni rovesciati e macerie che ingombravano la strada. Teneva le mani affondate nelle tasche, e ogni tanto scrutava preoccupata l’orologio: non era mai tornata a casa così tardi, e certamente sua madre si sarebbe infuriata.
Viveva in un condominio popolare, vecchio e cadente, in quelle piccole stanze sovraffollate, che in origine apparteneva a sua nonna e suo zio. Come dimenticare la lunghissima notte di qualche anno addietro, quando dopo un’ultima lite impressionante – lei, acquattata dietro la porta, aveva sentito distintamente sua madre urlare e suo padre biascicare qualcosa, completamente ubriaco – erano fuggite di casa con un paio di valigie per trasferirsi lì. Lei e sua madre: unite, inseparabili, un solido fronte che niente e nessuno poteva scalfire. E quell’uomo che rincasava sbraitando nel cuore della notte, che non era nemmeno il suo vero padre!
Scosse la testa per fugare quei cupi ricordi, ma la stanchezza della notte di lavoro o il peso di pensieri troppo forti glielo impedirono. Avrebbe voluto fuggire via, lontano, tornare nella sua Irlanda lontana insieme a Dylan e magari rintracciare il suo vero padre; invece era costretta a rimanere lì, incatenata ad una vita grigia e squallida, con l’ombra di Girolamo sempre più greve sulle sue spalle.
Già, ricordò: Girolamo.
L’aveva conosciuto tre anni prima, e dopo appena una settimana – lei stessa era ubriaca, quella sera, in una delle sue notti vagabonde con amici che non vedeva ormai da chissà quanto tempo – si era seduta accanto a lui. Non avrebbe mai dimenticato quel ghigno insolente, quegli occhi verdi socchiusi, e la sua frase: «Cosa aspettiamo io e te a metterci insieme?». E lei, baciandolo, aveva firmato la sua rovina.
Gli occhi le si riempirono di lacrime. Due anni di bugie, di lacrime, di rabbia, di violenza… e di paura. «Guardate» dicevano coloro che fino a poche settimane prima erano i suoi amici «La ragazza di Girolamo Di Santo. Andiamo via, prima che arrivi anche lui!». La solitudine si era infiltrata rapidamente, gocciolando nella sua vita e stabilendo definitivamente il suo regno non appena lei si era resa conto di essere incinta.
La girandola della memoria turbinava sempre più in fretta. Due tradimenti – l’aveva fatto per dispetto, per ripicca, e non si era pentita – una proposta di matrimonio che aveva rifiutato, e poi quell’altra notte interminabile.
Sua madre, l’unica vera amica che avesse mai avuto, l’aveva salvata. Era intervenuta lei, di fronte al terribile Girolamo, urlandogli in faccia: «Lo capisci o no? Mia figlia non ti ama più! Ti detesta!». Sapevano entrambe che non era finita, che lui ci sarebbe sempre stato… ma almeno aveva chiuso con quella storia orribile.
E ora c’era il suo presente: Lillie, la madre di Dylan Di Santo, condannata a finire i suoi giorni così. Sola, a cercare di tener buono Girolamo per salvare suo figlio, a trascorrere le notti come cameriera al Silent Hill e le giornate chiusa in casa con l’angoscia che quel delinquente cercasse di avere delle pretese su di loro.
All’epoca aveva ancora qualche pensiero felice: si trattava di un altro ragazzo del quale si era invaghita, Moonlight. Sorrise al pensiero di lui, dei loro baci rubati di nascosto… e subito un pensiero la ferì: ora anche con Moonlight era finita. L’aveva visto chissà quante volte insieme ad altre ragazze, e si sapeva che facesse ricorso a lei solo quando non riusciva a trovare nessuno per occupare il tempo libero.
Depressa, aprì la porta di casa. Da settimane, ormai, si sforzava di rinchiudere quei pensieri in un angolo isolato della mente, e ora che le erano crollati addosso l’avevano abbattuta ancora di più.
La voce furiosa di suo zio la travolse: «Quasi le sette del mattino! E tua madre, che si deve alzare alle quattro per andare a lavorare, ha passato la notte sveglia perché Dylan non voleva dormire! Ma la sentirai, quando torna…» «Sì, zio» sospirò, avvicinandosi in punta di piedi al letto nel quale Dylan russava beatamente.
Eccolo lì, suo figlio. Dieci mesi che le erano sembrati una dolcissima eternità. Gli sfiorò i lisci capelli che si schiarivano a vista d’occhio, e scivolò ad accarezzargli le labbra sottili. Certo, si capiva che fosse figlio di Girolamo, ma assomigliava molto più a lei e al suo ramo della famiglia. Si sentì orgogliosa: non si era mai reputata bella, ma suo figlio era stupendo, e guardandolo sentì di amarlo più di qualunque altra persona al mondo. Lo prese in braccio, adagiandolo sull’altro letto, e gli si addormentò accanto ancora prima di aver toccato il cuscino con la testa.
Dall’altra parte della Neva, intanto, anche Haku si era appena lasciato cadere sul divano, completamente vestito. Dalle dita abbandonate rotolò a terra una bottiglia di whisky ormai vuota, ma lui nemmeno sentì il tintinnio del vetro. La mano gli faceva male, pur essendo fasciata strettamente: doveva essersi veramente fracassato le nocche. Per un istante la mente rallentata dall’alcol e dal sonno visualizzò la figura esile di Lillie, e lui sorrise vagamente: aveva parlato in inglese con lei, riesumando la sua lingua madre che da mesi giaceva sotto il russo imparato per forza. La nostalgia di Liverpool gli punse il cuore come uno spillo, dopodiché cadde in un sonno profondo con un unico desiderio: tornare in Inghilterra.
Non molto distante da casa di Haku, in un appartamento ugualmente piccolo ma molto più accogliente, Moonlight si alzò al suono della sveglia. Era ora di andare al lavoro, e lui non ne aveva affatto voglia. Cercò a tentoni l’interruttore della luce, e disturbò la ragazza che dormiva al suo fianco. Un’altra delle sue conquiste da discoteca. «Dove andiamo questa sera, caro?» la udì borbottare, e senza pensarci più di tanto rispose: «Cosa ne dici del Super Star? Il dj di quel karaoke è un mio amico, e non lo vedo da molto tempo».
Era vero: aveva conosciuto Haku ancora ai tempi remoti – almeno così sembravano – in cui la sua storia con Estel era appena agli albori. Lui c’era la notte in cui si erano conosciuti, e sempre lui era stato con loro anche nei momenti più difficili. Si era affezionato ad Haku, e spesso nei primi dolorosissimi mesi dopo la fuga di Estel era andato a trovarlo, anche solo per chiacchierare sotto casa. Un amico silenzioso e tranquillo, ma sempre presente nel momento del bisogno.
La giornata era cominciata per tutti, anche per il popolo della notte che si addormentava al mattino.

La settimana seguente, Haku si ammalò e fu costretto a rimanere a letto febbricitante per due interi giorni. Era completamente solo, e nel silenzio del suo minuscolo attico i pensieri e i ricordi tristi sembravano quasi concreti. Non aspettava visite, né avrebbe mai ricevuto ospiti in quella lurida tana, eppure di tanto in tanto lanciava occhiate supplichevoli al telefono.
Che squillò, il mattino del terzo giorno. Si alzò di scatto, incespicando nella coperta consunta e scolorita, e si precipitò a rispondere. La voce gli uscì rauca, più per il lungo silenzio che per l’influenza, e all’altro capo udì il saluto dell’altro dj del Super Star, Andrej: «Ciao, capo! Vuoi sentire l’ultima novità?». Incuriosito, Haku si sedette sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro. «Certamente» fece «Qualunque cosa sarà più interessante dello starsene rinchiusi in casa ammalati». Andrej chiacchierò ancora qualche minuto, prima di rivelare: «Il Super Star terrà chiuso fino a venerdì prossimo, quindi avrai tutto il tempo per rimetterti in forze! Ci sono dei problemi all’impianto elettrico, e il padrone vuole metterlo a posto con calma, quindi siamo completamente liberi per almeno cinque giorni!».
Haku deglutì. Cinque giorni di riposo equivalevano a cinque giorni di silenzio e solitudine. Fece mente locale: la ragazza di Andrej aspettava un bambino, e i due dovevano essere impegnatissimi a fare gli ultimi preparativi; senza contare che non voleva rischiare di contagiare la futura mamma con quella fastidiosa influenza. Moonlight era troppo occupato con le sue ragazze. Perfino Vanja – o Frizz, come veniva soprannominata per il suo comportamento vivace ed esuberante – non si faceva sentire da giorni. Gli venne da ridere, pensando a lei: quante notti avevano trascorso cantando insieme al Super Star! Avevano perfino combinato qualcosa, subito dopo il trauma di Estel, ma quell’avventura non era mai diventata nulla di serio.
«Benissimo» mentì «Allora ci vedremo al Super Star venerdì sera». Ancora qualche parola, e poi la casa fu di nuovo immobile e silenziosa.
Tornò a sdraiarsi sul divano, con un lungo sbadiglio che gli fece lacrimare gli occhi, ma prima aprì la porta di qualche centimetro, lasciando filtrare una fessura di luce. Nessuno avrebbe mai osato cercare di introdursi nella casa del terribile Griša Delacroix, lo sapeva bene, e non era certo la prima volta che lasciava la porta aperta. Quand’anche qualche incauto avesse deciso di importunarlo, gli sarebbe saltato addosso e l’avrebbe convinto a non riprovarci mai più: vicino alla porta aveva perfino lasciato una pesante mazza da baseball che lui stesso aveva intagliato, chissà quanti anni addietro. Il legno era graffiato e consumato per il ripetuto utilizzo.
«Io non sono così» mormorò tra sé. La febbre gli stava salendo di nuovo, aveva i brividi, e si avvolse meglio nella coperta. Un profondo sospiro lo fece tossire violentemente, prima di cadere in un sonno agitato.
Gli sembrava di essersi appena assopito, quando lo squillo rauco del telefono lo riportò brutalmente alla realtà. Imprecando tra i denti prese la cornetta, ma subito parve istantaneamente calmarsi, mentre la perplessità gli riempiva gli occhi.
«Haku?» disse una voce femminile, non nuova eppure sconosciuta. Maledizione alla febbre che l’aveva intontito. «Sono Lillie».
«Come mi hai trovato?» sbottò lui, e subito si sentì molto stupido: certo, le aveva lasciato il numero quella notte al Silent Hill. «Scusa» borbottò «Stavo dormendo, ho parlato senza pensare».
«Come sempre» lo canzonò lei, facendolo sorridere impercettibilmente. «Comunque» riprese, seria «Sono venuta a cercarti ieri sera al Super Star, ma il tuo collega mi ha detto che sei rimasto a casa, ammalato. Hai una voce irriconoscibile! Cos’hai?».
Haku sbadigliò, pur essendo perfettamente sveglio. «È venuta a cercarmi?» meditò «Forse al Silent Hill hanno bisogno di un dj o di un chitarrista per le ore piccole». Decise di mantenersi distaccato, ma il suo tono suonò forse troppo orgoglioso quando ribatté: «Niente. Qualche linea di febbre». Peccato però che subito dopo un nuovo accesso di tosse gli tolse il fiato.
«Sei ridotto veramente male» osservò Lillie, premurosa. Per la prima volta il suo tono non era tagliente o sarcastico «Hai… bisogno di qualcosa?», si decise ad aggiungere, esitante.
«No» fu la secca risposta, che subito la indusse a scattare: «Cafone che non sei altro!», tuonò, sbattendo giù la cornetta.
Indispettito, Haku digrignò i denti. Quella ragazza riusciva sempre, in un modo o nell’altro, ad avere l’ultima parola! E per giunta con lui, con il terribile delinquente temuto e rispettato da tutti!
«Che vada…» ringhiò, voltandosi su un fianco e cercando di riprendere sonno.
Al terzo squillo del telefono rispose quasi urlando: «Che cosa c’è?!», e per la seconda volta Lillie si infuriò: «Allora sei proprio un villano!» lo insultò «Volevo portarti una scatola di aspirine, ma visto che la tua gentilezza rasenta quella di Girolamo credo proprio che non mi disturberò ad uscire all’ora di pranzo. Anzi, sai cosa ti dico? Tu e Girolamo potreste essere parenti: vi assomigliate in tutto e per tutto!». E riagganciò.
Se Haku avesse potuto guardarsi allo specchio, mentre fissava con aria ebete il telefono, sarebbe scoppiato a ridere. Rimase così qualche minuto, pensando al da farsi.
In fondo, rifletté, era stato veramente sgarbato. Lillie si era preoccupata per lui, sapendolo malato. Avrebbe voluto richiamarla, tanto più che le aspirine gli avrebbero fatto comodo: la scatola vuota abbandonata per terra gli fece pulsare più forte il violento mal di testa. Trovò solo un’ultima pastiglia, che buttò giù con un sorso di whisky, e mezz’ora dopo si alzò barcollante e si appollaiò sul davanzale interno della finestra.
Adorava quella nicchia: era accovacciato lì quando aveva scritto i suoi racconti e le sue canzoni più belle. Nella scarsa luce che entrava dalle imposte accostate vide la sfavillante chitarra elettrica bianca e nera, che gli aveva regalato due anni prima il suo migliore amico Asso. Asso, che si era trasferito a Mosca a causa dell’università, e che lui non vedeva da mesi. Prese la chitarra, la collegò all’amplificatore, la accordò e cominciò ad improvvisare col volume basso. Aveva scelto un giro di accordi minori, molto tristi, e intanto lasciava scorrere lo sguardo oltre il vetro sporco della finestra, lungo le tegole dei tetti vicini.
Da lassù Pietroburgo sembrava non esistere: solo tetti e comignoli a perdita d’occhio, e le strade delle nuvole che attraversavano il pezzetto di cielo azzurro.
Gli venne spontaneo mettersi a cantare parole inventate sul momento, dolci e malinconiche. Le dita si muovevano istintivamente lungo le sei corde, traendone morbidi suoni che abbracciavano la rauca canzone appena composta.
Non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimase così, perso nel suo canto. E nessuno l’aveva mai sentito cantare così, nemmeno al karaoke: lì doveva essere grintoso e scatenato. Perfino i blues alla Taverna dei Rimpianti non erano così pieni di sentimento.
Quando l’eco dell’accordo finale si spense tra le strette pareti dell’attico, la voce di Lillie parve emergere da un mondo dimenticato: «Sei bravissimo» sussurrò, come temendo di rompere l’incanto «Vorresti cantare ancora qualcosa, per favore?».
Era lì, dietro di lui, seduta sull’orlo del divano. Tra le mani aveva un sacchetto da farmacia, bianchissimo nella luce che entrava dalla porta aperta. Haku la studiò diffidente, con gli occhi socchiusi: gli sembrava irreale, un’allucinazione, e tuttavia riprese a cantare con quella voce rara e pensosa. Un brano che aveva scritto parecchi mesi prima, una romantica ballata di pochi accordi. Lillie lo ascoltava, giocherellando con una ciocca di capelli, e teneva gli occhi chiusi. Vederla così, una presenza inaspettata nella sua stanza, gli diede uno strano senso di familiarità.
Anche quella canzone finì, e nella semioscurità spiccavano solo i riflessi lucidi della chitarra e il sacchetto della farmacia.
«Grazie» dissero ad una voce sola. E indovinarono, più che vedere, il reciproco sorriso.
Dopo un breve silenzio Haku si alzò e aprì le finestre, lasciando entrare il tiepido sole di maggio, e si giustificò a disagio: «La mia casa è proprio un porcile, non l’ho curata per niente in questi ultimi giorni», e Lillie ribatté, pronta: «Non è poi molto diversa da quella di Girolamo». Sogghignò, certa di aver segnato un altro punto, quindi si avviò verso la porta. «Cerca di guarire presto» gli disse «Così potrai dedicarti alle grandi pulizie. Grazie per le canzoni, comunque: ne avrei ascoltate volentieri altre, ma per Dylan è quasi ora di fare il sonnellino».
«Chi ti dice che avrei cantato ancora?» la rimbeccò lui, cercando almeno per una volta di avere l’ultima parola, ma Lillie fu decisa: «L’avresti fatto».
E Haku non poté darle torto.

Il venerdì successivo l’attico era perfettamente lindo e ordinato, dopo un lavoro di tre giorni. Dalle finestre ora sempre spalancate entrava l’aria pulita, e perfino il sole sembrava più luminoso riflesso dalle lenzuola bianche appese ad asciugare.
Haku non aveva quasi avvertito la sua solitudine, tanto era stato impegnato a riassettare, e non se la prese nemmeno quando Andrej gli annunciò in tono contrito che il Super Star non avrebbe riaperto che la settimana seguente. Aveva tutto il tempo che voleva per guarire del tutto e godersi le mura di casa per scrivere qualche nuovo racconto. Anzi, decise: sarebbe tornato al Silent Hill quella sera stessa, a gustare un altro boccale di quella squisita birra irlandese.
Nel pomeriggio ebbe la – piacevole – sorpresa di sentir bussare alla porta, e poté mostrare orgogliosamente a Lillie la sua tana completamente trasformata.
Gli ci volle qualche minuto, però, per accorgersi che la sua nuova amica sembrava triste e nervosa. «Girolamo?» le domandò incerto.
Lei gli rivolse un lungo sguardo mesto, scuotendo la testa. «Moonlight» rispose. Allo sguardo interrogativo di lui spiegò: «Ha trovato un’altra ragazza, e sembra deciso a stare con lei. Non ti sembra ridicolo? Quando l’ho conosciuto si era invaghito di me, ma io avevo occhi solo per Girolamo. E ora…» si fermò, con un nodo in gola «…e ora sono io che lo cerco, ma di me non gli importa più niente!».
Haku si stupì: «Moonlight? Lo conosco, è un mio amico! Non sapevo che ci fosse – o ci fosse stato – qualcosa tra di voi: non l’ho mai sentito nominar…». Si bloccò di colpo, maledicendosi: che stupido! Ci mancava solo quello! Dirle chiaro e tondo che Moonlight si curava di lei così poco da non nominarla nemmeno! «Scusami» balbettò, impacciato.
Ma Lillie aveva capito, e la cosa non le era nuova. Un’ondata di tristezza parve sommergerla, e il silenzio che cadde come un coperchio di piombo offuscò la lucentezza della giornata ormai estiva.
Haku cominciò a misurare la stanza ad ampie falcate, a disagio, fino a quando un’idea gli si delineò nella mente. «Forse…» bisbigliò, troppo piano per essere udito. Si schiarì la voce e riprese: «Forse se tu fingessi di aver trovato qualcun altro lui si ingelosirebbe e tornerebbe a cercarti, piuttosto che rischiare di perderti. Hai molti spasimanti al Silent Hill: possibile che nessuno di loro ti vada a genio?».
Lillie negò con il capo, e lui azzardò, sperando di non fare un’altra delle figuracce che con lei sembravano all’ordine del giorno: «Potremmo provarci noi due» disse, spaventato dal suo stesso ardire «Per finta, s’intende. Potrei scriverti, ad esempio, qualche finta lettera, potremmo fingere di uscire insieme… insomma, fingere che ci sia del tenero tra me e te».
Lillie abbozzò un sorriso, che subito si fece malizioso: «Vorrei aver contato le volte in cui hai detto fingere» scherzò «Non sono dura di comprendonio, anche se sono più vecchia di te». Meditò qualche istante, e giunse alla conclusione che se avessero giocato bene le loro carte, forse poteva esserci ancora qualche possibilità. C’era solo un problema: Moonlight sapeva bene quanto Haku avesse amato Estel. Avrebbe potuto credere alla loro recita?
Lillie si rinfrancò: «Te ne sono grata». Per tutta risposta, Haku corse alla scrivania e ammiccò: «Mi metto subito all’opera». Prese un foglio di carta da lettere e stappò una boccetta di inchiostro, quindi lucidò diligentemente un pennino d’oro. Incuriosita, Lillie gli si avvicinò e commentò: «Mi stai già scrivendo una lettera? E con pennino e calamaio, per giunta? Nessuno l’aveva mai fatto, prima!» «Per finta» sottolineò involontariamente Haku, ma lei non lo ascoltò nemmeno e continuò, imperterrita: «Devi essere proprio un esperto, non ho mai visto un mancino scrivere a inchiostro senza fare sbavature sul foglio!».
Lui mordicchiò pensierosamente il manico della penna: sembrava uno scolaretto durante il compito in classe. I folti capelli biondi, liberi dalla brillantina, lo infastidivano: li tirò distrattamente all’indietro, rivelando un’espressione enormemente concentrata, quindi si mise a scrivere rapidamente, nascondendo la visuale con l’altra mano.

Mia cara Lillie,
ormai da qualche giorno usciamo insieme. Non so nemmeno io perché ti sto scrivendo queste poche righe, e forse non te le consegnerò mai, è come una sorta di diario.
Ho imparato a conoscerti da poco, eppure mi sembra di averti incontrata da una vita: i momenti che trascorro con te sono le oasi felici della mia vita solcata da troppi rimpianti, e non appena giunge l’ora di tornare a casa già sento la tua mancanza.
Sei come un raggio di sole dopo una spaventosa bufera, e con i tuoi sorrisi sei riuscita a chiudere le ferite che Estel mi ha inferto quasi tre mesi fa. Lo confesso: da quando hai iniziato a far parte della mia vita i tredici mesi passati con lei mi sembrano solo un ricordo sempre più sbiadito: com’è possibile? Credevo che mai niente e nessuno avrebbe potuto spazzare via quel temporale… e ora tu, solo con la tua presenza, sei stata in grado di fare molto di più.
Non vedo l’ora di poter incontrare ancora i tuoi occhi…

Rilesse attentamente le righe vergate nella sua più elegante calligrafia quasi ottocentesca, attese che l’inchiostro si asciugasse e consegnò la lettera con aria solenne, cercando di scusarsi: «Per il momento spero che questo vada bene: purtroppo non ho una grande ispirazione, ultimamente».
Lillie si era seduta sul divano, e scorreva la breve lettera con le labbra dischiuse in un sorriso tramante. La lesse due, tre, quattro volte, tanto che l’autore cominciò ad innervosirsi: cosa poteva esserci di sbagliato? Fu tentato di ripetere: «È una finta», ma non voleva farsi prendere in giro. Non l’avrebbe sopportato: aveva scritto con una spontaneità unica, e se lei l’avesse sbeffeggiato… Distolse gli occhi, fingendosi interessatissimo ad un passerotto che saltellava curioso oltre la finestra aperta.
Lillie parlò a bassissima voce, ma quelle parole gli si impressero nella mente come un marchio rovente: «È… stupenda. Haku, sei dolcissimo…».
Solo allora si arrischiò a guardarla, e sorrise timidamente: «Davvero?» farfugliò «Io… grazie. Spero che funzioni» «Mi è venuta un’idea» esclamò lei, riponendo con cura – con molta cura – la lettera nella borsa «Questa sera il Super Star è chiuso, no? Potrei prendermi una serata libera al Silent Hill, chiedere a Moonlight di uscire, magari insieme ad altri tuoi amici, e “casualmente” mi siederei vicino a te…» «E io ti terrò abbracciata tutta la sera» concluse Haku a mezza voce, dissimulando subito l’enormità appena pronunciata aggiungendo: «O perlomeno quando fingerò di non notare che Moonlight ci guarderà».
Lillie pensò molto a lungo, soppesando ogni ipotesi possibile, e infine disse con la voce ovattata: «E se aspettassimo? Voglio dire: una lettera e un’uscita insieme nello stesso momento? Credo sia meglio diluire con calma gli indizi che semineremo, in modo da non fargli sospettare niente». Haku tardò qualche secondo di troppo ad annuire, ma era voltato di spalle e parve concentrato a riporre il materiale da scrittura. «D’accordo» sospirò «Limitiamoci a qualche passeggiata per il centro. Io chiederò a Moonlight di trovarci qualche sera a bere qualcosa e gli parlerò di te, e tu farai lo stesso con gli altri tuoi amici. Staremo a vedere cosa succederà, anche se sono certo che piuttosto di rischiare di perderti Moonlight abbandonerà tutte le sue donne. Ora: hai impegni oggi pomeriggio?».
Disinvolto e serafico: così lo vide Lillie. E chissà, magari quello scherzo avrebbe potuto realmente sortire l’effetto desiderato. «L’unico impegno che ho è uscire con te» sorrise «Così finalmente potrò presentarti mio figlio».

Lillie avrebbe ricordato per sempre il primo incontro di Haku e Dylan, quel pomeriggio.
Stava camminando verso la piazza principale di Pietroburgo spingendo il passeggino, e già da distante aveva intravisto il suo complice. Appoggiato al muro, con i capelli pettinati all’indietro e gli occhi verdi pieni di sfida, jeans laceri e una maglia leggera a maniche lunghe. La somiglianza con Girolamo, notò, era di nuovo molto evidente, ma certo Haku non lo faceva di proposito. Decise quindi di evitare il discorso, ma annotò mentalmente: «Devo convincerlo almeno a cambiare pettinatura».
Sulle prime Dylan fu molto timido: osservava circospetto quel nuovo amico della sua mamma, e non gli toglieva mai di dosso gli occhi scuri. «Però» furono le prime parole di Haku «Si vede che è proprio tuo figlio: vi somigliate moltissimo!». Lillie, lusingata, rivelò: «Lo dicono tutti… con gran rabbia di suo padre».
Cominciarono dunque la loro tranquilla passeggiata, sostando per mangiare un gelato e attraversando il centro chiacchierando come due amici che non si vedono da anni.
Le persone che conoscevano l’uno o l’altra li guardavano senza riuscire a nascondere il loro stupore. E loro, ben consapevoli, rispondevano candidamente ai saluti cercando di nascondere un sogghigno; poi, appena voltato l’angolo, scoppiavano a ridere facendosi notare a vicenda: «Hai visto come ci ha guardati?» «Era bianco come un cadavere!» «Si è perfino voltata perché non credeva ai suoi occhi!».
Non c’era nemmeno il pericolo che la presunta notizia arrivasse alle orecchie di Girolamo: tutti, a Pietroburgo, avevano così paura di lui che non si sarebbero mai sognati di cercarlo. Piuttosto, compativano colui che già era stato individuato come il nuovo ragazzo di Lillie, e i più sfacciati – cioè quelli che conoscevano la fama nera dei Delacroix – spettegolavano: «Quella ragazza ha un’autentica passione per i malviventi».
Già dopo mezz’ora, Dylan aveva iniziato a rispondere ai sorrisi di Haku: di tanto in tanto lo sbirciava da sotto il tettuccio del passeggino, e lui si metteva a fare un sacco di smorfie per farlo ridere. «Gli stai proprio simpatico» non faceva che ripetere Lillie, stupita.
Nei giorni successivi, dopo altre passeggiate e qualche breve sosta sotto casa dell’uno o dell’altra, Haku si affezionò moltissimo a Dylan, sebbene molto spesso i suoi occhi diventassero di un verde più cupo: gli si leggeva fino in fondo all’anima la straziante nostalgia per sua figlia. Sebbene evitasse perfino di nominarla, era palese quanto dolce e triste fosse per lui coccolare un bambino di appena tre mesi più grande della sua Elisabeth. In quei momenti perfino Lillie taceva, lasciando che fosse suo figlio a gestire la scena.
Sembrava che Dylan captasse la malinconia di Haku: ogni volta che gli era in braccio sorrideva radioso e gli circondava il collo con le braccia, oppure si rannicchiava con la testa su una sua spalla e rimaneva così, ad occhi chiusi. Atteggiamento questo che riservava esclusivamente alla mamma e alla nonna, ma solo Lillie lo sapeva.
Spesso si sdraiava sul letto a guardarli giocare, e fin da subito si era resa conto che Haku non era certo il teppista fuorilegge del quale indossava la maschera. Indubbiamente era cresciuto solo, sfiduciato e diffidente, ma nemmeno la durissima vita di strada e la mancanza di una famiglia avevano scalfito la sua dolcezza. Le veniva la tentazione di abbracciarlo, di dirgli qualcosa, ma sapeva che lui si sarebbe di nuovo chiuso nel suo guscio irto di spine. Passando le ore con lui si era resa conto di quanto il suo cuore si indurisse di fronte a qualsiasi tenerezza: l’aveva visto parlare al telefono con il suo patrigno, e di nuovo le aveva riportato alla mente l’aria superba di Girolamo.
Eppure, accovacciato sul tappeto con Dylan in braccio, era irriconoscibile.
Perfino la madre di Lillie lo vedeva di buon occhio. Aveva sempre avuto in odio tutti gli amici e le amiche della figlia, che la guardavano con soggezione e timore, ma quel figlio di nessuno a volte la inteneriva. Sulle prime era stata guardinga: la sua storia si avvicinava troppo a quella di Girolamo, ma già dopo qualche ora lo rivalutò radicalmente. Era solo, decise, un ragazzo cresciuto troppo presto e troppo abbandonato a se stesso, ma non per questo un pericoloso criminale. Anzi: era educato, gentile e silenzioso, tanto che a volte nemmeno si accorgeva della sua presenza al tavolo in cucina. Arrivava sempre in bicicletta, senza mai chiedere passaggi in macchina a Lillie – cosa che tutti gli altri facevano, con suo enorme disappunto –, rincasava presto e già molte volte si era dimostrato disponibile a dare una mano: fosse portare fuori il cane, correre in farmacia se Dylan prendeva l’influenza, passare dal supermercato poco distante e un’infinità di altre piccole cose. Lo faceva e basta, senza cercare di mettersi in mostra, lui stesso sorpreso dalla sua innaturale docilità. E poi, Dylan lo adorava.
Ormai era diventato di casa nella famiglia di Lillie, e lui non perdeva occasione di passare qualche ora in compagnia senza però essere onnipresente. Quell’inaspettata serenità lo stava tirando fuori dal gorgo di alcol e notti infinite in cui si era volutamente lasciato andare. Parlava sempre meno di Estel, aveva ripreso a studiare diligentemente per gli esami all’università – ne aveva lasciati indietro parecchi, ma li stava preparando con un impegno invidiabile – e, soprattutto, aveva ripreso a scrivere racconti e a comporre canzoni. Perfino i romantici biglietti che provvedeva a presentare a Lillie quasi ogni giorno, come uno studente consegna i compiti al professore, non erano mai stati così ispirati.
Un pomeriggio, finalmente, la loro recita per irretire Moonlight poté contare su un atto fondamentale: la vittima designata si presentò a casa di Lillie, ed esordì dicendo con una punta di irritazione: «È da giorni che cerco di passare di qua, ma vedendo sempre la bicicletta di Haku quaggiù ho dedotto che aveste di meglio da fare». Haku fece per ribattere, ma gli mancò la voce e dovette stare zitto, abbassando lo sguardo. Lillie non esitò ad intervenire: «Hai ragione» mormorò in falso tono contrito «Sai com’è… sono così presa da questa faccenda che, lo ammetto, vi ho trascurati un po’ tutti». Si sedette di fianco al suo complice, rendendosi conto fin da subito che qualcosa in lui non andava: sembrava irrequieto e cauto.
Haku notò la sua occhiata perplessa, e subito parve riaversi: le passò un braccio sulle spalle, sfiorandole la fronte con un bacio, e sussurrò: «Non riesco a credere che sia toccato proprio a me».
Moonlight indugiò solo pochi secondi a guardarli, dopodiché si strinse nelle spalle: «Volevo chiedervi di uscire, qualche sera, in compagnia. Non sono riuscito a rintracciarvi prima perché eravate sempre fuori. Cosa ne dite di sabato, dopodomani? Possiamo andare in qualche bar del centro, prima che voi due iniziate a lavorare». Haku fece mente locale: «Sabato sarà il 9 giugno, vero? Credo proprio di poter andare al Super Star un’ora dopo, certamente Andrej potrà sostituirmi. Per quanto mi riguarda, ci sto». Anche Lillie acconsentì, e Moonlight se ne andò soddisfatto.
Troppo soddisfatto, notarono entrambi: il loro teatro sembrava non averlo smosso più di tanto. Haku sbottò: «Io e te abbiamo molti amici comuni. Frizz, Mary… sicuramente ci saranno anche loro, venerdì sera. E se una scena come quella di oggi è servita così poco…» «Adesso proprio basta» lo interruppe Lillie, depressa e arrabbiata «Mi ha stufata. Facciamo pure un ultimo tentativo, dopodomani, ma se dovesse fallire anche questo non voglio più saperne di lui!». Si fermò per riprendere fiato e concluse: «Hai recitato bene, lo sai?».
Lui si sedette sul letto, in silenzio, pensando freneticamente ad una risposta da dare.
Come dire che era stufo di quella messinscena? Come dire che quell’istante così tenero non era premeditato?
E soprattutto, come dire che l’indifferenza di Moonlight aveva suscitato in lui una ventata di gioia?

Sabato sera arrivò prestissimo. La notte prima, al Super Star, Haku finse di essere ancora debilitato. Andrej si offrì spontaneamente di gestire da solo la serata successiva, tanto più che doveva ancora ricambiare al collega un paio di analoghi favori.
Nel pomeriggio Lillie approfittò del sonnellino di Dylan per correre a casa sua a stabilire gli ultimi dettagli dell’atto decisivo… ma finirono per non parlarne che di sfuggita.
Haku era appena uscito dalla doccia: i capelli biondi gli coprivano completamente il viso, e prima che lui potesse pietrificarli nella lacca Lillie propose: «Posso… provare a tagliarteli? Sono capace, ti puoi fidare». Trasandato com’era, lui non ci pensò due volte. «Fa’ pure come preferisci» concesse, sedendosi su una sedia «Al massimo posso sempre tagliarli cortissimi con il rasoio». Non era stato sgarbato, ma assolutamente identico a Girolamo l’estate precedente: anche lui si era rasato come un militare, e con la stessa macchinetta che Lillie aveva ancora nel bagagliaio dell’auto e che ora si era precipitata a recuperare.
Haku liberò il tavolo dalle pile di libri di latino e letteratura e si preparò, mite, a lasciarla fare.
Fin da subito lei dimostrò di sapersela cavare egregiamente: dapprima gli dissipò tutti i nodi, lasciando i capelli lisci e morbidi, quindi cominciò a tagliarne lunghe ciocche sulla nuca. Così facendo scoprì un ciuffo più lungo degli altri, e si stupì: «Avevi il codino?». Haku esitò: «Mesi fa… sì» mormorò «Me l’ero lasciato crescere come un marchio di fabbrica mio e di mio fratello. Poi non mi sono più curato i capelli, e il codino è scomparso… lascialo lì, comunque».
Lillie ubbidì: raccolse il ciuffo a treccia per tenerlo separato dagli altri, in silenzio, ma si vedeva che moriva dalla voglia di chiedere: «Hai anche un fratello?». Haku la prevenne: «Lo conosci sicuramente, mi ha parlato di te. Dralbij. Non è esattamente un fratello di sangue…». Pensò qualche istante, studiando i capelli tagliati che cadevano sul pavimento, quindi spiegò meglio: «Siamo stati nello stesso orfanotrofio di Liverpool, Strawberry Fields. Quando aveva otto anni è stato adottato da una ricca famiglia russa, e nello stesso periodo io sono fuggito da quel posto. Meglio la strada, mi dicevo, che Strawberry Fields. Per anni ci siamo persi di vista, per poi ritrovarci casualmente quassù, a Pietroburgo. Abbiamo scoperto che, pur non essendoci più visti né sentiti, avevamo lo stesso passato alle spalle, gli stessi interessi, lo stesso modo di fare… perfino una calligrafia così simile che a volte nemmeno noi stessi riuscivamo a riconoscerla. Poi… qualche mese fa, ossia dopo… dopo che Estel mi ha lasciato, io ho lasciato perdere tutto e tutti. Abbiamo litigato ferocemente: lui era il bravo ragazzo, studioso e beneducato. Io il vagabondo, il violento, l’alcolizzato. Abitavamo insieme, fino a quando sono scappato per trasferirmi qui, e da allora non l’ho più visto. Né lo voglio rivedere» precisò, chiudendo i pugni «All’epoca io non ero quello che sono diventato: gestivo insieme a lui un coro parrocchiale, ero l’unico chitarrista ed ero benvoluto da tutti. A volte tornavo a casa, dopo il sabato notte in giro, e senza nemmeno andare a letto andavo subito a messa. Fino a quando ha incominciato ad essere strano: aveva un amico misterioso, con il quale passava sempre più tempo. Non si faceva sentire per giorni interi, se andava via con lui, e quando l’ho affrontato a muso duro non ha battuto ciglio. La situazione si è fatta sempre più tesa e insopportabile, fino a quando una sera non l’ho più sopportato: ho raccolto tutto in un paio di valigie, ho preso le chitarre e gli ho detto che da quel momento si sarebbe arrangiato per tutto. E lui? “Va bene”. È stato il suo unico commento: per Dralbij non faceva differenza che io ci fossi o no, non gli è mai importato niente di nessuno. Gli bastava vantarsi di essere il capo di un coro, con la sua vita e i suoi interessi ormai completamente diversi dai miei. Da allora ho lasciato il coro e mi sono rifugiato qui. Dralbij non mi ha mai cercato».
Lillie sarebbe stata tentata di dirgli: «Eppure gli dispiace», ma tacque e continuò a tagliargli i capelli senza aprire bocca. Dralbij era suo amico, si erano visti anche pochi giorni prima. Ed era sì dispiaciuto per l’accaduto, ma – come aveva detto Haku – se la cavava benissimo anche solo con la sua indifferenza.
«Ho finito» disse infine, scompigliandogli i capelli ormai asciutti. Glieli aveva tagliati molto corti dietro, lasciandoli però lunghi e spioventi sulla fronte. Non era mai stato pettinato così, ma stava veramente bene. Non glielo disse, sebbene fosse certa che la sua espressione compiaciuta parlasse per lei.
«Ora sono proprio pronto per uscire stasera» decretò Haku «Giocheremo le ultime carte. Per quanto mi riguarda, sono pronto a tutto».
E così, dopo mesi di eremitaggio, Haku si ritrovò di nuovo fuori con gli amici di un tempo. Mary fu felicissima di vederlo e corse subito ad abbracciarlo, notando con la consueta aria materna che le aveva fatto guadagnare il meritato soprannome di Mamma Chioccia: «Sei dimagrito tantissimo… e scommetto che è tutta colpa di quella maledetta Estel. Te l’avevamo sempre detto tutti quanti che sarebbe stata pronta ad abbandonarti…» «…così come è stata pronta a tradirmi mille volte» ringhiò lui «Lo so. E non voglio più saperne di lei. Tornerà un giorno? O non la vedrò mai più? Preferisco evitare di pensarci: tutto quello che desidero è riavere mia figlia… ma lei crescerà chiamando “papà” quel lombrico di Maksim, le insegneranno ad odiarmi, e per il momento io non posso farci niente».
Era tornato ad usare il consueto tono duro e spavaldo.
Si sedettero intorno ad un tavolino – Lillie era di fianco a lui – e cominciarono una partita a briscola, chiacchierando e ridendo. Soltanto Moonlight se ne stava in disparte: aveva davanti una pila di lettere, tutte delle sue numerose ragazze, e stava rispondendo con flemma e quasi indolenza, con enorme fastidio dei due cospiratori.
Almeno, così si dicevano a occhiate.
Il discorso, tra una partita e l’altra, sfiorò ancora una volta Estel, per poi puntare decisamente verso Dralbij, ma in entrambi i casi Haku fece l’indiano o rispose a taglienti monosillabi. Mary tentò anche di parlare di Girolamo, ma stavolta fu Lillie a zittirla, così lei protestò: «Non ci si vede da settimane, e voi tre non parlate nemmeno!» «Concordo» si aggiunse Frizz, che fino a quel momento aveva solo ascoltato i dialoghi «Potremmo almeno cambiare bar…».
Erano al Billiard Room, il più vicino al condominio di Lillie, in modo che lei potesse essere subito a casa qualora Dylan si fosse svegliato. Lei glielo spiegò distrattamente: teneva gli occhi puntati su Moonlight, e sembrava volerlo strangolare da un momento all’altro.
Mary si alzò e andò ad accomodarsi vicino ad Haku, supplicandolo: «Sei ancora capace di fare le coccole come due anni fa? Sono così giù di corda…». Lui ubbidì e si mise a passarle delicatamente le dita sulla nuca, pensando suo malgrado alle innumerevoli volte che Estel gli si era rilassata accanto, esattamente in quella posizione. Scosse la testa e incrociò lo sguardo di Lillie, che li osservava incuriosita. Aveva visto già altre volte Dylan rimanere immobile quando Haku lo teneva in braccio accarezzandolo così, e l’espressione beata di Mary sembrava confermare una straordinaria abilità che ancora una volta contraddiceva l’apparenza poco raccomandabile. Si irritò: così rischiava di saltare tutto il loro piano! Moonlight sembrava del tutto disinteressato, ma sarebbe stato sciocco rovinare così l’ultima possibilità.
Stava ancora rimuginando quando Mary le suggerì: «Prova a sederti al mio posto…», e lei non se lo fece ripetere. Haku trasalì impercettibilmente, ma fu rapido a dissimulare: «Siamo stati così per ore, ieri sera!» gemette, mettendosi all’opera.
Lillie improvvisamente tacque, fissando nel vuoto, tanto che tutti si preoccuparono. Un attimo dopo si abbandonò completamente tra le braccia di Haku, che titubante si lasciò andare: le accarezzava dolcemente la schiena e i fianchi, cercando di non tremare e odiandosi per quell’incertezza. Mary ridacchiò: «Signori, questa è una data da segnare in rosso sul calendario!» esclamò «La nostra Lillie è riuscita a tacere per più di cinque minuti consecutivi».
Moonlight sorrise: un sorriso privo di rancore. «Sono contento per loro» disse, sereno «Li vedo bene insieme».
Haku non reagì, sebbene qualcosa avesse guizzato dentro di lui. Abbracciò Lillie, sentendola accomodarsi meglio contro di lui, e decise: almeno per quella manciata di secondi poteva permettersi il lusso di lasciarsi andare ad una parentesi di dolcezza.
Le mani di lei erano inerti sulle sue gambe, a pochi centimetri dalle sue. Si vide nell’atto di prenderla per mano e sorriderle… e già stava per farlo quando tornò improvvisamente in sé. Cosa avrebbero pensato gli altri? Cos’avrebbe fatto lei?
La malinconia di una fredda e vuota realtà lo travolse. Abbassò la testa per nascondere gli occhi che gli si intristivano sempre di più, e si appoggiò impercettibilmente con le labbra tra i capelli di Lillie, che non si mosse. Vedendoli così, Mary e Frizz rimasero come paralizzate, e perfino Moonlight rimase confuso.
Ma loro, ciechi e sordi al resto del mondo, non se ne curavano più.
E rimasero così fino a quando, poco dopo l’una, il padrone del bar li avvertì: «Ragazzi, devo chiudere…».
I cinque si avviarono attraverso la piazza ormai deserta: Frizz verso la sua macchina, Moonlight verso la sua insieme a Mary… e, mezzo passo più indietro, Haku e Lillie ancora l’una stretta all’altro.
Si augurarono la buonanotte, sempre distanziati dalle altre. «Vieni a casa con me…» sussurrò Lillie, in una recita che ormai sembrava sempre più vera. «D-domani» balbettò lui «Domani sera verrò a casa tua…». Il suo imbarazzo era penoso, non si era mai sentito così insicuro e impacciato. Desiderò per un attimo poter fuggire a casa, nella sua tana sicura, lontano da quella recita o illusione o qualunque cosa fosse.
«Ci conto» fece lei, scostandogli i soffici capelli dagli occhi «A domani sera».

Haku rimase sveglio a lungo, quella notte, cercano risposte a domande che nemmeno riusciva a delineare. Perché Lillie si era comportata così? Fino a che punto la sua era finzione? O forse si stava immaginando tutto? Una cosa gli appariva crudelmente chiara: dovevano finirla. L’idea che Moonlight potesse veramente tornare con lei gli sembrava intollerabile, così come sapeva di non poter sopportare un’altra serata come quella appena trascorsa. Avrebbe fatto meglio a sparire dalla circolazione, prima di ferirsi ancora.
Aveva ripreso a dormire sul letto, abbandonando il divano. E lì, sul comodino, c’era una foto che ritraeva lui insieme a Estel, con la loro figlia in braccio. Calciò il lenzuolo in fondo al letto, si alzò e prese in mano il portafoto, tremando, quindi lo ripose in fondo ad un cassetto, seppellendolo sotto una pila di magliette.
Era l’ultimo ricordo concreto che ancora conservava di Estel: aveva bruciato tutto la notte stessa in cui lei se n’era andata, ma non poteva bruciare l’unica foto di sua figlia.
Seguitò a rigirarsi sul letto per più di un’ora, nel silenzio della notte, poi decise di telefonare ad Andrej: erano le due e un quarto, doveva avere appena finito la serata al Super Star. Attese fino quasi alle tre, calcolando il tempo necessario a spegnere tutto l’impianto e tornare a casa, quindi compose rapidamente il numero. Almeno avrebbe avuto altro a cui pensare, e la scusa di chiedere come fosse andata la serata gli appariva perfetta.
Andrej rispose al primo squillo, agitatissimo: «Ti stavo per chiamare» esclamò «Capo, se tu fossi venuto al Super Star avresti fatto un infarto, come minimo. Non devi più tornarci! Indovina…»
«È tornata Estel» lo interruppe lui in tono piatto. Se lo sentiva, aveva avuto il presentimento già qualche settimana prima. Quell’incubo non poteva essere finito: ora lo aspettavano eterne nottate in quel locale, con lei e Maksim davanti… e non era certo di riuscire a controllarsi per molto. Rischiava di assassinarli, o perlomeno di finire in guai seri con la legge. In fondo, calcolò rapidamente, i soldi della paga gli servivano per i suoi svaghi personali: Norbert Oldfield era ben felice di pagargli l’università così come aveva fatto per i suoi veri figli, e provvedeva ad inviargli ogni mese un assegno abbastanza consistente da permettergli di gestire tranquillamente l’appartamento. Essendo solo, poi, mangiava poco. Nessun problema, quindi, a rinunciare a cassette di birra e bottiglie di liquori: poteva fare a meno dei soldi del Super Star.
«Ci sei?» Andrej lo strappò ai suoi conti «Sesto senso? O ti è già arrivata la notizia? Sì, è tornata. Con il verme al seguito. Ti hanno cercato, ma non ho detto nulla di più del fatto che non lavoriamo più insieme e che non ti sentivo da mesi. Pensa: avevo appena finito di cantare uno dei miei pezzi forti, mi sono girato e me la sono trovata davanti. Istintivamente ho pensato… che potessi esserci anche tu».
Haku si accasciò contro il muro. «Non voglio più saperne niente» mormorò «Voglio solo andare avanti come ho sempre fatto prima di lei. Ora ho…». Si fermò appena in tempo e si affrettò a soggiungere: «Niente, niente».
Salutato l’amico, rimase ancora seduto a lungo senza cambiare posizione. Cosa gli era saltato in mente di dire? «Ora ho la possibilità di tornare a vivere»? Il pensiero di Lillie lo fulminò, facendogli socchiudere gli occhi al ricordo di quell’abbraccio… e poi la soluzione gli apparve, nitida.
Gliel’avrebbe detto.
E poi sarebbe fuggito, accodandosi a qualche carovana di nomadi diretta verso la Siberia, o facendo ritorno in Inghilterra. «Domani sera» disse ad alta voce «Domani sera cercherò di parlarle».
Dormì poco e male, svegliandosi di soprassalto, certo almeno una volta di aver gridato nel sonno: «Lillie!». Si alzò per chiudere la porta, temendo che lei decidesse di fargli un’improvvisata, e poi altre tre volte per controllare. Gironzolò per la casa, giustificandosi con se stesso: «Il rubinetto del bagno perde» «Ho sentito un rumore» «Credevo stesse per piovere». Ma aveva aggiustato il rubinetto, certo non temeva intrusioni da parte di ladri che ben lo conoscevano, e dall’abbaino della camera si intravedeva un cielo straordinariamente stellato. Si sentiva patetico, ridicolo, e la cosa lo seccava.
Il giorno dopo, domenica, le ore sembravano non passare mai. Rimase a vagabondare per Pietroburgo tutto il pomeriggio, mangiando svogliatamente un panino seduto nel parco pubblico, fingendo di guardare i negozi traboccanti dei vivaci colori estivi. Ora di sera era così sfibrato da tutta quella tensione che si sentiva pronto ad affrontare qualsiasi cosa. Inforcò la bicicletta e partì diretto verso le estreme periferie della città.
Lillie lo stava aspettando sotto casa, e appena lo vide arrivare lo rimproverò: «Credevo non venissi più! È da questa mattina che ti cerco» «Eravamo già d’accordo, no?» grugnì lui, evitando il suo sguardo. Quel nuovo taglio di capelli era comodo: poteva nascondersi dietro la frangia quando voleva.
Salirono in casa in punta di piedi, dato che Dylan era già addormentato, e si accomodarono sul divano, davanti a un film.
Haku, per il momento, dovette desistere: molto meglio fingersi interessato alla televisione e architettare il suo discorso fin nei minimi dettagli.
Le varie ipotesi gli si affollavano caotiche nella mente: non voleva essere brutale, e nello stesso tempo si diceva che comunque a Lillie non sarebbe importato più di tanto che lui ci fosse o no. Soltanto il giorno prima erano arrivati a un passo dal litigare, dopo che lui aveva rubato del vino in un supermercato. «Se avessi voluto qualcuno come Girolamo» gli aveva urlato, sprezzante «Avrei tenuto l’originale».
Si erano riappacificati, e ora stava per andare tutto a catafascio. No, non poteva uscirsene con quel discorso così all’improvviso! A quel punto poteva solo sperare che tutto, in un modo o nell’altro, si risolvesse: era sufficiente smetterla di recitare il ruolo del “nuovo amore” di Lillie, per quanto quel copione di tenerezze gli risultasse meraviglioso.
Il film era ormai quasi finito, e nella casa si udiva solo il respiro di persone in un sonno profondo.
Lillie si voltò verso Haku, avvicinandosi di qualche centimetro, e sussurrò: «Mi accarezzi la schiena come hai fatto ieri sera? Sei bravo…» «Eh?» gracchiò lui, del tutto impreparato «Ma non c’è Moonlight che…».
Ma già non esisteva più il confine che si era imposto. Lei era lì, accanto a lui, con la schiena esile segnata da piccoli fremiti sotto le sue dita. «Ha ragione Mary: hai un’abilità innata» la udì bisbigliare «Non l’avrei mai detto, quando ti ho incontrato, che sapessi essere così dolce». Haku non riuscì a rispondere, troppo concentrato sul tremore che gli percorreva il corpo come una scarica elettrica.
Di nuovo le domande: «Perché si comporta così?», ma stavolta le ignorò.
O forse non ebbe tempo di pensarci: rilassata, Lillie gli si rannicchiò tra le braccia, posandogli la testa sul petto. Indovinò il suo sorrisetto quando commentò con una punta di canzonatura: «Perché tremi e il cuore ti batte così forte?». Haku la abbracciò meglio – aveva rinunciato a parlare, dato che non osava nemmeno respirare – e appoggiò circospetto il viso su quei lisci capelli rosso cupo, temendo chissà quale reazione che invece non venne.
Lo schermo della televisione ormai proiettava solo i titoli di coda del film, bianchi sullo sfondo nero, e la cucina-salotto era quasi completamente immersa in una silenziosa oscurità.
Haku e Lillie, abbracciati sul divano, sembravano non far caso più a niente. Si scambiavano di tanto in tanto qualche timida carezza, temendo entrambi di compiere un passo falso come due scalatori di fronte alla più ripida salita. Per un istante le loro mani si incontrarono e rimasero immobili, con quell’enorme incertezza che a poco a poco si faceva sempre più lontana. Cosa importava della realtà? A loro bastava stare così, in quel momento.
Invece, un attimo dopo, un rumore dalle camere da letto li fece sobbalzare. Qualcuno stava ciabattando nel corridoio. Lillie balzò in piedi e si diede un gran daffare a riporre il film nella sua custodia, mentre Haku parve interessatissimo ad un nodo che gli si era formato sui lacci delle scarpe. Riuscì a recuperare la sua consueta faccia tosta solo evitando lo sguardo torvo che la madre di Lillie rivolse loro da sotto i capelli rossi. «Mezzanotte è passata» buttò lì in tono vago «Il 10 giugno è finito, quindi oggi è il compleanno di Moonlight: dobbiamo fargli gli auguri…».
Lillie lo sorprese con quel suo ostentato entusiasmo: «Giusto! Facciamo così: ti do un passaggio fino a casa, in macchina, e prima ci fermiamo da lui a portargli il regalo. Sono certa che sarà ancora al bar sotto casa sua a festeggiare, sicuramente lo troveremo sveglio». In un attimo corse in camera ad accertarsi che Dylan continuasse a dormire, quindi prese le chiavi e, spingendo Haku fuori dalla porta, salutò la mamma promettendo: «Sarò di ritorno tra pochi minuti».
Confusi come due scolaretti colti a marinare le lezioni, i due sorrisero divertiti nel buio delle scale. «Non è successo niente», continuava a ripetersi Haku. E nel frattempo si sforzava in tutti i modi di evitare gli occhi scuri di Lillie, che alla pallida luce di un lampione appena fuori dalla porta sembravano sfavillare soddisfatti. Lei lo oltrepassò con un vago sorriso sulle labbra, sfiorandogli non del tutto involontariamente una mano, e sussurrò: «Dobbiamo fare presto. Mi raccomando: continua con la recita!».
Di colpo la realtà lo travolse: recita? Aveva veramente capito bene? Il cuore che sembrava volargli via rallentò rapidamente i battiti emozionati, mentre l’orgoglio gli suggeriva di mantenersi impassibile. Tuttavia, la sua risposta suonò debole e stonata: «Come vuoi».
Moonlight non abitava molto distante, eppure i cinque minuti di strada in macchina sembrarono molto più lunghi. Cosa doveva succedere? Forse Moonlight, vedendo concretizzarsi l’eventualità di perdere Lillie, era pronto a prenderla tra le braccia… Haku deglutì: non poteva fare nulla. Non aveva alcun diritto, né – ormai ne era convinto – possibilità.
Quando varcarono la soglia cercò di immaginarsi nei panni del protagonista di uno dei suoi racconti: «Questa non è la mia vita…» pensò, guardando le due figure davanti a lui.
«Scusa il ritardo» stava dicendo Lillie, porgendo a Moonlight un sacchetto verde «Per fortuna mia madre si è alzata proprio dieci minuti fa, e ci ha… diciamo… interrotti. Avevamo perso completamente la cognizione del tempo, e nemmeno ci siamo resi conto che il film che stavamo guardando era finito».
Fu un attimo: Haku le fu accanto in due passi, le sfiorò la nuca con una carezza e sorrise. «Se Dylan dovesse fare un sonnellino abbastanza lungo, verrai da me» azzardò «Così staremo tranquilli qualche minuto. Soli!». Le prese una mano, e lei gli appoggiò la testa su una spalla. Moonlight distolse lo sguardo, ma non sembrava particolarmente seccato.
Di nuovo in macchina, ma non c’era più traccia del mesto silenzio di poco prima: i due complici discutevano la situazione. «Non sembrava interessato» «Addirittura giurerei di averlo visto contento» o «Meglio così».
Fino a quando, davanti al cantiere abbandonato di Via dei Fiori Bianchi, Haku perse d’un tratto tutta la sua consueta spavalderia. «Moonlight non si sarebbe mai azzardato a fare o dire nulla, così di fretta. Domani stesso sono certo che verrà a cercarti: abbiamo vinto noi, è caduto nella trappola!». Lillie spense la macchina, facendo sembrare il silenzio quasi una presenza concreta, e attese un istante prima di rispondere a bassa voce: «Non mi interessa. È troppo tardi». Prima di lasciargli il tempo di aggiungere altro, gli rivolse un sorriso dolce e timido e mormorò: «Sono stata bene con te, stasera. Buonanotte, tesoro…».

Haku si rannicchiò sul divano, incapace di prendere sonno. Da due ore si rigirava tra le lenzuola, attribuendo l’insonnia al caldo di quella notte di giugno, ma anche davanti alla finestra spalancata sull’aria fresca di stelle continuava a sentirsi irrequieto. Fino a che punto poteva farsi illusioni? Aveva la netta sensazione che, qualora si fosse lasciato andare, lo schianto contro la realtà sempre così crudele con i suoi sogni l’avrebbe stroncato in un solo colpo. Poteva solo aspettare l’indomani, stare all’erta e chiudere il cuore a qualsiasi filo di speranza. «Non hai sofferto abbastanza?» sbottò rivolto alla sua stessa ombra «Devi ancora riprenderti dalla catastrofe che hai passato, e già vuoi rischiare di nuovo?». Rabbiosamente stappò una bottiglia di birra gelata e ne ingoiò due sorsate, fissando lo schermo spento della televisione.
Tesoro… Sono stata bene con te…
Perché quelle poche parole lo perseguitavano così? «Non posso trascorrere tutta la notte a ripetermi le stesse sillabe» si impose «Chiunque uscirebbe di senno!». Finita la birra, gettò distrattamente la bottiglia sotto il divano e tornò tra le lenzuola stropicciate.
Un attimo dopo, all’idea che l’indomani Lillie avrebbe potuto entrare in casa sua, tornò in salotto e portò la bottiglia nelle immondizie, e solo dopo aver sprimacciato il cuscino e piegato i vestiti accartocciati in fondo al letto riuscì a prendere sonno.
Sognò la realtà: lei appoggiata a lui, il morbido contatto dei suoi capelli sulla guancia, quelle incerte carezze sul braccio, le loro mani unite e quell’inaspettata buonanotte.
Cullando Dylan, anche Lillie inseguiva analoghi pensieri. Rivedeva l’espressione malinconica e incerta di Haku, e per la prima volta quegli occhi non le parvero sfacciatamente uguali a quelli di Girolamo. Sembrava, decise sorridendo di quel paragone, un gattino spaventato che soffia e graffia coraggiosamente. La tenerezza che aveva dimostrato poche ore prima non aveva niente a che vedere con l’atteggiamento da delinquente. Con un sospiro depose Dylan nella sua culla e si sdraiò, osservando i fasci di luce che dal lampione davanti a casa si infilavano tra le fessure della veneziana. Chissà cosa stava facendo lui in quel momento, si sorprese a pensare. Dormiva nel suo solitario appartamento di periferia, o come lei non riusciva a prendere sonno?
La domanda che teneva svegli entrambi era la stessa: quella breve parentesi di dolcezza si basava su qualcosa o si era trattato solo di un caso isolato? La notte e l’attesa del giorno sembravano interminabili.
Il giorno seguente, tuttavia, riuscirono a vedersi solo qualche minuto in presenza di Moonlight: tentare qualsiasi discorso era impossibile, e dovettero limitarsi alla consueta recita… che era sempre meno una finta. Moonlight, vedendoli sempre così presi da una dolcezza eccezionalmente insolita da parte di entrambi, domandò perplesso: «Sembrate proprio una coppia appena formata. Da quanto state insieme?».
Haku e Lillie si scambiarono un involontario sguardo interrogativo, tanto breve quanto magnificamente eloquente. E poi lui la prese tra le braccia e dichiarò, baciandole la fronte: «Dalla sera del 10 giugno».
La notizia saettò rapidamente sulle bocche di tutti coloro che li conoscevano, e inevitabilmente nell’ambiente del Super Star iniziarono circolare diffusissime dicerie: «Lo fa per dimenticare Estel» «Si è messo con la persona sbagliata: se il padre del bambino lo sapesse, sarebbe una catastrofe» «Si è fatto almeno una dozzina di nemici: quante persone, stregate dal fascino di Lillie, vorrebbero stare al suo posto?».
Haku, ignaro di tutto, si era rinchiuso in casa a preparare gli esami per la sessione estiva. Non aveva molte materie da studiare, ma voleva mantenere la sua media valida per guadagnarsi la borsa di studio. Cercava di finire di studiare il prima possibile, in modo da non dover rinviare eventuali appuntamenti con Lillie.
La loro messinscena, nel frattempo, aveva sortito il suo effetto. Moonlight si presentò quel pomeriggio a casa di Lillie, dando voce a tutte le ipotesi che giravano sul loro conto: «Non ti sembra strano che dopo appena tre mesi si sia dimenticato di Estel? Vuole usarti per farla ingelosire e convincerla a tornare da lui! Se ci riuscisse, non esiterebbe un istante ad abbandonarti». Lei lo lasciò parlare, come già aveva fatto con Mary la sera prima, dopodiché ribatté asciutta: «E a voi non è passato per la mente che potesse essere lo stesso da parte mia? Non potrei anch’io avere le stesse mire? Chissà quante persone, ora, gli stanno dicendo le stesse cose. E se anche fosse: lui è il grande dj del Super Star, osannato e circondato da decine di ragazze. Perché mai avrebbe dovuto ricorrere proprio a me, che ho un figlio e… e tutto il resto? Perché stare con me, se non per qualche sentimento ben preciso?». Si era convinta lei stessa, e quando si intestardiva su un’idea nessuno sarebbe riuscito a dissuaderla.
Moonlight lo sapeva, e fu costretto a capitolare. Era stata Mary a consigliargli cosa dire, e aveva avuto ragione sull’esito del discorso. Entrambi, si dissero, avevano cercato in tutti i modi di dissuaderla quando due anni e mezzo prima aveva detto di essersi innamorata di Girolamo Di Santo, e ora si stava ripetendo tutto uguale. Su una scala più pericolosa.
Un paio di pomeriggi dopo, Lillie salì frettolosamente in macchina diretta verso Via dei Fiori Bianchi. Non vedeva l’ora di raccontare ad Haku quanto era successo.
Lui le aprì la porta preoccupato: non la aspettava e temeva che fosse successo qualcosa di brutto. Indossava solo un paio di jeans tagliati sotto il ginocchio, e aveva ancora la mano sinistra bloccata sulle corde della chitarra elettrica: doveva essere nel pieno di qualche sua composizione.
Lillie fece un passo avanti e lo rassicurò: «Avevo voglia di vederti, tutto qui», ma non poté impedirsi di lasciar scorrere lo sguardo sulle sottili cicatrici che gli spiccavano bianche sulle spalle. «Vecchie risse di quand’ero un piccolo vagabondo di Liverpool» si giustificò lui, e appoggiata la chitarra sul divano si infilò rapidamente una maglietta.
Come se fosse la cosa più naturale del mondo tornò ad avvicinarsi a lei e la salutò con un frettoloso bacio su una guancia. «Stavo rispolverando qualche vecchia canzone» spiegò «Lo ammetto, oggi non ho ancora aperto un libro di scuola, e…».
Si interruppe di colpo, incrociando lo sguardo di Lillie che sembrava celare vampe di fuoco dorato. Poi lei, circospetta eppure decisa, gli stampò un bacio a fior di labbra, a costo di indietreggiare subito dopo.
Haku chiuse gli occhi e rimase immobile, con la netta sensazione che le porte di qualche paradiso segreto gli si spalancassero davanti. Com’è difficile afferrare i sogni quando sono a portata di mano!
Lillie, rasserenata, lo prese in giro: «Ho avuto l’ultima parola senza bisogno nemmeno di parlare?», e lui sospirò senza rispondere. Sorrideva, però, e lasciando da parte le incertezze le accarezzò i morbidi capelli rosso scuro. A cosa sarebbero servite le parole in un momento come quello?
Rimasero qualche minuto immobili, tenendosi per mano in silenzio, mentre mesi e mesi di tristezza e buio sembravano dissolversi come nuvole dopo un acquazzone estivo.
«Avremo parecchie persone contro» osò Lillie «Per il momento, dobbiamo fare in modo di non farci scoprire da troppa gente». Haku, vinto, lasciò cadere il macigno: «Non mi importa niente di niente. Mi basta… stare insieme a te».
L’avevano detto, e ora studiavano le reazioni reciproche come due comandanti militari durante una battaglia. Reazioni che non lasciavano spazio ad alcun dubbio. Si abbracciarono forte, come se così potessero escludere dal loro nuovo mondo appena scoperto tutto il male della realtà, e per pochi secondi fu come volare al di sopra di tutti i loro dispiaceri passati.

* * *

Griša rimase interdetto: era già finito? Non si era immedesimato in ciò che leggeva: era la sua storia, la sua vita, inestricabilmente legata a quella di Haku. Il suo più caro amico, come estremo tributo, gli aveva regalato un libro che qualcuno aveva stroncato.
Ora ne era certo: tra Haku e Lillie andava tutto bene. Forse Girolamo li aveva scoperti, e quella era la soluzione più credibile.
«No» disse «Un momento». Era entrato di nascosto in casa di un ragazzo assassinato, se qualcuno l’avesse scoperto lì avrebbe passato dei guai, ma ormai era perso nelle sue elucubrazioni: «Questa storia si ferma all’inizio. Perché Haku non ha più scritto una sola riga?». Esplorò tutte le cartelle del computer, e non poté non notare un particolare: l’unica foto di Haku e Lillie insieme risaliva a un anno prima. Tutto, a ben vedere, sembrava cristallizzato a quasi un anno addietro! Ma allora, cos’era successo? Si erano lasciati da tempo, e Haku raccontava un’enorme bugia? E se sì, per quale motivo?
Griša prese il diario e sfogliò rapidamente le pagine fitte di parole fino a due giorni prima. Lì doveva esserci la chiave di tutto, ma non voleva intromettersi così spudoratamente. Haku gli aveva sempre raccontato ogni cosa, e doveva aver avuto ottimi motivi per deviare la verità così clamorosamente: e lui non poteva permettersi la libertà di entrare così a fondo nei suoi segreti. Era ancora in tempo per distruggere il diario, e presentarsi nel pomeriggio al funerale come se niente fosse.
D’un tratto vide il trasportino di Dwimmerlaik appoggiato vicino alla porta. Non l’aveva notato prima, era l’unica spiegazione, anche perché gli si gelava il sangue nelle vene al pensiero che potesse essersi materializzato lì mentre era assorto nella lettura.
«D’accordo, amico» giurò, rivolto alla presenza invisibile che palpitava nella stanza «Mi prenderò cura di Dwimmerlaik, porterò a casa anche la tua chitarra, e farò in modo che nessuno mai sappia la verità».
Ora sì che era terrorizzato. Aveva parlato come rispondendo a una domanda impossibile, sentiva che era proprio ciò che Haku gli aveva chiesto di fare, stava ubbidendo agli ordini di un fantasma. Tremando, con la fronte imperlata di sudore freddo, rinchiuse il gatto nel trasportino e il diario sul fondo del suo zaino. Con una chitarra su una spalla e l’altra a tracolla, lo zaino voluminoso e Dwimmerlaik al seguito poteva sembrare un giovane vagabondo come tanti altri che attraversavano Pietroburgo.
Scese i gradini più in fretta che poteva, e come se avesse già pianificato tutto corse lungo Via dei Fiori Bianchi, con un’unica meta inchiodata in mente: il suo vecchio appartamento a Domland.


Griša di nuovo a Domland

Polvere, luce impolverata del pomeriggio, i mobili coperti dai teli bianchi, le impronte delle sue scarpe sul parquet grigio e opaco. Ma era pur sempre casa, la sua casa, e Norbert doveva aver già provveduto a fargli riallacciare la corrente elettrica, l’acqua e il gas, altrimenti ci sarebbe stato il generatore nello scantinato: meno male che lui, a differenza di Haku, aveva abitato al pianterreno.
Per prima cosa, Griša liberò Dwimmerlaik per l’appartamento e depositò i bagagli in salotto. Ora aveva fretta solo di sprofondare sul divano, nel silenzio, e leggere attentamente tutta la verità. Giù a valle, il campanile batteva mezzogiorno: colpi lenti, regolari, da funerale, che più tardi sarebbero stati ancora più cupi.
«Dicembre 1977» cominciò, deciso.
Haku si era ormai assuefatto alle domeniche pomeriggio insieme alla famiglia di Girolamo, così come non faceva più caso alle continue ingiurie rabbiose di Lillie: erano entrambe situazioni spiacevoli, ma che in fondo gli tornavano utili come esperienze di vita. Soffriva così tanto, senza darlo a vedere a nessuno, che anche le più banali sciocchezze gli apparivano svaghi divertentissimi, e mai come ora era attento alle più piccole cose in grado di rasserenarlo. Quando Lillie, imprecando con gli occhi colmi di odio, gli urlava addosso sfogando tutto il suo nervosismo, lui si limitava ad abbassare la testa e cercare di svicolare più silenziosamente possibile. Quando si trovava seduto allo stesso tavolo della famiglia mafiosa stava zitto, con lo sguardo a terra, pensando discretamente agli affari suoi. In entrambi i casi, impaurito, si sforzava di non attirare l’attenzione, sperando di finire dimenticato in qualche angolo tranquillo.
Soltanto a casa sua, quando era certo che nessuno potesse scoprirlo, si lasciava andare: cadeva sempre più spesso preda di crisi di panico, e tentava di calmarsi solo quando si era sufficientemente sfogato. Il cuscino intriso di lacrime e il letto sfatto erano le sole prove del suo stato d’animo sempre più vicino all’imbocco di un tunnel senza via d’uscita. Poi, scivolando irreversibilmente verso una disperazione ogni volta più profonda, si dedicava all’unica attività per la quale ancora non aveva perso l’attitudine: cantare. Aveva a disposizione tutte le basi per karaoke sgraffignate al Super Star, e poteva passare ore intere davanti al computer sordo a tutto il resto. Era ormai un caso più unico che raro vedergli la chitarra tra le braccia, eccetto per la messa alla domenica mattina, o sentirgli dire di avere scritto un nuovo racconto. Il suo ultimo libro era stato il terribile ma celeberrimo Oltre il tramonto, già definito da tutti coloro che l’avevano letto “il capolavoro finale” che era riuscito a superare la vetta fino a quel momento incontrastata di colossi come Story X o Another Life. Lui avrebbe voluto scrivere ancora, non poteva negarlo: almeno un vero “capolavoro finale”, che avrebbe simbolicamente intitolato Il canto del cigno. Ma la sua vena creativa si era irrimediabilmente danneggiata, inaridendosi per sempre. Non era più capace di fare nulla: scrivere, disegnare, dipingere, comporre, perfino cantare erano semplici verbi nella sua vita priva di colori. E dire che la prima canzone che aveva scritto per Lillie si intitolava proprio Pennellate! Perfino l’arte che le aveva dedicato gli si ritorceva contro!
Peggio ancora, a forza di sentirsi considerare un inutile ignorante incapace, si era persuaso di esserlo veramente. Se Lillie lo umiliava davanti a tutti, lui non ci faceva più caso: aveva ragione lei. Poteva solo essere felice di frequentarla ancora, limitandosi ad un amore invisibile che non lasciava spazio a baci, carezze e parole affettuose. L’idea di essere ancora insieme gli era rimasta e aveva imparato a farsela bastare: almeno, avendo a che fare con lei, poteva sperare di esserle ancora utile. Lui solo, tra centinaia di persone che Lillie frequentava, poteva stare con Girolamo senza timori. E, in effetti, Girolamo Di Santo lo lasciava relativamente indifferente: era Lillie il suo terrore. Il suo amore terrificante.
Negli ultimi giorni qualcosa sembrava essersi smosso tra loro. Di punto in bianco, condensando sei mesi disperati in poche efficacissime parole, Lillie aveva osservato: «Tu sei sempre gentile con me, e io ti tratto malissimo. Proverò a rimediare…». Haku non aveva commentato: non ci credeva, ma dimostrarsi scettico era il modo più sicuro per scatenare l’ennesimo litigio. Molto più semplice annuire e sorridere come faceva sempre. Le parole dolci che Lillie aveva ripreso a dirgli gli scivolavano addosso, incapaci di scalfire il suo guscio disilluso, e in ogni caso non era mai andata oltre. Haku sapeva benissimo che le sarebbe bastata una carezza per abbattere le sue barriere, che un abbraccio l’avrebbe stordito di piacere, che solo stando seduto sul divano accanto a lei e tenendola per mano avrebbe fugato tutti i suoi terrori di essere solo l’ultimo numero nella lista delle sue conquiste. Non era più nemmeno sicuro di ricordare cosa volesse dire baciarla, e al resto non riusciva più a pensare neanche sforzandosi volontariamente. Soprattutto, non era più abituato a teneri epiteti e frasi gentili: quando Lillie gli si era rivolta chiamandolo “cucciolo”, lui si era guardato intorno perplesso senza capire a chi mai fosse riferita quell’insolita parola.
In fondo, aveva deciso, la cosa migliore che poteva aspettarsi da Lillie era l’indifferenza. La rabbia lo atterriva e la dolcezza lo metteva a disagio. Uscire insieme in caso di necessità. Ormai si era persuaso: la loro non era una storia, ma un vuoto simulacro buttato lì per chissà quale motivo.
Haku viveva solo quando era a casa di Girolamo. Solo lì sapeva di svolgere la sua unica funzione, essere utile a Lillie, ed era giunto alla conclusione che se fosse riuscito a distogliere l’attenzione di lui da Lillie e Dylan avrebbe trionfato nel suo compito.
Per quello aveva preso l’abitudine di portare con sé ogni volta qualcosa di diverso, fosse anche solo un disco o un videogioco. Era molto discreto anche quando si distraeva con qualche componente della famiglia, e si era accorto di quanto Girolamo fosse incuriosito da lui ma troppo altezzoso per farsi avanti.

«E questo sarebbe il diario?» mormorò Griša «Ha scritto tutto in terza persona, come se si trattasse soltanto di un racconto!».
Ecco che una verità ben più credibile dell’idillio difeso da Haku veniva a galla come un cadavere nell’acqua: altrochè storia felice! Forse, però era davvero solo un racconto, e doveva solo andare avanti: «Agosto 1977».
Che dalla tragica notte del suo ventesimo compleanno Haku fosse profondamente cambiato, quello era palese. Silenzioso, triste e deluso, aveva rinunciato a lottare e lasciava che i mesi gli scorressero davanti in qualche modo, eternamente ossessionato all’idea che anche l’ultima speranza di ritrovare il caldo amore di Lillie scomparisse nel nulla. «Siamo insieme» pensava miliardi di volte al giorno per rassicurarsi, ma sempre più spesso sbatteva contro la durezza di quel sentimento sempre più simile ad una bugiarda illusone.
Ma dopo l’orribile sera di novembre in cui, anche se solo per qualche ora Lillie l’aveva lasciato, anche l’ultima fievole scintilla di vitalità si era definitivamente spenta in lui. Mangiava sempre meno, soffriva di incubi notturni e riusciva a rimanere tranquillo solo ricorrendo a psicofarmaci sempre più forti; peggio ancora, si sentiva in dovere di rendere conto alla sua crudele padrona di ogni suo minimo spostamento, fosse anche uscire a fare la spesa o scendere nella sala prove, da cui difficilmente riusciva a sentire lo squillo del telefono. Bastava che qualcuno gli capitasse in casa senza essere invitato per fargli perdere il controllo: avvertiva Lillie angosciato, giustificandosi: «Non aspettavo nessuno, te lo giuro, sono venuti solo per salutarmi». Presto anche gli ultimi amici l’avevano abbandonato, stanchi di veder cadere inascoltati i loro consigli.
E Haku, ora completamente solo, lasciava che i giorni lo consumassero pian piano nell’attesa di parole che, per quanto lui ci sperasse, sapeva che non sarebbero mai arrivate.

«Mi rifiuto di crederci» balbettò Griša «Si sono messi insieme il 10 giugno, e già dalla fine di luglio andava tutto a rotoli! Non capisco questa storia: Haku conosceva Girolamo? Si frequentavano? Faceva parte delle malavita pietroburghese? Gennaio 1978…».
Niente e nessuno avrebbe sospettato la distruzione totale che si svolgeva come una feroce battaglia nell’animo di Haku: esteriormente era sempre il solito, appena un po’ più magro e pallido, con gli occhi grandi e tristissimi che diventavano spaventati e al contempo adoranti quando era in presenza di Lillie. Tranquillo e silenzioso, la seguiva dovunque come il più fedele dei suoi servitori, abituato ad essere strumentalizzato come tutti i suoi colleghi innamorati di sua morosa, e si limitava a scomparire discretamente alla sua vista ogni volta che la vedeva più nervosa del solito. Aveva provato a ribattere, cercando timidamente di parlarle, ma lei l’aveva trafitto con uno sguardo così carico di odio che gli aveva troncato le parole in gola. Non aveva più osato obiettare niente, e ogni volta che lei iniziava a insultarlo e umiliarlo davanti a tutti stringeva i denti e abbassava la testa per impedirsi di reagire alla vista dei sorrisi sarcastici che lo circondavano.
Non aveva mai avuto una grande stima di sé, e ora si era convinto di essere un perfetto imbecille. Spesso era così terrorizzato dalle reazioni rabbiose di Lillie che non riusciva nemmeno ad articolare un discorso coerente, e la cosa non faceva che peggiorare ultimamente la situazione.
Era giunto ad una conclusione: stare sempre zitto, ubbidire a qualsiasi ordine, abbassare la testa alla pioggia di ingiurie e irrisioni. Lillie, aveva deciso, considerava tutti i suoi spasimanti semplici strumenti buoni per qualsiasi circostanza: Fester per le spese più grosse, Moonlight e Willy per i giorni più noiosi, e tutti gli altri a seconda delle circostanze. Lui le tornava buono quando si trattava di portare Dylan da suo padre, e nessuno poteva affrontare il terribile Girolamo.
Non si sentiva più amato e desiderato: quel tempo era finito già sei mesi addietro. Cosa mai gli aveva fatto pensare che le cose potessero risistemarsi? Quella grande storia era stata solo un fuoco di paglia, e lui ci aveva in un certo senso rimesso le penne: era psicologicamente annientato. Anche se non ne parlava con nessuno, aveva un solo desiderio: farla finita. Nel modo più rapido e silenzioso possibile. Aveva rinunciato a tutto il suo mondo credendo che la realtà insieme a Lillie sarebbe stata qualcosa di meraviglioso, e si era ritrovato distrutto. Non era più in grado nemmeno di rinchiudersi dietro le barriere della sua fantasia: aveva dimenticato tutto.
Mai come quel giorno si era sentito a terra, e la cosa peggiore era che a nessuno sarebbe importato della scomparsa di un idiota. Ammesso che qualcuno se ne accorgesse.
Accese il computer e selezionò le sue canzoni preferite: se ne sarebbe andato ascoltando la musica, la sua unica compagnia. Provò a scrivere un racconto di addio, ma non era più capace di comporre una sola riga.
Davanti a sé aveva solo un foglio muto e bianco: perfino la sua arte gli aveva voltato le spalle. Nel cassetto della scrivania aveva una provvista di sonniferi…
…li ingoiò tutti con una lunga sorsata di birra ghiacciata, e si sdraiò sul letto. Aveva indossato i suoi vestiti migliori: jeans larghissimi, una maglia a collo alto e il maglione che lui e il suo migliore amico Asso si erano comprati, uguale, l’ultimo anno del liceo. I capelli spettinati gli ricadevano morbidi sugli occhi, ma gli davano quell’aria al contempo trasandata e sperduta che tanto era piaciuta a Lillie. All’inizio.
Aveva sonno, un gran sonno, e freddo. Ormai il più era fatto, e non gli era nemmeno costato fatica. Debolmente si avvolse nel plaid che teneva in fondo al letto e si accomodò, ascoltando per l’ultima volta la sua canzone preferita…

Griša sentì che un lacrimone infuocato gli premeva dietro le palpebre serrate. Sì, ora aveva capito tutto: quella situazione orribile era uguale all’inferno che gli aveva fatto passare Estel, solo in un tono più leggero. E se lui aveva rischiato di finire male per il disastro con lei, Haku era ammirevole per aver tenuto duro un anno intero.
Lillie lo odiava e lui stava con lei solo per paura. Aveva passato gli ultimi mesi della sua vita in mezzo ai mafiosi, alla peggior malavita di San Pietroburgo. E, invece di sentirsi grande e forte per avere amici così rispettati e temuti, si era lasciato sottomettere da Lillie che – così trapelava da quel diario di prigionia – doveva essere ancora più terrificante della famiglia Di Santo. O forse era l’amore allucinato di Haku a tenerlo legato a quell’ambiente? Era tutto così incredibilmente contorto!
Quella del 1977 era stata, per Haku, l’estate più dura della sua vita. E aveva passato anni tremendi, crescendo tra l’orfanotrofio e i bassifondi di Liverpool… con la sola differenza che allora non aveva il cuore fracassato di delusione, rabbia e sfiducia. Un sentimento mostruoso gli si ingigantiva dentro da settimane: era un orribile cacofonia di sensazioni logoranti che, a poco a poco ma inesorabilmente, avevano strappato da lui ogni cosa. Non era più un sognatore, un artista, uno studente innamorato: chiunque incrociasse il suo sguardo di smeraldo vedeva l’espressione folle e gonfia di dolore di un animale da circo. Lo zimbello, il fenomeno da baraccone di colei che amava di un amore che mai prima aveva provato. Colei che prima gli aveva regalato lo stupore di una storia così bella e inaspettata da sembrare un sogno, e poi l’aveva relegato in un infimo angolo della sua vita fino a dimenticarsi completamente di lui. E lui, impazzito dalla disperazione, ancora non si era deciso a lasciarla: gli bastava sapere di essere ancora insieme a lei, e affrontava a testa bassa – ormai per inerzia – ogni tormento. Centinaia di serate rannicchiato per terra, in un angolo, mentre lei passava le ore al telefono con l’uomo che le pagava da vivere e con tutti coloro che volevano averla per sé, prima di addormentarsi senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Centinaia di biglietti e telefonate risolti nel silenzio. Centinaia di rabbiose risposte: «Non ho tempo per te, ora!» «Lo capisci che è un periodo invivibile?». Lui niente: incassava i colpi e taceva. Soltanto una volta aveva ribattuto: «Ma per Girolamo, Fester e Moonlight hai sempre tempo e parole gentili!», e la cosa era sfociata in un litigio (l’ennesimo, ormai aveva perso il conto) feroce.
Che cosa ancora li teneva uniti? O meglio: insieme?
Settembre era finito, e con ottobre la vita quotidiana ricominciava: Haku non vedeva l’ora di riprendere l’università, trascorrere giornate intere impegnato fuori da Pietroburgo insieme ai suoi compagni di corso. Stava perdendo il dominio di sé trascorrendo ore ed ore chiuso nella sua camera, aspettando invano che lei si facesse sentire.

Ogni breve racconto ripeteva l’incubo di stare insieme o meno. Dunque, Haku stava con Lillie senza sapere nemmeno quanto c’era di vero in ciò che lei gli dava ad intendere? Dal canto suo, lui sarebbe fuggito a gambe levate da una tortura simile, e molto prima di finire così imprigionato. Scosse la testa per allontanare il velo di disperazione che aleggiava sulle pagine sgualcite e gli toglieva il respiro.
Sabato sera.
Haku, appollaiato sulla scalinata del ponte che collegava le due metà di Domland, osservava afflitto le auto che scorrevano sull’asfalto bagnato di pioggia, i cui fari non giungevano ad illuminarlo. Sicuramente quasi tutti i guidatori erano in compagnia, diretti verso locali e discoteche, a godersi il meritato svago dopo tutta una settimana di studio o lavoro. Era davvero stato anche lui come loro? A volte faticava a ricordarlo.
Non gli era concesso nemmeno di fare una passeggiata di qualche minuto con gli amici di un tempo: il sabato sera fuori era un lusso che aveva imparato da subito a lasciar perdere. Col risultato che da dieci mesi la sua vita si svolgeva tra Domland e l’università a San Pietroburgo, e il suo unico svago era la scuola. Lì poteva stare con i suoi compagni, chiacchierare, studiare in compagnia e soprattutto tirare il fiato: ormai la sua storia con Lillie si trascinava avanti solo per paura. Era terrorizzato da lei, dal potere totale che si era presa sulla sua vita: un minimo sgarro ai suoi voleri sarebbe stato come firmare una condanna a morte, si sarebbe ritrovato in men che non si dica accerchiato da tutti i mafiosi e gli zingari della Russia con le rivoltelle spianate.
Invidiava i suoi colleghi, che raccontavano di esilaranti serate in compagnia, ma si consolava pensando: «Se fossi uscito con loro, Lillie mi avrebbe fatto ammazzare, e ora non sarei qui». Quante volte aveva disdetto incontri serali con gli amici, riunioni del liceo o semplici passeggiate! E sempre senza nemmeno farne parola con Lillie, per non rischiare di finire nei guai. Stava semplicemente con lei, portavano fuori il cane insieme, poi lui tornava a casa e si sfogava a scrivere l’angoscia della sua prigionia; oppure andava a letto subito, coprendosi la testa con il cuscino per non sentire le voci festanti di suoi coetanei giù in strada. Spesso Lillie non gli rivolgeva nemmeno un saluto, quando uscivano col cane: era sempre arrabbiata con sé e con il mondo, depressa e per questo ancora più pericolosa: la cosa più saggia da fare – Haku ci aveva messo un po’ a capirlo, incredulo davanti ad un’assurdità del genere, ma alla fine si era reso conto di avere davanti quell’unica opzione – era stare zitto a sua volta, rimpiangendo in silenzio la vita che aveva assaggiato prima. Libero, famoso, ambito dalle ragazze, divertente… ora non lo considerava più nessuno. Tanto, avevano detto tutti, lui non sarebbe più uscito con loro. Ed era meglio non inimicarsi Lillie, se si teneva alla pelle.
Così anche quella sera, come tante altre, Haku stava andando da lei tristemente, chiedendosi: «Per cosa mi insulterà, stasera?».
Era meglio così, dopotutto. Molto meglio che Lillie lo considerasse un povero scemo, un cicisbeo totalmente assoggettato a lei, che gli urlasse e bestemmiasse addosso per qualunque cosa. Aveva imparato a temere le sue – fortunatamente rare – attenzioni, le carezze, i baci e le parole romantiche: dietro si era sempre celato un tranello, e lui preferiva vedere Lillie furibonda piuttosto che rientrare nel suo campo di pensiero.
Sempre più di frequente, al sicuro nella sua stanza, con l’unica compagnia del gatto accovacciato sul cuscino, si scopriva a immaginare come sarebbe stata la sua vita se Lillie l’avesse lasciato amichevolmente. Lui avrebbe potuto di nuovo frequentare chiunque e qualsiasi posto, sarebbe tornato a sorridere, anestetizzando l’inevitabile dolore – le voleva ancora bene, suo malgrado – riassaporando il gusto quasi dimenticato di una vita normale. Ma lei non l’avrebbe mai fatto, certamente: lui le serviva per un unico motivo, fondamentale. Solo lui poteva accompagnarla da Girolamo, tenere Dylan in macchina, frequentare il terribile boss mafioso senza nulla da temere. Per il resto, era solo lo scendiletto di Lillie, ma nel fine settimana era anche colui che le evitava di litigare con Girolamo e con sua madre.
«È dunque così che sarà la mia vita?» sussurrò, con un nodo in gola, rivolto alla pioggia che gli faceva luccicare gli occhi «Ci sarà mai una via d’uscita?».

«Basta, basta, basta» gemette Griša «Non è vero niente, sono solo racconti! Non può esistere una cattiveria simile, mi rifiuto di credere che sia questa la realtà!». Si teneva la testa stretta tra le mani, rannicchiato sul divano, e non voleva saperne più niente. Quando mai aveva preso quell’agenda!
Per quella che gli sembrò un’eternità rimase fermo, respirando a fondo, con le prove di quell’orrore strette in mano. Una stilla di razionalità cercava di farsi valere: «Haku viveva solo, non aveva che i compagni dell’università come amici. Mettiamo che effettivamente le cose tra lui e Lillie siano andate male: non può avere ingigantito tutto? Lei era la sua ragazza, stavano insieme, e almeno su questo non c’erano molti dubbi; ma allora non può averlo trattato così male! Se l’avesse lasciato, Haku sarebbe rimasto al suo fianco per aiutarla nei finesettimana con Girolamo, e sarebbe poi stato libero di bighellonare libero per tutta la settimana, giusto?». Un miagolio di Dwimmerlaik fu la risposta; il gatto gli si strusciava sulle gambe, spingendo con la testa l’agenda. «Ti manca Haku, vero?» gli chiese, prendendolo in braccio «Anche a me, e non sai quanto».
Dall’ultima pagina dell’agenda sporgeva un foglio accuratamente ripiegato.
Griša l’aveva appena notato, e lo sfilò febbrilmente dalle pagine. Prima ancora di leggerlo, aveva la certezza che non fosse un altro racconto veritiero ma l’autentica voce di Haku trascritta nelle sue ultime righe.
Con questo posso dirmi soddisfatto.
Le cose con Lillie si stavano appianando, ultimamente. Non risolvendo, quello mai, ma almeno la vita non era più così insostenibile: chiacchieravamo, uscivamo insieme alla sera e facevamo spesso una passeggiata a Pietroburgo nel pomeriggio. Forse davvero era stata male per la presenza di Girolamo. Stava male, la depressione stava già vincendo, ma all’ultimo momento è riuscita ad uscirne: chi poteva impedirci di tornare ai vecchi tempi, ora?
Ero pronto a dimenticare con un bacio tutto l’inferno che mi ha fatto vivere per dieci mesi, a tenerle nascosta la disperazione che mi sta logorando un po’ alla volta come un’incurabile malattia, a fidarmi di nuovo ciecamente di lei come se nulla fosse mai accaduto.
Mi viene in mente Griša, nel suo periodo più brutto insieme a Estel. Si era abituato alle cose peggiori: la vedeva andare via con altri, spudoratamente, accettare le proposte del primo arrivato (e di tutti i successivi, ovviamente), viveva nell’ansia che lei da un giorno all’altro scomparisse con la loro bambina… e, in effetti così è stato.
Ma allora perché la sua disavventura sembra così leggera in confronto a quello che sto passando io? È lui ad essere forte o io ad essere debole? Mi sento sfiancato, non trovo più niente per cui valga la pena di andare avanti.
Lillie ha sempre detto di essere una persona onesta e sincera, e nello stesso tempo mi ha raccontato orgogliosamente di quando stava insieme a due ragazzi contemporaneamente, di quando ha tradito Girolamo, della lunghissima lista su cui aveva segnato tutte le sue “vittime”. Ha cominciato a conoscere via internet un numero spropositato di ragazzi, sempre assicurandomi che nessuno di loro aveva speranze con lei perché tutto il suo amore era riservato a me.
Quale amore? È amore questo?
Mai più nulla: una carezza, un bacio… niente di niente. Un po’ alla volta mi ha tolto tutto, tenendo per ultime le parole dolci: tutto quello che ha tolto a me l’ha elargito a profusione a tutti quegli “altri”, era logico che per me non ci fosse più posto.
È stato per disperazione che ho deciso di spiarla, o forse per vigliaccheria. Quando si accorgerà che so tutto sarà già troppo tardi, sarò già partito, ma non avrei mai avuto il coraggio di farla finita senza avere un’ulteriore conferma definitiva. Ho deciso: non mi importa niente delle parole dolci che gli altri possono scrivere, a patto che lei non faccia lo stesso. Stasera proverò a spiare ciò che lei dice a loro…
Perché sono sicuro di tutti gli incubi che mi hanno rovinato.
Sono pazzo, pazzo completo. Perché non riesco a lasciarla andare? A cosa mi serve cercare la conferma di dubbi che già so essere concreti?
Lillie, amore mio, perdonami per quello che sto per fare.

Ora era tutto chiaro, limpido e agghiacciante. Haku si era suicidato davvero.
Deluso, Griša ripose il foglio nell’agenda e attese che i brividi smettessero di scuoterlo. Non era difficile immaginare il seguito: Haku doveva essere riuscito a distrarre Lillie – non con fatica, dato che lei sembrava preoccuparsi poco o niente della sua presenza – e a carpirle la corrispondenza inviata. Ora, conoscendo la sua maniacale disperazione, era comprensibile che una sola parola sospetta sarebbe stata la goccia che fa traboccare il vaso; e sul proverbiale vaso doveva essersi abbattuto un uragano.
Gli sembrava di vedere la scena: Haku che inorridiva leggendo le parole che tanto aveva desiderato e rimpianto riservate a qualcun altro, che perdeva il controllo come aveva fatto un anno prima al Silent Hill, e Lillie che lo aggrediva ferocemente: «Come hai osato spiarmi?».
Nuovi tasselli andavano al loro posto: ecco spiegate tante, troppe cose. Haku era al limite della resistenza ed era stato travolto dalla cosa più orribile che un innamorato può subire. Eppure, rimaneva ancora una zona d’ombra: Il castello di sabbia. Lì la loro storia non aveva nemmeno un attrito né la minaccia di potersene procurare: doveva per forza esserci stato qualcos’altro, qualcosa che aveva screziato irrimediabilmente tutto. Se Haku e Lillie erano così innamorati all’inizio, chi mai poteva essere stato così perfido e geniale da riuscire a far degenerare tutto in un’eterna condanna?
Aveva bisogno di riflettere con calma. Una storia non si butta così all’aria senza un più che valido motivo, ma non gli veniva in mente nulla. Haku aveva tradito Lillie? Impossibile, non era certo tipo da una tale meschinità. Aveva familiarizzato troppo con Girolamo? Nemmeno, perché nel diario ne parlava sempre con rancore. Poteva avere in qualche modo offeso Dylan? No, lo adorava ed era lampante.
A quel punto doveva esserci stato per forza un intervento esterno, qualcuno che fosse riuscito in un istante a distruggere tutto. «Ma chi, dannazione?» ringhiò sconsolato «Chi?».

* * *

La chiesa di campagna nella quale si sarebbe svolto il funerale non era gremita di gente, ma bastava la presenza delle persone più disparate a rendere quella triste cerimonia qualcosa di degno di essere ricordato.
Griša aveva fatto il viaggio da solo, deciso a trascorrere la notte nel suo vecchio appartamento carico di ricordi, aveva declinato la proposta del patrigno di spesare a tutta la cerchia di amici un albergo non lussuoso ma comunque molto confortevole, ma sapeva bene che da Southampton sarebbero arrivati tutte le loro conoscenze comuni. Ecco infatti Bettina – le rivolse un cenno di saluto – insieme alla sua sorella gemella, la sua futura collega di studi Tresy, i suoi tre fratellastri Milo, Arthur e Derek, e dietro di loro il trio dei suoi primi amici di Liverpool Paul, George e Ritchie. Si sentì vagamene protetto, in loro presenza, ma già pensava a Domland come alla sua vera casa.
Quando la porta della chiesa si aprì di nuovo, lasciando entrare una cinerea luce nuvolosa, Griša era concentrato sulla bara bianca che troneggiava sotto l’altare. Chiusa, coperta di fiori, con una coccarda gialla e viola al centro. «Erano i suoi colori» disse una voce nuova e gelidamente familiare alle sue spalle.
Si voltò e incrociò due occhi azzurri, duri e cattivi, seminascosti da lunghissimi capelli corvini. Trasalì involontariamente, così vicino a Estel dopo quasi due anni, e si rese conto di vederla davvero solo in quel momento: crudele, pronta a lasciarlo perdere per chiunque, avvolta in un fascino misterioso che non esisteva più. Che lui, a quei tempi, doveva essersi soltanto immaginato. Era stato malissimo per lei, e dopo tante riflessioni aveva capito che non ne era valsa la pena. Per niente. «Anche tu qui?» domandò, asciutto «Non sapevo che tu e Haku vi frequentaste. Il tuo viscido lombrico te l’ha permesso?». Lei parve per un attimo ferita, ma recuperò subito la lucidità e ribatté altezzosa: «Maksim ha avuto un impegno improvviso, ma sarebbe venuto sicuramente. Conoscevo Haku grazie a te, ma non gli avrò rivolto più di due o tre parole». Poco convinto, almeno della prima parte della frase, lui alzò gli occhi al cielo concludendo: «Come vuoi».
La sua attenzione era già stata catturata da altre due persone appena arrivate: erano Mary e Moonlight, ossia – stando al delirante diario che aveva letto – il binomio terribile che aveva cercato da subito di stroncare la storia di Haku e Lillie con mille diabolici espedienti. In quanti si erano presentati a quel funerale per gioire? Schifato da tanta ipocrisia si sedette su un banco libero – voleva stare solo, sebbene la sua banda di Southampton gli avesse tenuto un posto – e si chiuse in se stesso, incurante di tutti, con lo sguardo immobile sulla bara.
Fu un passo sorprendentemente pesante a distrarlo: come di stivali chiodati, da militare, che pestavano sul marmo della navata centrale. Si voltò e finalmente la vide: Lillie era arrivata per ultima, ma c’era.
Rimase subito colpito dalla sua impassibilità: aveva gli occhi perfettamente asciutti, verde cupo e privi di sentimento. Sottili ciuffi di capelli rossi le incorniciavano il volto pallido e indurito dalla vita, e teneva stretto a sé il piccolo Dylan, che ormai doveva avere quasi due anni. Tra lei ed Estel saettò un’occhiata che era di odio puro, ma non si salutarono nemmeno. Griša la seguiva attentamente con lo sguardo, cercando di carpire qualche informazione, ma tutto sembrava portare alla medesima, amara realtà: Lillie era una ragazza senza cuore, insensibile e spietata, troppo occupata da un figlio e da una schiera di pretendenti per preoccuparsi di Haku. Aveva l’aria seccata di chi ha interrotto qualcosa di importante per una sciocchezza.
Dietro di lei avanzava Kim, seria e compita. Loro due erano le uniche a non essere vestite a lutto, osservò, e subito gli venne in mente una battuta perfida: Estel era sempre vestita a lutto, o da vampira sexy come diceva lei. Ghignò abbassando la testa: anche quello era un modo per resistere alla tristezza. Pensando che Haku non avrebbe mai più condiviso le loro idiozie esilaranti sentì una morsa al cuore, e cercò disperatamente di pensare ad altro.
Per esempio, Haku non aveva mai parlato di un’alleata di Lillie. Circospetto, guardò in direzione di Kim… e si sentì come ipnotizzato. Era incantato dalle morbide pieghe dell’ampia gonna a fiori, dai brevi scintillii di una cavigliera sopra le infradito di paglia, dai capelli lunghissimi e perfettamente lisci che mandavano bagliori di rosso cupo alla luce delle candele. Aveva gli occhi neri come due gocce di inchiostro, con un’espressione astuta velata di una vaga tenerezza sotto la frangia lucida. Sotto una maglia di seta leggera si intravedeva il profilo di un corpo esile ma perfetto: era davvero molto bella, impossibile non notarlo. La udì parlare a bassa voce con Lillie, ma non capì una sola parola: Lillie non poteva aver parlato nel suo inglese dal forte accento irlandese, ma quello non era nemmeno russo pur avendone forse una vaga sonorità. Perplesso, tornò alle sue elucubrazioni.
L’ultimo gruppo ad arrivare fu quello dei compagni di università di Haku, talmente eterogeneo che era impossibile non notarlo. In testa camminava un ragazzo con i capelli rossi tagliati a caschetto, che subito guardò verso Lillie con aria di disprezzo; subito dietro seguivano altri due studenti, uno molto trasandato e l’altro che sembrava reduce da un rito satanico – insieme a Estel, magari –; a chiudere la breve processione c’era una giovane dai lineamenti sottili, con gli occhi verdi e tutta l’aria di un’elfa dei boschi. Griša inquadrò subito i loro nomi, spesso citati nel diario come fonte di consolazione diurna prima delle interminabili serate da trascorrere a guardare Lillie davanti al computer: Dimitri, il più strafottente della compagnia; Max e Diego; e infine Kate, colei che in quell’ultimo tragico periodo aveva cercato discretamente di stargli vicino.
Dimitri stava passando accanto al banco sul quale Lillie e Kim si erano accomodate: «Assassina» sibilò, subito imitato da tanti altri. Lillie, distaccata, si limitò ad uno sguardo che prometteva pericolose ritorsioni ma non aprì bocca. Quegli occhi erano di ghiaccio, freddi e impenetrabili: chinò la testa, lasciando che i capelli le nascondessero il viso, e nessuno notò un vago scintillio trasparente che dal mento cadde come una perla sui pesanti pantaloni militari.
Kim le strinse furtivamente una mano, e quel gesto non sfuggì a Griša: per un lunghissimo istante i loro sguardi si incrociarono sopra la bara, carichi di domande non fatte e di risposte che non sarebbero mai state date.
Finalmente, scandita dai rintocchi profondi delle campane a morto, la cerimonia funebre ebbe inizio.
C’era chi si soffiava il naso, chi sospirava, chi si asciugava gli occhi dietro dignitosi occhiali da sole. «Non aveva ancora compiuto ventun anni», commentava qualcuno. «Che cosa mai gli sarà successo per togliersi la vita così giovane?», chiedevano i meno informati.
Perfino il sacerdote, a un certo punto della celebrazione, dovette fermarsi con un goffo «Scusate» a reprimere un singhiozzo. Fino alla settimana prima, aveva sempre visto Haku con la chitarra tra le braccia, seduto di fronte al coro parrocchiale a dirigere i canti della messa. L’aveva visto deperito, ma non vi aveva mai dato importanza. E ora stava per dargli l’ultimo saluto: «La salma» sospirò con la voce offuscata «Verrà trasferita ora al cimitero di San Pietroburgo».
Senza che nessuno gli avesse detto niente, Griša raggiunse la bara e se la fece issare sulle spalle. Altri quattro uomini lo aiutarono a sollevarla, e la triste sfilata si avviò a piccoli passi sul sagrato.
Quando il baule del carro funebre si chiuse con uno schianto secco, nessuno più riuscì a parlare.
Lillie si sedette sulla scalinata della chiesa, lontano da tutte quelle mute ingiurie che leggeva negli sguardi che le erano rivolti, e si rannicchiò contro la solida parete. Nessuno aveva osato dire nulla, conoscendo la fama di Girolamo, ma quel silenzio gonfio di disprezzo la feriva molto più delle parole.
Guardando la bara bianca che veniva portata via, i fiori che vedeva ora per l’ultima volta, non riuscì più a sostenere la maschera impassibile che si era imposta: con le ginocchia strette al petto ruppe in pianto, e gemette: «Come farò adesso senza di lui? Io lo amavo… e ora è troppo tardi per dirglielo e rimediare a tutto il male che gli ho fatto. Perché non me ne sono accorta prima? Avrei potuto salvarlo, e invece gli ho dato il colpo di grazia». Kim cercò di confortarla: «Tu sei a capo di un’organizzazione che fa affidamento solo su di te, e in più hai un carattere estremamente orgoglioso. Non avresti mai potuto dimostrarti debole, né con Haku né con il resto del mondo, anche se… forse hai esagerato, con lui».
Lillie stava per rispondere qualcosa, quando vide Griša che si incamminava da solo in direzione opposta a quella seguita dalla processione. Ora sì che appariva triste, smarrito, stanco: stava cominciando a realizzare che Haku davvero non c’era più. Si videro, e lui si avvicinò con cautela. «Non siete andate con lui?» chiese. Lillie stava già per rivoltarsi («E tu?»), ma lui continuò senza scomporsi: «Immagino che non ce l’abbiate fatta, come me. È brutto fingersi impassibili e poi rischiare di scoppiare a piangere sulla bara».
Aveva parlato molto seriamente, con una schiettezza disarmante e una vaga espressione sorniona. Senza rendersene conto aveva già sfoderato quello che gli amici di Southampton definivano bonariamente “il fascino impertinente del dj”: aveva già attuato il piano per scoprire qualcosa in più prima ancora di concepirlo. Era logico, però: cercare di attirare Lillie per strapparle qualche indizio.
Così si sedette su uno scalino, con il vento che gli scompigliava i capelli e un sorriso lieve ma accattivante a increspargli le labbra. Poteva fare leva anche sulla sua somiglianza con Haku: lei non gli avrebbe mai negato una chiacchierata, ne era sicuro.
Stava per partire all’attacco quando Kim esclamò concitata: «Girolamo!», e l’istante successivo si trovarono tutti e tre schiacciati contro il muro della chiesa, sul retro, pregando di non sentire la macchina rallentare. Un’utilitaria verde chiaro passò proprio davanti alla scalinata sulla quale erano seduti fino ad un attimo prima, e Lillie sbiancò folgorata da un tremendo pensiero: come avrebbe fatto, ora, a portare Dylan da suo padre? Se a Girolamo fosse venuto anche il minimo sospetto che qualcosa non andasse come esigeva lui, avrebbe potuto mettersi a indagare. E scoprire che Haku non era il povero scemo spaventato, ma addirittura il fidanzato di colei che ancora considerava “la sua donna”: sarebbe stata una catastrofe.
Era la prima volta che Lillie, così fiera e dura, si sentiva atterrita. Il dolore era stato tale da averle fatto dimenticare Girolamo. Eppure un’idea cominciava a baluginarle nella mente, un’idea così folle da risultare ottima. Haku era stato da sempre silenzioso e riservato, e nessun Di Santo gli aveva mai prestato particolare attenzione. Aveva i capelli più chiari di Griša e gli occhi verdi, ma chi mai si era preoccupato di guardarlo negli occhi? Inoltre, a casa di Girolamo c’era sempre una scarsa illuminazione: poteva funzionare.
Si rivolse a Kim, di nuovo in quella lingua strana ma non del tutto aliena alle orecchie di Griša, e le due parvero illuminarsi come per una notizia esaltante. Perplesso, Griša si chiese cosa mai ci potesse essere di divertente dopo quello squallido funerale carico di rimpianti e ipocrisie, ma Lillie non volle parlarne subito. «Andiamo a Domland, a casa di Haku, e recuperiamo tutte le sue cose; ti spiegherò tutto con calma» disse, concisa «Seguimi». E lui non poté che assecondarla, dopo un attimo di esitazione sufficiente a incrociare ancora una volta gli occhi scuri di Kim. «Ci aiuterai?» le lesse sulle labbra, ma non ebbe tempo di rispondere: lei si era già incamminata verso casa, con Dylan addormentato nel passeggino.

* * *

«Era grazie ad Haku che non si verificavano problemi» iniziò Lillie, mentre si incamminavano verso la periferia dopo aver incaricato Kim di badare a Dylan «Mia madre lo vedeva di buon occhio e non faceva mai domande quando ci vedeva uscire nel finesettimana, ma se avesse saputo che c’era di mezzo Girolamo avrebbe scatenato un putiferio. Se Girolamo ne fosse venuto al corrente se la sarebbe presa con la mia famiglia, in un infinito circolo vizioso. Ma adesso, cosa posso fare? Mia madre saprà che cos’è successo al più tardi questa sera, poi lo scoprirà anche Girolamo, e verrà alla luce tutta la verità: come posso fare?». Appariva realmente disperata, ma Griša non capiva: «Vuoi dire» inorridì «Che tutto era come un gigantesco gioco in cui voi nascondevate ogni cosa?». Lei ribatté, seccata: «Ovvio! Se Girolamo avesse saputo cosa c’era tra me e Haku, l’avrebbe ammazzato con le sue stesse mani».
Ecco altri frammenti che venivano a galla: una storia così nascosta già precludeva qualsiasi gesto affettuoso in pubblico, ed ecco spiegata una parte del mistero. Non era insensibilità quella di Lillie, ma desiderio di tenere Haku con sé senza metterlo in pericolo.
«Ma adesso» riprese lei, avvilita «Tutti sapranno come stavano le cose. A meno che tu…». Si fermò solo un istante prima di azzardare: «A meno che tu non sia disposto ad aiutarci. Te la sentiresti?».
Un campanello d’allarme suonò nella mente di Griša. «Scappa» lo supplicò una voce sconosciuta dentro di lui «Sei ancora in tempo, rifiuta e vattene, torna a casa tua… a Southampton». Non la ascoltò.
«Che cosa dovrei fare?» domandò, cauto.
Erano fermi sotto il condominio buio e deserto, al limitare dell’argine della Neva. Lillie lo precedette nell’atrio, e senza dargli modo di aggiungere altro spiegò in un sussurro: «Devi farlo rivivere».
Gli teneva stretta una mano, e sorrise nel sentirlo sussultare. «Non sto parlando di magia o di zombie, stai tranquillo» scherzò, prima di riprendere: «Siete due gocce d’acqua, e se tu avessi i capelli corti nessuno vi distinguerebbe. Vivresti qui, a casa sua: se non sbaglio conservi ancora il libretto dell’università di San Pietroburgo e hai quasi finito il corso, quindi gli ultimi esami potresti darli qui. Sono disposta a pagarti, se verrai con me da Girolamo il sabato e la domenica».
Griša rimase a lungo in silenzio, davanti all’enormità della richiesta: lasciare la vita che si era tanto faticosamente ricostruito a Southampton per tornare lassù, così lontano e senza alcuna garanzia, era un pensiero da folli. E in più, così vicino a Estel? Non lo riguardava, ecco tutto. Ma aveva giurato di scoprire quale movente ci fosse dietro il suicidio di Haku: sicuramente per qualche giorno sarebbe rimasto. «Non ti lascerò nei guai» promise «Avevo già deciso di trattenermi qui più a lungo dei miei amici, quindi credo di poterlo fare. Però, dobbiamo trovare il modo di lasciarmi scomparire gradatamente e senza scalpore. Ora il problema principale è: come devo comportarmi?».
Lillie si sentì come un condannato a morte al quale è stata revocata la condanna. «Tu sei un angelo» proruppe, spontanea «Ora vai a casa tua e porta qui tutte le tue cose. Quando sarai di ritorno comincerò col tagliarti i capelli come li aveva lui, e ti spiegherò per filo e per segno come faremo nei prossimi giorni».
«Mi taglierai i capelli» ripeté lui, con un sorriso mesto «L’avevi fatto davvero anche per lui, vero?». Davanti all’occhiata sorpresa di lei, comunque, uscì di scena con un laconico: «Niente, non badarci», e Lillie rimase sola in quel covo di ricordi così incredibilmente lontani.
E, soprattutto, erano ricordi sparsi e radi come le stelle che si vedono dal cuore di una città illuminata. In pubblico avevano sempre nascosto la loro storia, ma anche in privato tra loro c’erano state pochissime effusioni. Perfino un semplice bacio di buonanotte – quando accadeva che se la augurassero – era qualcosa di impensabile. Non era da biasimare Haku se sempre più spesso dubitava della loro storia, sarebbe stato pazzo a non avere incertezze. Un mostruoso senso di colpa la travolse, ma in quel momento Griša aprì la porta trafelato e gettò rumorosamente tutte le sue cose ai piedi del divano. Teneva in braccio Dwimmerlaik, immensamente felice di essere tornato nella sua vecchia casa, e in quel contesto sembrava davvero di vedere Haku.
«Come gli somigli» sussurrò Lillie «Per un momento credevo che…» «Fai quello che devi fare, prima che organizzino i pellegrinaggi in Via dei Fiori Bianchi» la interruppe lui «Ma prima vorrei cercarmi qualcosa da mangiare».
Il silenzio era concreto, una fredda presenza che aleggiava spettrale nella casa morta.
Griša infornò un panino e sprofondò nel canapé sul quale Haku era crollato così tante volte. Sembrava quasi che anche la sua disperazione fosse con loro, quella sera.
Con mano esperta, Lillie si mise al lavoro mentre il peso del déjà-vu si faceva sentire più insistente. Tagliava i folti ciuffi con precisione, lasciandoli liberi di ricadere sulla fronte e sulle tempie ma accorciandoli drasticamente sulla nuca. «Stava benissimo così» mormorò, ma poi non riuscì più a sopportare la tensione: «Continuo a pensare a quante poche volte sono entrata qui dentro…» gemette. Di nuovo Griša le tagliò un discorso, intromettendosi col suo beato disinteresse: «Vuoi un pezzo di panino al formaggio?».
Suo malgrado, lei scoppiò a ridere. Un riso gelido come la morte, ma che ebbe il potere di alleggerire l’atmosfera. «Non l’ ho ucciso io. Era… malato» riprese poi, più calma «Ammetto di avere le mie colpe: è sempre stato gentile e disponibile, e regolarmente gli stroncavo tutti i sorrisi, l’ho trattato spesso in modo disumano. Ma era lui a ingigantire tutto! Stava così male che ogni minima discussione gli appariva una catastrofe, ed era diventato pesante e angosciante: impossibile non respingerlo, quando mi supplicava così lacrimosamente di…». Di colpo si bloccò. Cosa l’aveva implorata di fare? Stare abbracciati, trascorrere una sera insieme dopo mesi che anche quello era negato… vivere come se fossero ancora quella coppia già stracciata da molto tempo. Ecco perché era finita così male: Haku cercava ancora il suo ruolo al fianco di Lillie, e anche se nessuno l’aveva mai ufficializzato, tra loro era finita quasi subito. Lei, quindi, lo respingeva come aveva in fondo respinto tutti i suoi pretendenti. Un conto era non accettarli senza nemmeno scoraggiarli, ma da lì a concedersi ripetutamente a loro era un altro paio di maniche; e, se mai qualcosa era successo, era stato solo perché in fondo lei non stava insieme ad Haku. Aveva giocato crudelmente con lui, assaporando il suo smisurato potere. La donna più ambita delle hot chat… temuta e rispettata all’ombra di Girolamo e di tutta la sua banda... Aveva forse un po’ troppo abusato del suo potere. Lo ammise.
«Lo so» rispose laconicamente Griša. Aveva letto cose ben più dure nel diario di Haku. Filtrate da fissazioni e manie, ma da qualche parte dovevano pur venir fuori. Per non ostentare troppa sicurezza, tuttavia, deviò il tiro: «Voglio dire, immaginavo che tra voi fosse finita da tempo anche se nessuno l’ha detto. E, se vuoi saperlo, non credo nemmeno che tu o la tua banda l’abbiate ucciso: sul fatto che fosse malato, delirante, non ho dubbi. O sei la più grande e disumana sfruttatrice, o la miglior scema della storia: hai resistito quasi un anno insieme ad un alienato» «Scema io?» sbottò lei, punta sul vivo. Lui sogghignò: «Sì, proprio così. Talmente scema che non verresti mai a prendere un caffé al bar con me». Lillie, perplessa e incuriosita da tanta impertinenza, lo rimbeccò subito: «Infatti non mi risulta di averlo mai preso in considerazione». E Griša, con il più affascinante dei suoi sorrisi, la colse soavemente in contropiede: «Ecco, lo vedi che sei scema?».
Risero entrambi, sbocconcellando la cena, e sebbene la tristezza serpeggiasse come un gatto tra loro cercarono di ignorarla.
Quando Griša tornò sull’argomento erano entrambi meno scossi: lo fece con calma, accovacciandosi sul pavimento davanti alla poltrona sulla quale era seduta l’ospite del morto. «Tu non sei un’assassina» disse, serio, con gli occhi simili a due pozzi scuri «Io sono convinto che tu lo amassi tuttora, anche se a modo tuo. Che cosa poteva saperne lui di come funzionano le storie d’amore? Haku, a differenza di me, si è ritrovato neonato in un mondo ostile – quella con te era la sua prima storia –, e ha dovuto calarsi in un alter ego per riuscire ad andare avanti. Aveva scelto me come modello. Io ho tutta la vita alle spalle! Sono io che ho vissuto tutto ciò che lui ha scritto nel romanzo che non ha potuto finire… che ho amato Estel… e le devo molto: se non fosse stata così dannatamente stronza, io avrei ancora tutte le farfalle per la testa che avevo prima. Non è possibile amare ed essere amati, nulla è mai realmente corrisposto. Tu forse amavi Haku, ma lui era già riuscito a farsela passare: stava con te solo per paura, per rimpianto, e – credo – anche per un filo di masochismo. Che ne sapeva lui di dignità o amor proprio? Non avrebbe mai osato mettersi contro di te, era molto meglio tirare avanti da solo e sperare di non trovarti eccessivamente arrabbiata. Almeno, così ho letto nel suo diario, il diario di un folle che non riesce più a distinguere la realtà dagli incubi. Non c’era più nulla di vero, nella sua mente allucinata. E di questo non è stata colpa tua».
Lillie si sentì come se le stessero scavando il cuore con un coltello arroventato. «Stava con me solo per paura», si ripeté. Ecco: proprio lei, che da anni non aveva più sogni, scopriva che un sogno era invece riuscito a sopravvivere sul fondo del suo cuore. E ora si era sbriciolato in mille cocci aguzzi. Non le era rimasto più nulla.
Lacrime traditrici le bruciarono le ciglia, e un attimo dopo era rannicchiata tra le braccia di Griša. Non piangeva, si stava come abbandonando contro quel corpo così simile a… ma da quanto tempo non…? «Haku…» quel nome le morì per l’ultima volta sulle labbra, mentre affondava le dita tra i ruvidi e corti capelli che si appoggiavano protettivi sulla sua testa. Griša non si mosse, ma il cuore gli batteva forte. Ecco dunque che cosa Haku non aveva più avuto. Ma cosa mai gli stava succedendo? Perché le dita che gli passavano tra i capelli gli facevano socchiudere gli occhi beatamente? Perché quelle spalle esili sul suo petto gli facevano venire voglia di abbracciarla forte? Perché quel vago profumo di casa e di bambino piccolo, unito a quello più vivo di sigarette bruciate, lo inebriava al punto da indurlo a perdere la ragione? Volle scrollare la testa per togliersi di dosso quelle folli idee, ma peggiorò solo la situazione: era ipnotizzato, e non riusciva a svegliarsi. Peggio: non era più se stesso. Si vide nell’atto di baciarle piano il collo – sentiva le vene pulsare sotto le sue labbra, o forse era lui a rabbrividire –, scivolare lungo la pelle vellutata, così inesplorata eppure così conosciuta, e poi…
E poi non ci fu più alcuna distanza tra loro. Griša e Lillie, cercando in quel penetrante bacio i fantasmi di amori irrimediabilmente perduti, caddero sul canapè senza nemmeno rendersene conto. Non ebbero più nemmeno uno sprazzo di lucidità, nel buio della sera ormai gravida della notte: non c’era la vista, soltanto la consistenza delle maglie abbandonate sul pavimento e il sapore di un bacio mai dato prima.
Fino a quando Griša si scostò bruscamente da lei, con la nitida impressione di essersi svegliato da un sogno inquietante. «Scusami» sussurrò Lillie «Ora sicuramente penserai che sono una ragazza “facile”, che non avrà remore a rifarsi dopo la morte di… Scusa, Grigorij, era tutto così uguale a un anno fa, e tu gli assomigli così tanto che…» «Ho capito» fece lui, ancora scosso da quei minuti sospesi nel vuoto «Non fa niente, forse sono stato io a provocarti con quelle battute di prima». Certo, se Lillie si fosse comportata così con tutta la sua lista di cicisbei – sì, li aveva registrati tutti in un’agenda che Haku considerava uno dei suoi peggiori incubi, gliel’aveva riferito – la situazione sarebbe stata davvero tragica.
Griša rabbrividì: anche lui aveva conosciuto l’incubo delle chat, delle “liste” e infine di perdere la sua amata per quello stupido camionista… ma lì era tutto vero, vissuto e dimostrato. Haku viveva solo con le sue paranoie: e se avesse finito per impazzire, convincendosi di pensieri assurdi? D’accordo, le liste di Estel erano una nullità in confronto agli elenchi di Lillie, ma… Estel se li era passati tutti senza problemi. Poteva una come Lillie essere stata fedele, invece? Pensò a lungo alle notti trascorse al telefono con Haku, a sentirlo singhiozzare con un cellulare spento in mano, piangere fino a svenire o a vomitare, e giunse alla sua personale conclusione: con ogni probabilità, no. Tant’è vero che anche Lillie non era sembrata affatto dispiaciuta, prima, più che altro presente per circostanza: chissà da quanto tempo non provava più nulla di diverso dal disprezzo per Haku. Ma allora, perché non l’aveva lasciato andare? Era tutto un orrido gioco il suo? Non paga di tutti i suoi uomini voleva avere anche la vita di uno dei suoi infiniti numeri?
Nessuno l’avrebbe saputo mai.
Lui, dal canto suo, era un menefreghista di prim’ordine. Potesse Lillie essere una santa innamorata o la più volgare delle puttane, decise, non era un suo problema. Sarebbe presto tornato a casa sua, a Liverpool, e la sua vita sarebbe continuata tra serate al karaoke, scherzosi pomeriggi all’università con gli amici, birre in compagnia e soprattutto racconti e canzoni a spron battuto.
O almeno, così si era ripetuto testardamente fino a poco prima. Si era preso un impegno, aveva promesso, e la sua parola era sacra: qualunque fosse la sua opinione, gli conveniva stare zitto e osservare in silenzio.
Lillie era davanti alla porta, con la borsa militare a tracolla e un baschetto verde sbieco sulla fronte. «Si staranno chiedendo dove sono finita» disse «All’inglese, è meglio che vada. Grazie per l’aiuto, ma soprattutto scusa per la scena di poco fa: puoi dimenticarla?». Griša non si spostò nemmeno dal divano, e rispose rincuorante con un’alzata di spalle: «Quale scena?».
Eccolo dunque solo, di nuovo solo a Domland, e per di più in quella casa dove la presenza di Haku era ancora talmente vivida da sembrare reale. Si sentiva a disagio nella casa di una persona che non c’è più, e che dorme in una bara sotto terra ancora fresca, ma più che altro gli pesava quanto era accaduto con Lillie. Troppo facile: una battuta di circostanza, volta solo ad alleviare la tensione, e lei gli aveva dato un bacio mozzafiato. Contando anche quanto Haku aveva scritto, non era possibile pensarla diversamente, e quell’idea faceva davvero male: Lillie tra le braccia di chiunque… come poteva dimostrare il contrario, con tutte le prove che portavano lì? Sarebbe stata un’impresa, e lui dalla sua parte aveva solo il diario di deliri senza fine sempre più confermati.
All’improvviso, dal nulla, gli venne in mente la giovane zingara che accompagnava sempre Lillie. Kim. La ricordò così come l’aveva vista nel pomeriggio, e analizzò la stranissima sensazione di ipnosi che aveva provato incrociando i suoi occhi: era come se si fossero già incontrati da qualche altra parte, ma ora che rifletteva doveva ammettere di aver avuto anche un’altra sensazione, quella di un presentimento.
Per non perdersi nei meandri delle sue elucubrazioni decise di chiamare Norbert: aveva rinviato per tutta la giornata quel momento, e ora non poteva più tergiversare oltre. Sollevò la cornetta e per qualche secondo ascoltò il ronzio della linea libera, quindi con decisione compose il numero di casa… ammesso di poterla ancora definire tale.
«Papà» esordì appena la voce lontana di Norbert giunse ad ancorarlo alla realtà «Sono a casa di Haku, passerò la notte qui e anche i giorni successivi. Oggi c’è stato il funerale, ma troppe cose non mi convincono. Era il mio migliore amico, ho giurato a me stesso che riuscirò a scoprire la verità, e credo di essere già su una pista promettente. Avrei bisogno di…» «Gregory» lo fermò Norbert, e il suo nome in inglese già gli sembrava appartenente ad un altro mondo «Ti ricordi come ti sei ridotto due anni fa, in quei postacci? Ti sei salvato una volta, non puoi sfidare ancora la sorte e sperare di cavartela ancora. Torna indietro, sei ancora in tempo per fare il viaggio con tutti gli altri che partiranno domani mattina, non lasciarti irretire da gente che vuole solo farti del male».
«…che tu mi mandassi i soldi che ho messo da parte ultimamente» finì imperterrito Griša. Non gli tremava la voce, ma si sentiva la fronte imperlata di sudore e aveva chiuso gli occhi. «Come minimo per un paio di settimane, io rimarrò a Domland. Non puoi negarmelo, papà, né riuscirai a farmi cambiare idea».
All’altro capo del filo, Norbert Oldfield tacque. Quando quel suo figliastro si intestardiva, non c’era niente da fare; era perfettamente in grado di cavarsela da solo in qualsiasi situazione, tranne quando si trattava di sopportare qualche dispiacere troppo grande, e quello era uno di quei casi: stava per lasciarlo solo, a migliaia di chilometri da casa, con il peso della morte – dell’omicidio – di un suo amico e il pericolo di incappare di nuovo nella vita che aveva lasciato quando Estel se n’era andata. Locali, notti ubriache fino all’alba, squallide periferie… e quell’altro locale, la Taverna dei Rimpianti, covo di tutti i derelitti pietroburghesi che non avevano più nulla da perdere e spesso aspettavano lì dentro di trovare il coraggio di togliersi la vita. «Torna a Villa Oldfield» lo pregò infine «Qui hai tutto quello che puoi desiderare, sei ricco e famoso». Ma Griša aveva già deciso: «Tornerò, te lo prometto, hai la mia parola d’onore. Non adesso, ma tornerò, papà», e lui non poté che rassegnarsi con una morsa intorno al cuore. Riagganciò con un soffocato augurio di buona fortuna, e non udì nemmeno il malinconico saluto del figliastro: «Scusami, papà».
Aveva fatto il passo decisivo, se anche avesse cambiato idea non avrebbe più fatto in tempo a ritirarsi dal suo compito. Abbattuto dalla tensione di quella giornata che sembrava non dover finire mai, Griša si gettò vestito sul letto e scivolò subito in un sonno buio e senza sogni.


Tutto come prima

Il vento era ormai diventato un unico soffio continuo che sapeva di pioggia. A est il cielo aveva preso una preoccupante sfumatura color limatura di ferro, contro la quale i lampi spiccavano violacei come vene scheletriche, e i tuoni si sentivano sempre più vicini e minacciosi.
Kim si sedette sul muretto e osservò preoccupata Via dei Fiori Bianchi completamente deserta. «Tra poco Lillie dovrà essere da Girolamo, non farà mai in tempo a venirmi a prendere» constatò, mesta, mentre le prime gocce di pioggia cadevano in schiocchi sonori sull’asfalto caldo. Teneva i capelli sciolti sulle spalle che le arrivavano fino alla vita, lisci e lucidi di riflessi rosso cupo, e le si agitavano nel vento sempre più forte. Si teneva l’ampia gonna avvolta intorno alle gambe per evitare che la leggera stoffa variopinta si sollevasse troppo, e in una folata più violenta delle altre l’orlo le si sollevò mostrando la sottile cavigliera d’argento che per un istante parve riflettere i fulmini.
Aveva passato tre ore a parlare con Griša, spiegandogli per filo e per segno come avrebbe dovuto comportarsi in presenza di Girolamo e della sua famiglia. Contegno rispettoso e leggermente intimorito, poche parole di circostanza, niente espressioni strane di fronte a rivoltelle e bustine di cocaina. Gli aveva insegnato qualche parola del loro gergo, quelle che Haku aveva dovuto conoscere per forza, gli aveva fatto ripetere fino all’esasperazione tutte le traduzioni delle possibili frasi in codice, ma finalmente dopo il corso accelerato di malavita si erano messi a chiacchierare amichevolmente. Fino a quando Lillie aveva telefonato per chiedere se quelle lezioni dovevano durare ancora per molto dato che si stava avvicinando un forte temporale: effettivamente, Kim avrebbe dovuto essere a casa due ore prima, ma Griša si era rivelato più meticoloso del previsto nel voler padroneggiare tutti i dettagli della vita che lo aspettava.
Era stato molto gentile, però: scusandosi galantemente, si era offerto di accompagnarla fino a casa, ma Kim aveva declinato – con una punta di dispiacere – la proposta: se Lillie aveva detto di aspettare lì fuori, doveva essere già quasi arrivata.
Ma allora perché tardava tanto? I tuoni rumoreggiavano quasi sopra Domland. Forse Girolamo non aveva voluto tollerare il ritardo? Dall’alto della sua nuova casa, Griša teneva d’occhio la strada e pensava a quanto presuntuoso e al contempo potente dovesse essere quell’uomo perché Lillie gli fosse assoggettata così ciecamente. Una cosa era certa: non gli sarebbe mai stato simpatico. Non era forse colpa sua se Kim era costretta a rimanere là fuori per chissà quanto tempo?
Era impensabile lasciarla lì, per quanto abituata alla strada quanto lui, ma non sapeva come farsi avanti senza dare l’impressione di fare il volgare cascamorto. Quella giovane zingara lo turbava, l’aveva stregato fin dal momento in cui era entrata nella chiesetta di campagna per il funerale, camminando mezzo passo dietro all’indifferente Lillie. Cosa ancora più inquietante, sentiva che tutte le sue barriere contro il mondo si stavano sgretolando: era San Pietroburgo la sua casa, Domland, la Taverna dei Rimpianti, il Number One… si era scoperto indifferente alla presenza di Estel a pochi metri da lui, durante il funerale, e la breve chiacchierata con Kim poco prima l’aveva fatto sentire stranamente a casa. Effettivamente, stava già scendendo di corsa le scale di quella che già chiamava “casa”.
Stava ancora rimuginando quando si udì proporle: «Vieni a casa mia, telefona a Lillie e avvertila che rimarrai qui ad aspettare che passi la bufera». Le teneva un braccio sulle spalle magre – ma quando si era messo così? – e sorrideva sentendola così vicina. «Grazie, Grigorij» rispose lei, alzandosi ma senza staccarsi da lui «A proposito, dopo tutta la discussione di prima non ci siamo nemmeno presentati…» «Griša per tutti» la interruppe lui, e poi gli venne spontaneo un gesto che mai si sarebbe ritenuto in grado di fare: le diede un bacio sulla fronte. E Kim non solo non rimase perplessa, né si tirò indietro: aggrappandosi meglio a lui affrettò il passo sotto la pioggia ormai battente, diretta verso la porta di casa.
Fecero appena in tempo a entrare e avvisare Lillie – che non fu per nulla entusiasta della cosa, ma si rese conto di non avere alternative –, prima che la tempesta si scatenasse in tutta la sua potenza. L’acqua cadeva a fitti scrosci simili a secchiate, la grandine martellava le imposte chiuse, la luce delle lampadine ammiccava come la fiamma di una candela. E poi, fuori sembrava già il crepuscolo: dov’era finito il sole abbacinante di giugno? Da un’imposta accostata Kim osservò l’argine della Neva, gli steli delle spighe spezzati, tutta l’erba appiattita e gli alberi piegati fino a terra che gemevano anche più forte dei tuoni continui. Il giardino dell’appartamento era già sommerso dall’acqua che, priva di un adeguato canale di scolo, si avvicinava allarmante alle portefinestre del soggiorno.
Griša era in cucina, indaffarato a preparare un buon caffé caldo e intento a pensare a come intrattenere la sua ospite senza fare figuracce, quando le suole delle sue scarpe da ginnastica sdrucciolarono sul pavimento con un rumore liquido.
Uno strato di acqua stava allagando il salotto, ed entrava velocemente dalle finestre squassate dal vento. Imprecò a bassa voce, lasciando da parte il vassoio preparato così accuratamente, e sciaguattando verso la porta d’ingresso chiamò Kim: «Corri in camera mia, lì dietro è riparato e starai all’asciutto!». Lei stava per raggiungerlo, o per rispondere qualcosa, quando saltò la corrente e tutto piombò nel buio intermittente dei lampi. L’acqua ora entrava a fiotti, era già alta una decina di centimetri in soggiorno, e Griša si ritrovò a fare rapidamente mente locale e giungere alla tragica conclusione: «In questo condominio non abita nessun altro. Le pompe dell’acqua sono giù, nei garage chiusi. Qui si sta allagando tutto e non c’è nessuno che ci possa dare una mano. Se anche i garage finissero sommersi, l’acqua potrebbe arrivare ai contatori del gas e della luce e far saltare tutto per aria. Bisogna riattivare la stazione di pompaggio!». Spiegò in poche parole la situazione a Kim, e senza attendere risposta spalancò la porta e si precipitò fuori nel diluvio.
L’aria era elettrica e sapeva da zolfo, un tetro bagliore sopra i boschi lungo il fiume lasciava indovinare che qualche albero era crollato, fulminato, in fiamme. Era come essere finito sotto la doccia in jeans e camicia, solo che quell’acqua era gelida e la grandine lo sferzava dappertutto. Diguazzava con acqua e fanghiglia che gli arrivavano fino alle ginocchia, forse da qualche parte la Neva aveva rotto gli argini, e sapeva che se avesse perso l’equilibrio avrebbe rischiato di finire trascinato via. Con orrore si accorse che i dieci scalini che scendevano nei garage erano ridotti a sei, e che l’acqua gli sarebbe arrivata fino al petto una volta arrivato alla stazione di pompaggio sotterranea.
Ecco laggiù lo sportello metallico che proteggeva la leva: bastava alzarla e le pompe sarebbero entrate in funzione, risucchiando l’alluvione nei cunicoli più profondi della rete fognaria, ma era saldamente chiuso da un grosso lucchetto del quale solo i tecnici possedevano le chiavi. Allora gli venne un’idea: lui e Kim avrebbero potuto rifugiarsi nel solaio sopra l’ultimo piano del condominio, sperando che le fondamenta intanto reggessero.
E poi la vide, delineata da un lampo, stagliata all’entrata dei garage. Si era tolta la gonna, un intralcio lì fuori, e la camicia di seta che indossava le aderiva fradicia rivelando il profilo nitido del corpo. Nonostante la situazione critica, Griša non poté fare a meno di notare che fosse veramente molto bella, e anche molto coraggiosa. «Dobbiamo andare di sopra» gridò, aggrappato al lucchetto chiuso.
Kim non rispose e si tuffò nei garage, scomparendo per un atroce istante in un gorgo ma riaffiorando subito, ben salda, con le mani strette alla ringhiera. «Credi forse che un lucchetto sia un problema per me?» sogghignò. Era tranquilla, aveva preso il controllo della situazione. Griša si tolse la camicia e la arrotolò per formare una corda, che la aiutò a raggiungerlo davanti al portellone chiuso.
«Mi fido di te» disse lei, ben determinata «Tienimi, avrò bisogno di entrambe le mani per aprire questo sportello». Ubbidiente, lui si ancorò con un braccio alla ringhiera e con l’altro le circondò i fianchi, pregando che la corrente non aumentasse ulteriormente di intensità, ma trovò ugualmente il fiato di mormorare: «Tu sei una ragazza straordinaria». Era certo che nel frastuono della bufera non l’avesse sentito, ma Kim gli elargì uno sguardo lusingato prima di attaccare il lucchetto con una forcina. Mugugnava tra sé nella sua lingua, prendendosela con le serrature troppo strette, ma nel giro di un minuto si udì un nitido schiocco metallico e il lucchetto sprofondò, aperto, nell’acqua densa ormai alta quasi un metro e mezzo.
Griša saltò, stringendo forte la manopola della leva, con Kim avvinghiata alla vita. La ruggine bloccava i meccanismi, i gorghi gli risucchiavano i vestiti zuppi, e d’altro canto c’era lei che lo stava letteralmente abbracciando, lei che l’aveva aiutato, lei che se qualcosa fosse andato storto non sarebbe mai tornata a casa sua ad avvolgersi in un asciugamano vicino a lui… con un ringhio da fiera si gettò a tutta forza contro la leva, riuscendo a farla scattare. «Fatto!» ruggì, trionfante «Via di qua, ora, subito!».
Un gorgo enorme cominciò a prendere forma pochi metri più avanti, e l’acqua vi turbinò dentro con un rumore quasi assordante.
Griša e Kim si fecero strada controcorrente, tenendosi per mano, e si fermarono solo quando furono al sicuro nel giardino.
Pioveva ancora forte, ma il pericolo era scongiurato: tornasse anche il nubifragio, ora che i canali di scolo erano aperti non c’era più nulla da temere, e il lavoro più difficile sarebbe stato soltanto asciugare la casa.
Si accasciarono sotto una tettoia, sfiniti, prima di entrare nell’atrio. Rivoli di acqua fredda grondavano loro dai capelli, ed entrambi battevano i denti: in quelle zone così alte, anche un semplice acquazzone faceva scendere a picco la temperatura.
Nello sgabuzzino c’era ancora un mucchio di stracci impolverati ma puliti: Griša li stese accuratamente per terra, iniziando ad asciugare, ma prima di qualunque altra cosa era riuscito a recuperare un ampio asciugamano. Quando alzò lo sguardo dal pavimento ormai asciutto, vide Kim rannicchiata sul divano ben avvolta nell’asciugamano: appoggiata sul bracciolo c’era ora anche la sua maglia. Si sentì in imbarazzo, e si affrettò a deviare l’attenzione: «Vuoi del latte caldo nel caffé? Si sarà raffreddato». Senza aspettare la conferma le portò il vassoio, e sparì in camera a cercare qualcosa da mettersi.
Aveva soltanto pochi vestiti, avendo considerato di fermarsi a San Pietroburgo appena un paio di giorni… ma era come se sapesse che la sua permanenza lì sarebbe durata molto di più. Southampton sembrava già così lontana, di nuovo, come due anni prima. Usando il lembo di un lenzuolo si asciugò i capelli, ora abbastanza corti da stargli irti sulla testa, e gettò in un angolo i vestiti coperti di fango. Solo allora si accorse di un dettaglio: aveva tirato fuori anche una maglietta da prestare a Kim, ma i suoi vestiti dovevano essere rovinati. Come sarebbe tornata a casa? Poteva chiamare Lillie e farsi portare qualcosa, ma… sicuramente lei non avrebbe risparmiato qualche battuta sarcastica.
Kim era ancora sul divano, ben coperta dall’asciugamano, con una tazza fumante in mano. Per un folle istante parve parte integrante della casa, e Griša le si sedette accanto, sempre avvolto in quella vaga atmosfera un po’ da sogno. «Sei stata fantastica, prima» sussurrò, ammirato «Se non fosse stato per te, non ce la saremmo certo cavata così bene».
In quel momento successe ancora qualcosa di strano, ma perfettamente assuefatto a quella strana aria onirica: Kim si accomodò meglio, appoggiandogli la testa su una spalla e rilassandosi con un sospiro. Gli teneva una mano appoggiata su un ginocchio, così vicina che lui avrebbe potuto stringerla senza quasi spostare la sua. Per evitare la tentazione spostò discretamente il braccio, e si ritrovò a tenerla quasi stretta a sé. Lei non aveva fatto una piega: gli si era semplicemente abbandonata a fianco, stanca. Erano soli, nessuno con quel tempaccio si sarebbe azzardato ad uscire e tantomeno a recarsi a Domland: potevano prendersi un meritato momento di riposo, per quanto inspiegabilmente tenero potesse essere.
Griša la abbracciò, stavolta sul serio, con il cuore che batteva forte eppure apparentemente tranquillo. Poteva quasi percepire la pelle vellutata di lei sotto l’asciugamano, avrebbe voluto sfiorarla con una carezza, e lo stava pensando con tanta forza che per un attimo non si rese conto che quella richiesta gli era stata rivolta davvero. Kim era incredibilmente vicina, gli sembrava di affondare nei suoi occhi neri, e con un gesto che voleva apparire spavaldo ma che fremeva di incertezza le sfiorò il viso con una lunga carezza, scostandole la frangia. «Sei così esile che ho paura di perderti» bisbigliò, acutamente consapevole dell’esigua distanza tra loro che diminuiva via via.
«Perdermi?» ripeté lei. Gli affondò le dita sottili tra i capelli, sulla nuca, facendolo rabbrividire involontariamente, e gli impedì qualsiasi risposta posando le labbra sulle sue.
Porsi domande durante una scena così sarebbe stato da folli. Kim era veramente bellissima, speciale, e Griša se ne era reso conto subito. Ma quello era davvero troppo, ben oltre qualsiasi sua aspettativa delle più rosee! Con una carezza più ardita le scivolò sulla schiena, ricambiando sempre più appassionatamente quel bacio straordinario, mentre la devastazione del mondo sotto la bufera diminuiva ed era sminuita dal crollo imponente di tutte le sue barriere interiori. Southampton? Casa? No, non voleva più pensarci, o meglio non era già più in grado.
Erano distesi sul divano, a baciarsi piano, con gli occhi chiusi e completamente rilassati, quando Griša si fermò e propose, rauco: «Vieni di là?».
La camera da letto era buia, con il biancore del lenzuolo che appariva e scompariva nell’intermittenza dei lampi ormai lontani. Lo scroscio della pioggia, ora, sembrava quello di un grigio pomeriggio autunnale.
Griša e Kim si sdraiarono sul letto, abbracciati stretti, a respirare il fresco contatto della pelle ancora lievemente umida e libera dai vestiti. Tutto aveva l’aura vibrante e irreale di un vivido sogno dal quale non si riesce a svegliarsi… o non si vuole.
Kim, sensuale e provocante, lo tirò dolcemente verso di sé e sorrise impercettibilmente quando lo sentì assecondare i suoi movimenti nonostante una sorta di leggera tensione. Si soffermò un po’ a guardarlo, con gli occhi socchiusi nella penombra persi nei suoi, e si rese conto in quel momento che non avrebbe saputo facilmente fare a meno di lui. Quella luce circospetta e vagamente malinconica che gli oscurava l’espressione dolcissima sembrava rispecchiare i suoi stessi pensieri. «Vieni qui» mormorò, sfiorandogli il collo con baci leggerissimi. E lui, completamente perso, sprofondò in quell’abbraccio ben più intenso dei precedenti trattenendo per un attimo il respiro, incredulo.
Fare l’amore dolcemente, ascoltando le reciproche sensazioni fino alla fine: era una novità per entrambi, una delicata passione che non trovavano da anni, una tenerezza nella quale si aspettavano a vicenda per andare avanti insieme, per poi crollare abbracciati forte l’una sull’altro.
«Non potrei già più stare senza di te… briciolina» mormorò Griša, pur consapevole del rischio a cui andava incontro con una frase così diretta. Il tempo rimase sospeso sulle sue parole, già il silenzio sembrava fare paura, ma poi Kim lo rassicurò con un interminabile bacio che non lasciava spazio ai dubbi e rendeva inutili tutte le parole.

* * *

Quella sera, l’ultima prima dell’incontro con Girolamo, Lillie e Kim rimasero sveglie a lungo a parlare. Anche loro erano molto tese, sapevano perfettamente che se qualcosa fosse andato storto avrebbero passato tutti e tre dei seri guai, e cercavano nelle ore sempre più scarse di ponderare tutte le ipotesi. «Gli hai detto tutto?» domandò Lillie per l’ennesima volta «Rivoltelle, droga, gentaglia, il pericolo di trovarlo ubriaco o fuori di sé, l’ambiente orribile di quel quartiere, la casa lurida? Gli hai ricordato di stare zitto se non interpellato, di evitare qualsiasi commento o battuta?». Kim, spazientita, sbuffò: «Lo sa! Ho paura per lui, ma gli ho detto tutti i dettagli e non è uno stupido: sa quando è il caso di rigare dritto senza controbattere».
Non potendo fare altro per il momento, lei rinunciò all’interrogatorio e si sdraiò vestita sul suo letto, con Dylan accanto. Teneva gli occhi fissi nel buio, e quando finalmente si decise a parlare lo fece con un filo di voce: «Sei stata con lui solo per convincerlo ad aiutarci, vero?» chiese «Sei riuscita a sedurre il suo cuore notoriamente di pietra, non pensavo che qualcuno l’avrebbe rifatto, e con questo possiamo contare su di lui quando si tratta di Girolamo. Ma se sbagliasse anche solo un minimo particolare? Dovrebbe fuggire da qui, scomparire senza lasciare traccia, e…».
Kim era ancora seduta in fondo al letto, avvolta in una lunga camicia da notte, e la guardava inorridita e un po’ delusa: «Per convincerlo ad aiutarci?» la interruppe «Come hai potuto pensare di me una cosa simile? Quello che è successo, è successo perché lo volevamo entrambi, e sono stata benissimo con lui. L’unica cosa che temo è che il suo cuore blindato possa chiudersi un’altra volta: è diffidente, ha avuto bisogno di tempo prima di lasciarsi andare, anche se è troppo orgoglioso per ammetterlo; però quando mi ha abbracciata ho percepito tutta la sua incertezza, aveva paura che fosse un inganno, e io non voglio che abbia questi dubbi. Perfino “dopo” non era tranquillo: si stava per addormentare appoggiato a me, e nello stesso tempo cercava di star sveglio per tenermi per mano, come se solo così potesse impedirsi di soffrire un’altra volta. Griša vuole fare il duro, ma nasconde sentimenti dolcissimi che forse non ha mai avuto modo di dimostrare a nessuno. Vuoi la verità? Spero…».
«Ti stai innamorando di lui» la interruppe Lillie, scuotendo rassegnata la testa «E, da come l’hai descritto, sembra che anche lui sia della stessa idea. Ora: avete intenzione di lasciare tutto e fuggire insieme? O preferite rimanere a fare la coppietta smielata davanti a me per ricordarmi quanto invece ha sofferto Haku?». C’era tanta amarezza nelle sue parole che Kim temette di vederla scoppiare in singhiozzi, ma non aveva intenzione di farsi fermare da nessuno, nemmeno dalla sua amica più cara. «Mi conosci da abbastanza tempo da sapere che non lo farei mai» le rispose «Capisco quanto tu possa essere addolorata per quello che è successo, e sono convinta che la cosa migliore da fare ora sia dormire un po’ prima della giornata difficile che ti aspetta. È la tristezza che ti fa parlare così, o almeno me lo auguro. Sai bene che io non ti abbandonerò, ma non voglio abbandonare nemmeno Griša se davvero c’è qualche possibilità di tenerlo con me: avrai un alleato in più, semplicemente».
Concluso il discorso, le due amiche si addormentarono nei loro letti, ma Lillie tardò a prendere sonno: certa di non essere udita da nessuno abbracciò suo figlio e pianse silenziosamente nel cuscino. Quello era troppo anche per lei, e l’unico che davvero era riuscito a farla stare bene – almeno finché lei gliel’aveva concesso – ora non c’era più. Tutto le appariva inutile, fiacco, insensato.
Dall’altra parte di Domland, solo nell’appartamento di Haku, Griša pensava a Kim osservando l’argine spezzato dal diluvio illuminato da una pallida luna bianca. Era successo tutto talmente in fretta che ancora non riusciva a rendersene conto, e tremava al solo pensiero di essersi sbagliato: voleva cacciare fuori dalle mura del suo cuore quel ricordo dolcissimo, e ogni volta rivedeva nel buio quegli occhi neri persi nei suoi, sentiva quei capelli di seta posati sul suo petto, le loro dita intrecciate, le loro labbra che si sfioravano appena. Non ricordava di essersi mai sentito così prima di allora: più si sforzava di pensare all’intensità delle sue due grandi storie precedenti (Bettina ed Estel), meno ricordi gli riaffioravano alla memoria. Tutto portava in un’unica direzione: all’improvviso, senza rendersene conto, si era innamorato. Dolcemente, fiduciosamente, meravigliosamente, si era innamorato di Kim. E non aveva detto di non poter più vivere senza di lei per fare il romantico o per conquistarla: aveva detto esattamente quello che pensava in quel momento.
Al pensiero di Lillie gli occhi gli si incupirono, diffidenti: avrebbe mai permesso una cosa simile? Aveva tutta l’aria di un comandante indurito dalla guerra che non ha certo tempo per pensare alle frivolezze dell’amore; e Kim non faceva che ripetere che “le doveva tutto”, quindi era impensabile che di punto in bianco lasciasse ogni cosa per fuggire con lui. Era riuscito a carpirle parecchi indizi sul misterioso lavoro della sua capitana, e non lasciavano presagire nulla di buono.
Lillie gestiva un imponente esercito impenetrabile, del quale le autorità pubbliche erano completamente all’oscuro, e nessun estraneo poteva avvicinarsi ai loro luoghi di riunione senza incappare in qualche insospettabile trappola. Viveva nella costante angoscia che tutto il suo gioco a livello mondiale venisse scoperto, non poteva fidarsi di nessuno eccetto che della sua vice Kim: non era da biasimare se cercava di tenerla sotto controllo, anche a costo di apparire ossessiva o spietata. Addirittura, si poteva quasi giustificare il suo gelido comportamento nei confronti di Haku. Lei era troppo impegnata con Dylan e con quell’organizzazione indecifrabile per pensare alle piccole delizie dell’amore, mentre Haku viveva solo con i suoi sospetti che, alla lunga, gli erano apparsi tragicamente reali: un miscuglio micidiale che non lasciava uscite.
Ripensando a quanto Kim gli aveva rivelato, Griša notò che tutto aveva un suo filo logico, e portava esattamente alla soluzione che lui avrebbe invece voluto smentire: Haku era veramente impazzito, e si era suicidato. A dirla poeticamente, era stato ucciso dai suoi stessi fantasmi. Restava fuori soltanto un punto da chiarire: tutti gli uomini di Lillie. Haku aveva insistito soprattutto su quello, era certo che lei l’avesse tradito innumerevoli volte e senza alcun rimorso, ma ora che l’ipotesi della sua degenerazione mentale appariva sempre meno sfocata anche quello doveva essere considerato di nuovo, e possibilmente da altri punti di vista. Sicuramente Kim la sapeva lunga sulla questione, ma lui non aveva nessuna intenzione di rovinare quel delicato rapporto appena nato tra loro – ormai aveva deciso di considerarlo tale – con una squallida sfilza di domande: poteva cavarsela da solo come aveva sempre fatto, indagare discretamente e giungere alle sue personali conclusioni. Southampton poteva aspettare molto a lungo.
Aveva a disposizione anche un’altra fonte che ancora non aveva considerato: Girolamo. Anche lui aveva conosciuto Haku, specialmente negli ultimi, orribili tempi; pur dovendo fingere di essere lui, Griša poteva studiare il comportamento di Lillie e quello di Girolamo nello stesso momento. Ed era certo di poter scoprire altri punti interessanti.
Concluse le sue elucubrazioni, si avvoltolò nel lenzuolo e abbandonò la testa sul cuscino con un gran sospiro, pronto a galleggiare nel sonno. Non gli importava nulla di Girolamo, dei finesettimana che lo aspettavano da lì in avanti, dei pericoli cui andava incontro: tutto quello che contava, in quel momento, era Kim. Si addormentò cullato dal ricordo di lei, e per un brevissimo istante gli parve di sentirla ancora tra le sue braccia.

* * *

La prima impressione, per gli occhi abituati al sole abbacinante, fu di buio pesto: mancavano le finestre, in quel piccolo appartamento di periferia, e la luce che poteva entrare solo dalla porta a vetri opachi era schermata da pesanti tende nere. Subito dopo arrivò una zaffata di odore da chiuso e da sigarette spente, unito a quello più pesante delle innumerevoli bottiglie di birra semivuote rovesciate ovunque e delle cassette per i gatti stracolme. Griša indietreggiò istintivamente: per un attimo gli era parso di tornare nelle baraccopoli di Liverpool, quelle dei peggiori accattoni del molo che nessuno avvicinava, e Lillie lo sospinse avanti sibilando: «Ricordati cosa ti è stato detto». Teneva in braccio Dylan, vestito a festa, ma non sembrava avere la minima intenzione di lasciarlo scorrazzare in tutta quella sporcizia. Disgustata, allontanò con un calcio una bottiglia vuota e lasciò spalancata la porta, sperando che un refolo di vento pietoso diluisse l’aria irrespirabile. Vedendo il disagio del suo nuovo alleato, gli sfiorò un braccio e bisbigliò a fior di labbra: «Fatti coraggio».
Una voce roca, intorpidita dal pesante sonno alcolico, parve farsi strada nell’aria densa: «Ciao, gioia» grugnì in uno sbadiglio «Aspetta un momento, sto arrivando, mi sono appena svegliato». Erano le quattro del pomeriggio, ma nessuno commentò.
E poi Girolamo Di Santo uscì dalla sua tana massaggiandosi le tempie e strizzando gli occhi nella luce. Era a torso nudo, come per sfoggiare il fisico possente anche se non più allenatissimo, e anche così dava tutta l’impressione di essere una persona boriosa ed estremamente piena di sé, tant’è che prima di entrare nel salotto si diede un’occhiata vanesia allo specchio. Con le mani enormi e segnate di cicatrici prese in braccio Dylan, che esibiva un sorriso di circostanza pur essendo ancora così piccolo, e lo sollevò fin quasi a sfiorare il basso soffitto a travi; poi lo lasciò andare, distraendolo con un pallone, e si parò davanti a Lillie, vicinissimo.
Griša non riuscì a non strabuzzare gli occhi quando vide i due che si davano un lungo bacio sulle labbra, abbracciati stretti: quello era un punto che non gli risultava assolutamente. Chissà come si era sentito Haku davanti a scene del genere: forse era stata anche quella tortura continua a portarlo all’esasperazione! Ma c’era dell’altro: per quanto Lillie dicesse di odiare Girolamo, non sembrava tirarsi indietro davanti alle sue effusioni; addirittura, di tanto in tanto gli accarezzava le spalle e le mani di sua spontanea volontà.
Finalmente Girolamo si rivolse anche a lui: «Haku, vecchio mio» osservò in tono distaccato «Ti trovo meglio del solito: hai iniziato ad andare in palestra?».
Griša lo studiò in una rapida occhiata: era impercettibilmente più basso di lui, ma molto ben piantato, tanto che quelle braccia muscolose e tatuate lasciavano intendere una forza contro la quale era meglio non trovarsi. Lo fissava da sotto i cortissimi capelli biondo scuro, e aveva gli occhi di un intenso verde che cambiava a seconda della luce, come Haku, ma l’espressione era fredda e arrogante. «Già» rispose infine «Ero stufo di allenarmi da solo a Domland, e poi in palestra ho conosciuto anche un sacco di ragazze che sembrano avere una spiccata preferenza più per me che per gli esercizi che devono fare».
Percepì più che vedere il balenio di paura in fondo agli occhi di Lillie, e capì subito che Haku non avrebbe mai potuto dire nulla del genere; ma Girolamo sorrideva divertito, e non sembrava aver notato niente di diverso dal solito. «Potrei prendere in considerazione l’idea di seguirti» disse «Se non fossi costretto a pagare da solo tutto l’affitto di questa casa».
Per evitare ulteriori spropositi, Griša lasciò perdere il discorso e chiese umilmente il permesso di sgomberare il tavolo invaso dalle bottiglie vuote per mettersi a studiare qualche ora, e poté tirare un sospiro di sollievo quando, con i libri spalancati davanti, seppe che nessuno l’avrebbe più considerato fino all’ora di tornare a casa.
Da quell’angolazione poteva tenere d’occhio tutto l’ambiente, e rendersi conto di persona di quanto Haku aveva scritto nel suo libro. Di certo, qualcosa doveva essere esagerato: Girolamo sembrava un padre affettuoso, ben contento di vedere Dylan e giocare con lui, ma immalinconito in partenza all’idea di avere solo poche ore da trascorrere con lui; eppure, per contrasto, c’erano l’aria viziata e il sudiciume di quel posto a bilanciare un giudizio altrimenti positivo.
Il terribile figlio del boss aveva preparato il caffé e gliene aveva appoggiata una tazzina sul tavolo senza disturbarlo, quasi premurosamente: doveva trattarsi di un rituale consolidato. Lillie, meticolosa, si era messa al lavoro nella casa: aveva raccolto tutte le bottiglie in uno scatolone, svuotato le cassette dei gatti, lavato i piatti e spazzato i mozziconi dal pavimento, e lui l’aveva ricompensata con un altro bacio.
Sempre più perplesso, Griša preferì tornare ai suoi studi. Era occupato a rimanere al passo con gli esami anche a San Pietroburgo, una volta recuperati i documenti necessari che Norbert doveva avergli già spedito: con Kim, l’idea di tornare a casa sua non esisteva più. Stava appunto pensando con l’ombra di un sorriso a lei, a quanto già la amava, quando un soffice pallone da spiaggia gli cadde sul quaderno facendolo trasalire.
Lillie, accoccolata sul divano di pelle gialla, rideva divertita dell’effetto sorpresa suscitato. «Eri talmente assorto» lo canzonò «Che se ti fosse caduto in testa avresti fatto un colpo!» «Fastidiosa» sbottò lui, alzandosi in piedi e calibrando la risposta. Sorrideva anche lui, ora, e non si pose nemmeno il problema di come avrebbe reagito Haku in quella circostanza: Girolamo non sembrava così spaventoso, e quell’ilarità era l’effetto della tensione che si dissipava insieme all’aria maleodorante del soggiorno. Lo vide con la coda dell’occhio fargli un cenno, e prontamente lanciò il pallone verso di lui tra i versi compiaciuti di Dylan. Un attimo dopo, con un calcio precisissimo, Girolamo fece finire il pallone in grembo a Lillie che, non essendo preparata a parare da quell’angolazione, spalancò gli occhi stupita.
Erano sciocchezze, passatempi da bambini, eppure in quel momento nessuno pensava a nient’altro se non a quel gioco. Dov’erano la spietatezza e la superbia del padre di Dylan? Lillie, con il pallone stretto tra le mani, si piazzò davanti a Griša e tuonò: «Complotti con il nemico?». Aveva lasciato partire la sua arma, ma Griša era stato più rapido: aveva parato l’attacco con un colpo netto. Il pallone, leggero ma molto vicino, le rimbalzò in faccia facendole finire gli occhiali di sbieco sulla fronte.
Tutta l’azione non era durata più di cinque secondi, ma quel finale parve arrivare al rallentatore. Girolamo, che aveva seguito da spettatore, rimase un istante a bocca aperta prima di scoppiare a ridere disteso sul divano: «Grandissimo, Haku!» starnazzò, con le lacrime che gli affioravano tra le ciglia. Si teneva le mani strette ai fianchi, incapace di frenarsi, e in un attimo anche Griša rimase contagiato.
Se qualcuno li avesse visti in quel momento, paonazzi e in preda a convulsi di risate, non li avrebbe nemmeno riconosciuti! Erano giunti al punto di stringersi cameratescamente la mano – la sinistra, essendo entrambi mancini – come due comandanti vittoriosi.
Gli sforzi di Lillie per fingersi offesa erano vani di fronte a quella scena: prima di immusonirsi con entrambi dovette costringersi a fare un sacco di smorfie nel tentativo di non unirsi al coro di risate, ma recuperò ampiamente più tardi rimanendo per tutto il resto del pomeriggio a sonnecchiare sul divano.
Griša e Girolamo la lasciarono fare: erano intenti a giocare con Dylan sullo spiazzo davanti a casa. Avevano riempito di acqua tiepida una piccola piscina gonfiabile, e mentre il piccolo sguazzava beato loro si stavano affrontando in una battaglia a secchiate. Avevano lanciato le magliette fradice su uno stendibiancheria al sole, e per caso quel giorno indossavano entrambi un paio di pantaloni mimetici: in grigio l’uno, in verde l’altro, sicché sembravano davvero due militari in fase di svago.
D’un tratto Girolamo si fermò, con Dylan avvolto in un asciugamano in braccio, e come se si trattasse di un discorso qualsiasi commentò: «Sei un personaggio strano, Haku». Griša socchiuse gli occhi, interrogativo, e lui riprese: «Ti ho sempre visto immobile e zitto in un angolo, a studiare o a scrivere qualcosa, e anche se qualcuno ti rivolgeva a parola tu rispondevi a monosillabi. Come mai oggi sei così di buonumore? Sembri un’altra persona. Credevo che tu, come tutti, avessi paura di me, e sinceramente non saprei come sfatare tutti i miti che si sono formati sul mio conto, perché si basano – purtroppo – sulla verità; ma oggi ho dovuto ricredermi, per quanto ti riguarda...».
«Si è innamorato». La voce di Lillie giunse dal salotto con una punta di malizia: «Di punto in bianco, lui e Kim si sono innamorati. Già, proprio la mia fedelissima!».
Solo al sentire quel nome, Griša si illuminò e sorrise raggiante: Lillie non aveva forse appena parlato di un sentimento reciproco? «Già» confermò, addolcito «Un autentico colpo di fulmine». E con quello, se veramente – come Lillie ripeteva spesso – Girolamo aveva intuito qualcosa della sua storia con Haku, ora poteva mettere nel cassetto tutti i dubbi.
Girolamo era palesemente compiaciuto dalla notizia: se in pochi minuti aveva rivalutato il misterioso personaggio col quale si era tanto divertito, ora lo considerava già un compagno di chiacchierate e divertimenti. Gli si rivolse in quella strana lingua che Kim parlava spesso tra sé, e Griša dopo un attimo di esitazione ammise, cauto: «Mi dispiace, non ho ancora imparato…». Faceva tenerezza così, alle prese con le sue prime parole di sinto. Abituato com’era a studiare non si poneva la difficoltà di imparare una lingua nuova: gli erano bastate poche settimane per imparare il russo quando era arrivato a San Pietroburgo, studiava da anni il greco e il latino, e per puro divertimento personale era riuscito a padroneggiare anche l’elfico. Che problema poteva mai rappresentare una nuova lingua? Gli avrebbe solo fatto piacere sfoggiare qualcosa di nuovo, decise, e Kim era la persona migliore per insegnarglielo. Ammesso che ne avessero il tempo tra un bacio e l’altro.
Dylan, asciutto e avvolto nell’asciugamano, era ora in braccio a Lillie e stava succhiando il latte con gli occhi chiusi: era stanco, e a poco a poco si assopì. Così sereno, immobile in braccio alla sua mamma, era straordinariamente simile a lei. Di suo padre aveva ereditato solo la forma delle labbra, che ora teneva dischiuse nel sonno, e il colore biondo dei capelli appena un po’ più scuro. «Mio figlio» sussurrò Girolamo con una punta di commozione, sfiorando la testolina abbandonata «Deve crescere bene, non come me. Gli prometto che sarò un buon papà, farò del mio meglio per esserlo, e non permetterò mai a nessuno di fargli del male. Non ho mai provato nulla di simile, amo Dylan come non ho mai amato nessuno; quanto vorrei poter fare qualcosa di più!».
Sarebbe stato toccante se Griša non avesse letto tutt’altro nelle feroci descrizioni di Haku; certo, c’erano l’odio e l’invidia a falsare qualsiasi giudizio, ma anche Lillie stessa aveva detto di lui peste e corna, e l’espressione scettica che si sforzava in tutti i modi di nascondere confermava tutti quei sospetti.
Girolamo, ignaro delle rapide occhiate di intesa che gli erano saettate intorno, stava continuando con il suo monologo: «Mia madre non ha mai saputo occuparsi di me, mio fratello e mia sorella; mio padre è un assassino che si è macinato quindici anni dietro le sbarre. Io sono stato in una comunità, sono scappato di casa insieme agli zingari e ai giostrai, sono cresciuto da solo e non avete idea di quanto abbia sofferto in quasi trent’anni di vita. Sono diventato quello che sono per difendermi, attaccando prima di essere attaccato, mi andava bene che tutti mi portassero rispetto per soggezione o per paura; ma adesso questa reputazione si è fatta insostenibile, non sono mai stato così solo, e sto iniziando a non resistere più qui, in un appartamento da solo. Vorrei tornare dove abitavo prima: per quanto malfamato fosse quel quartiere di casermoni, ero comunque circondato da amici e conoscenti, e a poca distanza dal centro, ma purtroppo non ho i soldi necessari per fare restaurare l’attico che un incendio – doloso, ne sono sicuro – ha distrutto».
Eccolo all’opera, esattamente così come era stato descritto: prima la storia della sua vita difficile, poi un vittimismo latente, infine il nocciolo economico della questione.
Norbert Oldfield non avrebbe esitato un momento a regalargli un assegno in bianco, intenerito, e se ne sarebbe poi tornato nella sua villa a registrare con un sorriso la spesa nel suo quaderno della contabilità. Con Girolamo nel suo vecchio quartiere, Lillie avrebbe avuto più respiro dato che tutti i suoi amici gli avrebbero occupato le giornate interminabili. Ovviamente la situazione aveva i suoi pro e contro, ma era complessivamente sostenibile.
E così, davanti allo sguardo allucinato di Lillie e a quello per metà diffidente e per metà conquistato di Girolamo, Griša tolse di tasca un migliaio di rubli e li appoggiò sul tavolino, con una laconica spiegazione: «È tutto quello che ho, ma dovrebbe essere sufficiente».
Poteva leggere l’ira nelle occhiate di Lillie, e quasi sentì la sua voce inviperita che tuonava: «Quanto sei imbecille! Quei soldi finiranno tutti in droga!».
Girolamo, tuttavia, era molto serio. Prese i soldi, banconote fruscianti, con gli occhi che brillavano di desiderio; una parte di lui, troppo orgogliosa, voleva restituirli, mentre un’altra parte più sfacciata gli suggeriva di intascarli con qualche moina di ringraziamento. Fu sorpreso lui stesso quando si udì rispondere, umile: «Tu sei un bravo ragazzo, l’ho sempre pensato. Tutto questo denaro in mano mia finirebbe sperperato, lo so bene; Haku, Lillie, volete occuparvene voi? Ve ne sarei grato».
Se Lillie non avesse avuto Dylan tra le braccia sarebbe scattata in piedi, incredula: era veramente lui Girolamo Di Santo?
Con un sorriso, Griša annuì, e quando giunse il momento di andare a casa vide per la prima volta lo sguardo del nemico posarsi su di lui privo di qualsiasi connotazione negativa: «Grazie» bisbigliò Girolamo attraverso la fessura della porta, e lui gli rivolse una dignitosa alzata di spalle che poteva significare solo una parola: «Figurati».

* * *

Per tutta la durata del viaggio di ritorno, Lillie non fece che inveire contro Griša: «Ora Girolamo ti chiederà soldi tutti i giorni!», ma lui non sembrava preoccuparsi: «Norbert mi ha sempre mandato assegni sostanziosi» ribatté «Alla fine del mese avevo il portafogli ancora pieno, ma basta non dirlo a Girolamo se credi che possa essere così approfittatore: potrei essere solo un povero scemo che gli ha dato il suo ultimo copeco e che ora è costretto alla fame».
Non gli importava nulla delle conseguenze delle sue azioni: l’unica cosa che contava era Kim. Aveva passato brillantemente la difficilissima prova di affrontare Girolamo, e ora Lillie non poteva fare altro che lasciarlo stare insieme a lei senza controbattere.
C’era qualcosa di gelido e cattivo che le brillava negli occhi, ma Griša non vi fece caso. Era il 9 giugno, e se Haku fosse stato ancora vivo a mezzanotte sarebbe scaduta la loro ricorrenza: un anno insieme. Forse era per quello che Lillie era così nervosa.
Quella sera, infatti, non si fece vedere: appena messo a letto Dylan, era scesa lungo le scale che portavano nello scantinato del condominio e non si era più fatta viva, delegando a Griša e Kim il compito di portare a passeggio il cane per le tranquille vie intorno al porto. I due, ben felici di avere del tempo da dedicare solo a loro, sgattaiolarono fuori prima di essere coinvolti in qualche altra attività.
Dall’altra parte della Neva, dove le acque torbide si immettevano nel mare, le strade erano ancora quelle di tanti decenni addietro: il cemento sconnesso e rattoppato in più punti sprofondava a tratti sui marciapiedi sbeccati e ormai resi lisci da tanti passi che l’avevano calcato. Anche le case non avevano nulla a che vedere con il centro della città: erano condomini popolari, alti e assiepati, con le finestre piccole e oscurate dalle medesime veneziane marroni o grigie; alla luce giallognola dei pochi lampioni polverosi e trascurati, tutto sembrava avvolto in una sfumatura acromatica, ma in certi tratti completamente privi di luce le stelle sembravano infinite e luminosissime. Ogni stradicciola, in quel dedalo di case, si intersecava a una mezza dozzina di altre che portavano negli angoli di quartiere più impensati, e già dopo l’ora di cena era raro incrociare qualcuno.
I due camminavano piano, in silenzio, tenendosi per mano: i loro pensieri erano gli stessi. Era Kim a fare strada, conoscendo a memoria ogni viottolo, e in breve giunsero all’estrema periferia, confinante con la zona industriale e la grande centrale elettrica piena di tralicci e torri d’acciaio svettanti contro il cielo stellato. Intorno, soltanto campi coltivati che aspettavano la torrida estate per dare i loro frutti.
Si trovavano in un ampio parcheggio dietro a vecchie fabbriche abbandonate, delimitate da cumuli di detriti che nella luce della luna nel suo primo quarto apparivano quasi spettrali. I gatti randagi gnaulavano dietro i cassonetti rovesciati e negli scatoloni afflosciati tutt’intorno. Un edificio grigio troneggiava in fondo al parcheggio: era un supermercato ormai abbandonato da chissà quanto tempo, e alla sua ombra la notte sembrava impenetrabile.
«Che desolazione» commentò Griša, ma non era estraneo a quegli ambienti da derelitti: la sua Liverpool era esattamente così. Kim si guardava intorno, e come se stesse raccontando una fiaba triste spiegò: «Una volta trascorrevamo qui l’estate. Arrivavamo in carovana, ogni roulotte aveva il suo posto definito, e ci guadagnavamo da vivere nelle piazze o lavorando questi campi. Spesso riuscivamo anche ad organizzare qualche spettacolo in piazza, fino a quando gli sbirri e tutti i ricconi che li finanziavano hanno deciso che nessuno zingaro si sarebbe più accampato qui. Abbiamo resistito fino alla fine: fino a quando, una notte piovosa di primo autunno, i nostri caravan sono stati irrorati di benzina usando probabilmente un irrigatore da campi. Avevamo i fuochi accesi, bidoni di cherosene fuori da ogni porta: in un attimo tutto ha preso fuoco. In una sola notte ho perso tutta la mia famiglia, e da allora non mi sono più spostata da qui. È stata Lillie a trovarmi e ospitarmi, e il suo esercito a vendicare tutta la mia gente: dei nostri assassini non è rimasto vivo nessuno, e nessuno ha mai scoperto chi li abbia decimati tutti con tanta precisione. Ogni tanto passo da questo spiazzo, su cui una volta alcuni nostri amici piantavano il loro circo, e spesso mi capita ancora di vedere i carrozzoni esattamente così come erano quando vivevo qui. Se ascolti attentamente, sembra quasi di sentire ancora i canti e i violini intorno ai bivacchi».
Griša si era accostato al muro del supermercato, e lasciava vagare lo sguardo sul cemento annerito dall’incendio. Lui, almeno, non aveva mai conosciuto i suoi genitori. Avrebbe voluto dirle qualcosa, qualunque cosa pur di dissipare quel mesto silenzio, ma non fu necessario: Kim gli si avvicinò e, esitante, gli appoggiò la testa su una spalla. «Ora che ci sei tu, però» disse «Anche il dolore sembra attenuarsi».
Era veramente piccola e dolce, così abbracciata a lui: Griša non avrebbe più voluto lasciarla andare. Aveva una sola domanda, un solo pensiero, ma temeva di rovinare l’incanto azzardando fino a quel punto. Assaporava il profumo dei capelli lisci che stava accarezzando, il lieve contatto delle sue labbra sul collo, e di colpo realizzò che non sarebbe più riuscito a trattenersi. Le scostò i capelli dal viso, scivolando con le dita tra quei fili di seta, e rimase un momento a contemplarla incantato. Era comunque troppo avanti per fermarsi ora. «Zingarella» mormorò «Vorresti metterti insieme a me?».
Non era stata un’uscita eccezionalmente romantica, si rimproverò subito: proprio lui, il grande scrittore, si sentiva le parole strozzate in gola mentre avrebbe voluto dichiararle tutto il suo amore.
Ma Kim lesse ben oltre quella semplice domanda, e il cuore le balzò nel petto mentre sospirava in un bacio lento che sembrava non dover finire mai: «Sì, amore, sì».
Mezzanotte era appena scattata, incorniciando di rintocchi lontani il loro inizio: era il 10 giugno. Un anno prima, e perdipiù alla stessa ora, anche Haku e Lillie si erano persi nella medesima tenerezza.
Non c’erano parole sufficientemente intense per rispondersi, era impossibile staccarsi da quel bacio: appena si fermavano, guardandosi negli occhi rapiti, non potevano fare a meno di stare fermi per molto tempo. «Mi sono innamorato» ammise Griša «Innamorato veramente per la prima volta in vita mia». Kim non gli diede il tempo di aggiungere altro. «Tesoro…» le fiorì sulle labbra, mentre gli accarezzava gli ispidi capelli sulla nuca. Nulla, in quel momento, avrebbe potuto sembrarle più dolce di lui che socchiudeva gli occhi un attimo prima di stringerla a sé.
Non vedendoli tornare, Lillie spense il monitor del computer e si prese la testa tra le mani. «Buon anniversario, mio principe» disse nel vuoto della sua stanza, un attimo prima di crollare in aspri e dolorosi singhiozzi «Spero che tu sia felice, là dove sei ora». Aveva le spalle magre scosse dal pianto, tutte le lacrime che aveva ricacciato indietro a forza ora le scorrevano in un rigagnolo dalle guance e cadevano in larghi cerchi sul legno sintetico della scrivania. Immaginò di avere Haku accanto, di avere aspettato mezzanotte insieme a lui, e quasi si voltò per perdersi in un bacio: ritornò in sé solo quando vide la camera deserta. L’ultima immagine che aveva avuto di lui la faceva star male dal rimorso: la sera prima di togliersi la vita avevano litigato violentemente, e Haku si era rincantucciato in un angolo a piangere in silenzio, leggendo attraverso le lacrime silenziose i suoi dialoghi affettuosi con Willy. Non aveva più osato aprire bocca. «Quanto sei paranoico» gli aveva ringhiato lei, negando la spudorata evidenza «Tra me e loro non c’è niente! Vattene a casa, sparisci, sono stufa di vederti lì a fare il cane bastonato!». Fu sul punto di urlare di dolore, rivedendo nel ricordo quei grandi occhi verdi spalancati su un abisso. «Scusami, amore» mugolò, stringendo convulsamente i pugni «Dovunque tu sia, scusami».
Griša e Kim si erano arrampicati sul tetto del supermercato, e da lassù guardavano abbracciati i fuochi d’artificio sul ponte della Neva. Le scintille colorate sembravano così vicine da poterle afferrare solo allungandosi un po’, ma entrambi avevano le mani occupate ad accarezzarsi in quel morbido contatto.
Alla fine dello spettacolo pirotecnico, però, Kim parve svegliarsi da un sogno: «Povera Lillie» pensò ad alta voce «Stanotte sarebbe stato il suo anniversario». Griša si incupì subito: «Già, chissà quali atroci delusioni avrebbe fatto passare ad Haku» ribatté «Da quello che ho letto, sembrava che le litigate peggiori capitassero proprio nei mesiversari, tanto per rendere quei giorni ulteriormente tristi per lui». Aveva imparato a fare i conti con la durezza militare di Lillie, e osservava il tutto attraverso il caleidoscopio degli incubi di Haku: mai sarebbe riuscito a considerarla diversamente da una ragazza facile e senza sentimenti, e nemmeno le più convincenti parole di Kim avrebbero potuto fargli cambiare idea.
«Nello stesso giorno» stava considerando lei, avvilita «Ogni mese che io e te festeggeremo, sarà una pugnalata per lei. Dovremo avere una grande delicatezza nei suoi confronti: promettimi che non mi deluderai». Era impossibile non cedere di fronte a tanta genuina sincerità: pur sospirando frustrato, lui annuì.
Quando, dopo un lungo bacio di buonanotte, Kim salì in punta di piedi le scale del condominio, Lillie era ancora sveglia. Aveva ascoltato tutti i loro discorsi bisbigliati sotto la finestra, e ogni parola che confermava l’inizio della loro storia proprio quel giorno la feriva un po’ più a fondo. Non poteva farsi vedere in lacrime, però, era troppo per il suo orgoglio: cercando di frenare i singulti si raggomitolò sul suo letto e finse di dormire già profondamente. Non sarebbe mai riuscita a perdonarsi, ora lo sapeva, nemmeno se nell’aldilà avesse ritrovato Haku: che senso aveva la vita per lei? Troppo tardi se ne era resa conto, e ora poteva prendersela solo con se stessa.
Come ogni notte faceva prima di addormentarsi, come ogni mattina recitava appena sveglia, si rivolse mentalmente al ricordo di Haku: «Dormi bene, cucciolo mio, ti amo».
Avrebbe voluto averglielo detto quando poteva udirla.

* * *

Sulle prime Griša non si rese conto dei colpi dapprima leggeri e poi sempre più insistenti sulla porta: non era ancora l’alba, e lui era immerso in un sogno beato nel quale Kim lo invitava ad entrare in un carrozzone e lui le dedicava una serenata. Aprì gli occhi pigramente e vide Dwimmerlaik seduto come una statua ai piedi del letto, con le orecchie puntate in avanti e un miagolio vigile in fondo alla gola. Dimenava la folta coda scura, ma non voleva saperne di scendere dal letto. «Cosa succede?» sbadigliò «Cristo, le cinque del mattino: dev’essere successo qualcosa di grave». Si alzò scrollando la testa per liberarsi dal breve sonno, e ciondolò fino alla porta osservando distrattamente la sua ombra sulla parete: aveva i capelli irti sulla testa come una massa di aculei da istrice, mentre là dove Lillie glieli aveva tagliati più corti erano ancora perfettamente ordinati. Non che non gli stessero bene, ma uniti all’effetto dei pantaloni del pigiama stampati a piccoli fantasmini colorati si sentiva estremamente ridicolo.
Spalancò la porta con decisione, ansioso di mostrarsi pronto a qualunque cosa, e la voce gli morì di colpo in gola.
Girolamo troneggiava sulla soglia, con una corta mazza da baseball stretta in mano. Aveva un paio di pantaloni mimetici e una maglietta rossa, troppo stretta per i muscoli gonfi, su cui spiccava una stella verde; teneva i capelli ricciuti pettinati all’indietro, e gli occhi verdi spiccavano più che mai con uno sguardo assassino.
Griša vacillò, improvvisamente sveglio, e in un lampo considerò le manovre che avrebbe dovuto fare per raggiungere la finestra e tuffarsi fuori: era troppo lontano, ma con un minimo di fortuna poteva sperare di afferrare la spranga di ferro che teneva sempre pronta per ogni evenienza. Era talmente terrorizzato che, quando l’omaccione che aveva davanti parlò, non udì nemmeno le parole né riuscì ad aprire bocca.
Il temuto criminale assunse d’un tratto un’espressione sfiduciata, e sospirò: «Lo so che non è un orario decente, perdonami, ma avevo bisogno di parlare con un amico e mi sei venuto in mente tu».
Griša strabuzzò gli occhi: aveva sentito bene? Ancora ammutolito dallo spavento indicò tremante il divano, e Girolamo vi si sedette appoggiando la mazza sul tavolino… fuori dalla sua portata. «Grazie, Haku» grugnì. Ora, nella luce del lampadario, si vedeva che era completamente ubriaco. Aveva delle brutte escoriazioni sulle nocche, e la sua arma era coperta di inequivocabili spruzzi rosso scuro. «Sono uscito» raccontò in poche parole «Non resistevo più da solo, volevo cercare i miei amici di una volta, e di colpo mi sono trovato circondato da una dozzina di persone che volevano la mia pelle. Mi sono difeso, quattro di loro non si alzeranno più dall’asfalto, e io… non ce la faccio più».
Smarrito, Griša pensò a quello che Haku aveva scritto del suo nuovo ospite nel diario: l’aveva descritto come un bruto che per trent’anni si era creato solo nemici e false amicizie, che stava cercando di rifarsi una vita ma che non ci riusciva, schiacciato dal peso di un insopportabile passato. Non avrebbe saputo cosa dirgli nemmeno se l’avesse conosciuto bene quanto Haku.
«Tutto quello che vorrei» stava dicendo il giovane delinquente «È gestirmi tutto dal principio, una volta tornato nella mia vecchia casa. Smetterla con l’alcol e tutte le altre porcherie, per occuparmi solo di mio figlio, ma non ce la faccio: nessuno si fida di me, nessuno mi crede, e anzi tutti sono contro di me. Anche stanotte ho dovuto massacrare delle persone, e la cosa peggiore è che me la sono cercata io tutta questa schifezza! Soltanto Lillie mi ha amato per quello che sono, e ora mi vergogno di me stesso per quello che la obbligo a fare: sento che il suo affetto è un gesto sforzato, sono costretto a mantenere la messinscena davanti alla mia famiglia per evitare le interminabili tiritere sulla discendenza, e intanto non so come uscirne!».
Lui, sempre più perplesso, ascoltava quello sfogo senza venirne a capo. Come poteva essere difficile evitare quel comportamento? Non riusciva assolutamente a capirlo. Il pomeriggio prima erano soli, non c’era nessun Di Santo a cui dimostrare che la famiglia dell’erede primogenito maschio si era irrimediabilmente spaccata, eppure c’erano state scene che avrebbero fatto impazzire Haku in ogni caso.
Girolamo abbassò gli occhi, e quando tornò a fissare Griša non aveva più niente di aggressivo: sembrava solo molto triste e molto deluso. «Nessuno crede che io possa voler bene a qualcuno. Tutti mi considerano uno stupido ammasso di muscoli senza cervello. Io amo Dylan, voglio bene a Lillie e ti considero un amico fidato; ma allora, perché imbrogliarmi così? Guardami: so benissimo cosa c’è stato tra di voi, ho capito che tu eri disposto a venire da me ogni finesettimana solo per compiacere lei, eppure non ho mai detto nemmeno una parola. Mi dispiace solo di essere stato costretto a farti assistere a scene spiacevoli per pura convenienza: forse è stato quello a sfaldare la vostra storia? O forse lei ti ha giudicato un vigliacco perché non ti sei mai fatto avanti per impedirmelo? Io non ti avrei biasimato: so che reputazione ho, so cosa ti possono aver detto di me, del terrificante Don Santino, del mostro dei quartieri malfamati: è tutto vero, o meglio lo era, ma ora sono cambiato… anche se non ho modo di dimostrarlo. Comunque: Lillie è persa per me, ma avrei preferito di gran lunga che scegliesse te piuttosto che chiunque altro». La sbornia gli stava passando rapidamente, aveva una ripresa invidiabile.
Griša, vincendo la paura intenerito, allungò una mano fino a posargliela su una spalla. «Lo so» rispose «A volte si è schiavi della propria immagine. Tu sei vincolato ad essere il figlio del boss, con moglie e figlio, temuto da tutti, e alla lunga chiunque con un minimo di sentimento avrebbe ceduto. Immagino che nessuno debba sapere che tu sei qui, adesso, vero?». L’altro annuì, e per una lunga pausa si udì solo il ticchettio della sveglia.
Il sonno ormai si era disciolto tra i primi raggi di sole. I due chiacchierarono molto a lungo, fino a quando sentirono lo scampanio del mattino trasportato sul vento dalla chiesa di periferia, scoprendo reciprocamente lati impensabili dei rispettivi caratteri. Avevano perfino alcune esperienze in comune, prima tra tutte la vita di strada, e potevano discutere certi di essere capiti: non capitava spesso. Griša stava ben attento a mantenere la sua parte, era sicuro che Lillie non avrebbe avuto alcunché da ridire, e si sentiva rilassato e al sicuro: era così ancorato alla recita che, quando i discorsi finirono e rimase solo un vigile mutismo scandito dal ticchettio dell'orologio sulla parete, nemmeno notò lo sguardo indagatore del suo ospite.
Fu Girolamo a rompere il silenzio, in tono quasi furtivo e alzando inconsciamente le mani per mostrarsi disarmato e inoffensivo. Tra parole, tre cubetti di ghiaccio: «Dov’è Haku?».
La domanda rimase sospesa nel vuoto gelido che si era creato. Se n’era accorto subito. La missione era fallita. «Sono stato anch’io al Number One, vi ho visti sempre insieme lì dentro» continuò: «Lui stava sempre con quell’altro dj, Andrej, ma la vera star eri tu insieme alla tua ragazza. Sei sparito dalla circolazione, e ora sei riapparso per coprire la sua scomparsa. Un ottimo gioco, molto astuto: siete fratelli di sangue, giusto? Gemelli? Siete due gocce d’acqua, ma è impossibile non notare che lui ha gli occhi verdi ed è biondo, e in più ha una cicatrice molto visibile. Tu sei il dj che c’era prima… Blacky?».
Griša si sentiva in trappola, e il suo cervello macchinava freneticamente alla ricerca di una soluzione o di una via di fuga. Girolamo, però, sembrava innocuo: non si era mosso di un millimetro, aspettava una risposta più con curiosità che altro. «Haku era malato?» aggiunse «Negli ultimi tempi era deperito moltissimo».
Poteva funzionare, ragionò Griša: Haku lontano per curarsi da qualche rara malattia… ma no, era una bugia senza fondamento, e se si fosse tradito Girolamo si sarebbe sicuramente infuriato. Quell'intesa, in fondo, poteva essere soltanto un altro astuto trucchetto: chi stava cercando di ingannare chi?
«Haku è…» rantolò. Dovette deglutire, risentendo l’eco di quelle stesse parole gracchiate nel telefono quando era ancora spensierato a Southampton, ma riuscì a concludere: «…morto. Si è tolto la vita. Stava molto male da mesi, era stremato dalle pene d’amore. Non ce l’ha fatta, si è suicidato con una scatola di sonniferi e tagliandosi le vene dai polsi ai gomiti».
Atterrito per l'enormità appena pronunciata, si rannicchiò sul divano, ma Girolamo sembrava pensare a tutto fuorché ad alzare le mani. Il problema, allora, era un altro: come spiegare a Lillie che il loro gioco era già finito? «Io non le dirò niente» disse il figlio del boss, azzeccando la causa delle sue paure «Se ti può evitare qualche disastro, farò finta di stare al gioco: continuerò a chiamarti Haku e non farò parola con nessuno di questa storia. Cristo, però... Haku, morto? Suicida? Ho visto Lillie trattarlo malissimo, spesso l'ho rimproverata io stesso perché stava esagerando, ma deve comunque essermi sfuggito qualcosa: che cosa l'ha spinto a un gesto così estremo? La guardava con una luce inequivocabile, un amore straziante, spesso ho pensato che tra loro ci fosse qualcosa e ho sempre preferito fare silenzio piuttosto che istigare ulteriori liti: erano insieme? Lei l'ha lasciato e lui non ce l'ha fatta?». Tutta quella girandola di interrogazioni poteva celare qualunque tranello, e Griša mentì: «Non so nulla di certo. Indubbiamente tra loro qualcosa c'era, ma non so se fosse corrisposto o no. Haku era innamorato perso di Lillie, ma lei... così dura e fiera... non lo so».
Erano quasi le dieci del mattino quando Girolamo lasciò Domland, pensieroso. Da molto tempo, ormai, non stava in compagnia di qualcuno con il solo scopo di chiacchierare: era abituato a stare in guardia con tutti i suoi conoscenti, a frequentare solo spacciatori e altri fornitori, a coprirsi le spalle, a girare armato, e ora non gli sembrava normale il tempo appena trascorso.
Griša gli aveva accennato qualcosa sull'esercito di Lillie, ma si vedeva che non ne sapeva molto. A differenza di lui, che portava ancora al collo la piastrina di metallo della Stella Verde. Aveva mollato tutto quando si erano lasciati, eppure non era una cattiva idea tornare in uniforme a pilotare navette che sfidavano la fantascienza; e chissà, magari anche Griša – ora che stava con Kim – poteva unirsi a loro.
Si stufò presto anche di quel pensiero: aveva un gran mal di testa ed era stanchissimo. Il suo ultimo pensiero prima di rintanarsi a casa fu per l'invisibile esercito della Stella Verde.


La Stella Verde

Se Griša avesse preferito rimanere all'oscuro delle occupazioni militari di Lillie e Kim, non gli sarebbe stato comunque concesso nel corso di quell'inizio estate 1978. Piuttosto che rintanarsi a Domland a scervellarsi sulla triste fine di Haku, era pronto a macinarsi i chilometri fino al condominio di periferia che era anche la base nascosta della Stella Verde, e a poco a poco – tra una leggera domanda e un'altra – riuscì a conquistare la fiducia della suprema comandante.
Lillie aveva scelto il nome dell'esercito in base al suo ideale di squadra di comando: cinque elementi fidati, cinque punte di una stella, anche se per il momento erano solo lei e Kim.
C'era stato però un felice periodo in cui Griša, ancora ragazzetto, aveva organizzato un piccolo esercito di quartiere del quale era il fiero generale. Si facevano chiamare gli Antirealisti, in un'orgogliosa opposizione artistica a tutti coloro che imponevano di vivere con i piedi ben piantati per terra, senza arte e soprattutto senza sogni, e non erano rare le scaramucce tra gli isolati che per loro rappresentavano vere e proprie battaglie. Inizialmente al suo fianco c'era Bettina nel ruolo di generalessa, erano in fondo loro due gli ideatori di tutto quel gigantesco gioco che stava crescendo con loro, e nel giro di appena un'estate gli Antirealisti erano diventati una vera e propria banda organizzata. D'estate, infatti, Haku lasciava Domland per godersi un paio di mesi di vacanza nella ricca Villa Oldfield di Southampton, e poi riportava in territorio pietroburghese tutto ciò che aveva appreso: in breve era diventato lui stesso un generale Antirealista.
Poi tutti erano cresciuti, avevano preso strade diverse, Griša era fuggito a San Pietroburgo dopo lo sfacelo con Bettina, e per mesi non aveva voluto saperne più niente; fino a quando aveva incontrato Estel, che si era dimostrata da subito in totale accordo con gli ideali Antirealisti e ben lieta di far risorgere dalle sue ceneri l'esercito, ora più maturo e solido. In quello stesso anno Griša si era messo d'impegno per scoprire le origini della sua famiglia, e aveva trovato un suo lontano cugino acquisito col quale tuttavia era nato un sodalizio fraterno: si chiamava Dralbij e lavorava come croupier nel più grande casinò russo. I due avevano scoperto nelle loro vite parallelismi e analogie quasi magici, ma non si erano mai stupiti: entrambi erano grandi studiosi del paranormale, consapevoli di avere qualche oscuro potere da esercitare, ed erano capaci di trascorrere giornate intere davanti a polverosi e incartapecoriti libri di magia comprati nei bugigattoli più impensati delle periferie.
Con l'inizio degli anni universitari anche il generale Dralbij era stato costretto a trasferirsi altrove, e dopo lo sfacelo seguito al tradimento e alla fuga di Estel l'esercito Antirealista sembrava completamente sfaldato: era stato Haku, subito dopo l'interminabile notte in cui Griša aveva cercato di uccidere Bugsley, a riassestare la banda mutilata, e sotto lo stendardo giallo e viola (che erano poi i colori del Number One) aveva creato la Società Karmidi, questa volta non più contrapposta ai Realisti ma a nemici molto più pericolosi: i Larvoniani.
In qualsiasi locale si vada c'è sempre il solitario attempato a caccia di qualche ragazza disponibile, spesso accompagnato da altri amici single. Al Number One c'era lui, Maksim, viscido e subdolo ma anche molto ricco: aveva cominciato a seguire Estel e tutta la compagnia, pagando loro i conti, e alla fine era riuscito a comprarla. «Verme schifoso» aveva ruggito Griša, vedendolo per la prima volta insieme a Estel, e da quel suo rabbioso urlo Haku aveva coniato una storiella divertente cercando di farlo almeno sorridere: «Quei lombrichi appiccicosi provengono da un altro pianeta, Larvonia...». Aveva fatto il miracolo: l'amico, per quanto devastato, aveva inarcato appena le labbra in un ghigno, e da lì la Società Karmidi aveva trovato nei Larvoniani gli storici rivali.
Personaggi così erano più diffusi di quanto si possa credere, e suo malgrado Haku aveva dovuto fare i conti con loro fin troppe volte: Lillie non aveva solo pretendenti suppergiù della sua età, ma anche un autentico stuolo di quarantenni e cinquantenni, e lui non era mai stato affatto sicuro di riuscire a debellarli tutti. I soldi possono tutto, ne era convinto, e la sua ragazza ne aveva sempre un estremo bisogno per pagare le spese militari e per mantenere Dylan, dato che Girolamo non aveva mai scucito un solo rublo. C'era Fester sempre in agguato, degno vice di Maksim, ed era stato per mesi il suo incubo peggiore... ovviamente, prima che arrivasse Willy.
Griša e Lillie ne parlarono per tutto un pomeriggio, confrontandosi come due generali, ma il divario tra loro era evidente: mentre l'uno parlava di semplici risse, l'altra aveva per le mani un autentico esercito clandestino, con tanto di mezzi talmente avanzati da risultare sconosciuti a qualsiasi Stato. Si capivano, però, e forse fu proprio quello a indurre Lillie a svelare ulteriori dettagli sulla Stella Verde: portò Griša nell'atrio del condominio, aprendo una vecchia porticina cigolante che sembrava dover cedere da un momento all'altro, e lo condusse giù per una ripida scalinata fino ad un pesante portellone di metallo. «Vedi? È titanio modificato» spiegò, digitando un codice su un tastierino elettronico «Un materiale talmente resistente da essere infrangibile anche per un'esplosione atomica. Voglio la tua parola d'onore che non tradirai la Stella Verde... soprattutto per il tuo bene: sarei costretta a farti fuori se rivelassi qualcosa a qualcuno» «Lo giuro» rispose lui, affascinato «Parola di generale Antirealista, di vice-capo della Società Karmidi, e parola d'onore mia». In quel magico momento, mentre il portone scivolava senza rumore rivelando una stanza buia, lei aggiunse: «E di tenente della Stella Verde». Griša sgranò gli occhi, stupefatto ma onorato.
Sotto l'insospettabile palazzo popolare si estendeva un hangar insonorizzato e a prova di bomba; i parcheggi erano delimitati da strisce gialle e nere, e incredibili apparecchiature futuristiche lampeggiavano lungo i muri. La parete di fondo era interamente occupata dal monitor di un radar mondiale. Griša si guardò intorno, ammutolito: altrochè le lucette colorate della sua sala d'incisione! Ma ciò che più attirò la sua attenzione furono gli strani mezzi posteggiati vicino a quella che aveva tutta l'aria di una rampa di lancio: sembravano navicelle spaziali. «Queste sono le mie creazioni» illustrò Lillie, compiaciuta «Quella sfera di titanio laggiù e la Defenser, assolutamente indistruttibile ma impossibilitata ad attaccare, la navicella che stai guardando è il miglior prototipo da allenamento, e infine questi due gioiellini sono la perfezione che pilotiamo io e Kim: le LK. Ciascuna di quelle navicelle può raggiungere la barriera del suono in appena novanta secondi, e attraversare l'intero Sistema Solare in un tempo così breve da risultare inconcepibile: circa sei ore, e tutto grazie ad uno speciale carburante ottenuto sintetizzando la sabbia di Giove che le nostre sonde provvedono a raccogliere quotidianamente» «Non riesco a crederci» mormorò lui, sfiorando timidamente il freddo metallo del prototipo «Non ho mai visto nulla di simile, nemmeno nei film di fantascienza». Gli brillavano gli occhi dal desiderio e dalla curiosità, sembrava un bambino in un negozio di giocattoli, e quando Lillie con un sorriso gli propose di fare un volo di prova, lui cominciò a saltellare da un piede all'altro tutto esaltato.
Pochi minuti dopo li raggiunse Kim, già pronta in tuta astronautica, con un casco ultraleggero sottobraccio. Avvicinandosi a Griša ammiccò, dandogli un bacio sulle labbra: «Pare che il momento di un'uscita speciale per me e te sia arrivato prima del previsto. Mettiti la tuta anche tu» «Ma io non ce l'ho» obiettò lui, perplesso «Come faccio a...» «Usi questa» lo interruppe Lillie, lanciandogli una sorta di scafandro metallizzato «Era del padre di Dylan. Non fare quella faccia: anche Girolamo, un tempo, faceva parte della Stella Verde».
Già, Girolamo. Gli tornò in mente quella notte, quando avevano escogitato insieme quel contro-gioco sulla copertura della tragica fine di Haku. Se Lillie l'avesse saputo sarebbe stato terribile. Si infilò la tuta, che gli era appena un po' troppo larga, ripromettendosi di pensare a un compromesso appena rientrato, ma anche quel proposito passò rapidamente in secondo piano quando Kim si mise ai comandi del prototipo facendogli cenno di occupare il sedile posteriore: emozionato, si affrettò ad ubbidire. Il vetro – ma era poi vetro? – si chiuse su di loro con uno scatto perfetto, i respiratori entrarono in funzione, e il monitor di bordo visualizzò una dettagliatissima mappa satellitare. «Non c'è pericolo di soffrire accelerazioni o gravità, qui dentro» lo rassicurò Kim «È tutto impostato secondo i parametri terrestri» «Non ho paura di nulla finché sono con te» ribatté Griša «E anzi, non vedo l'ora di partire!».
L'accelerazione fu immediata: una fiammata azzurra scaldò i motori silenziosi, la navicella vibrò per un attimo e sfrecciò lungo la rampa di lancio, impennando verso il cielo luminoso: sul monitor era segnalata l'altitudine, che in una manciata di secondi rasentava già l'atmosfera terrestre. Una lieve scossa più tardi e fuori, oltre il vetro, c'era solo un cielo straordinariamente stellato, di velluto nero. Le stelle sembravano vicinissime, e la tenue luce azzurra della Terra rendeva l'atmosfera incantata e romantica. «Siamo nello spazio!» rantolò Griša, esterrefatto, schiacciando il naso sul vetro per vedere meglio «E là dietro c'è la Luna... non è possibile!». Vedeva i satelliti che orbitavano intorno al pianeta, e si sentiva estremamente piccolo in quell'immensità da togliere il respiro: era come se due occhi non gli bastassero per vedere tutto quanto. «Sei il nostro tenente, adesso» cercò di distrarlo Kim «Non incantarti troppo, vedrai spettacoli del genere fino ad esserne stufo se dovrai svolgere qualche missione interplanetaria» «Missione interplanetaria?» fece lui, dubbioso «Ma se la Stella Verde è un'organizzazione segreta, non c'è il rischio di essere intercettati da qualche base militare terrestre? Tra satelliti e sonde dev'esserci più traffico che nell'ora di punta a Mosca». Lei sogghignò, furbesca: «I radar terrestri sono troppo arretrati per i nostri mezzi. La Defenser è strutturata come un qualsiasi pallone-sonda pubblicitario e non dà problemi, mentre già da questo prototipo per arrivare alle LK abbiamo messo a punto uno scudo che le rende invisibili per qualsiasi sistema di rilevazione diverso da quelli della Stella Verde». Sempre più ammirato, Griša non faceva che studiare i comandi, che sul prototipo erano molto più semplici rispetto alla perfezione assoluta delle due LK. Chi l'avrebbe mai detto che per indagare sulla morte di un amico sarebbe arrivato a tanto? Oltretutto, ancora non riusciva a realizzare del tutto quello che stava vivendo. Smarrito, distolse lo sguardo dall'inimmaginabile panorama e si appoggiò a Kim, abbracciandola forte. «È davvero stupendo stare quassù» sussurrò. Stava forse per aggiungere qualcos'altro, ma lei lo mise a tacere con un profondo bacio appassionato. «Quante coppie possono dire di aver vissuto un momento così?» pensavano entrambi in quell'assoluto silenzio «A migliaia di chilometri dalla Terra...».
Kim dischiuse appena gli occhi, osservando quel viso completamente abbandonato nel lunghissimo bacio. Che strano: fin dal primo momento in cui l'aveva visto aveva capito di provare qualcosa di diverso dal solito, rifletté. Era come se si fossero innamorati nello stesso istante, addirittura prima ancora di conoscersi. Delicatamente gli tirò indietro i capelli sopra gli occhi chiusi, scivolando sulla nuca, e stavolta fu Griša a fare il passo decisivo: senza più la minima esitazione si avvicinò ancora di più, e con un sorrisetto malizioso reclinò il sedile. «Non c'è pericolo che Lillie ci disturbi, vero?» domandò, circospetto. Per tutta risposta, Kim tolse l'illuminazione dell'abitacolo.
A terra, davanti al monitor dell'hangar, Lillie sprofondò su una poltrona e sospirò: non era difficile indovinare cosa stesse succedendo lassù. Li invidiò, mentre la spina del rimpianto tornava a scavarle il cuore. Cosa le importava che Haku fosse stato così paranoico fino ad esasperarla? Lei stessa non gli aveva mai dato modo né di togliersi quei malati sospetti, né tantomeno di rasserenarsi. Eppure, se l'avesse fatto, forse ora avrebbe potuto averlo ancora accanto. Dylan, seduto su un tappeto, giocava con una dozzina di automobiline e parlottava tra sé: impossibile non udire quel nome. «Mamma?» chiamava, e subito dopo: «Haku?». Solo raramente diceva «Papà», e comunque sempre dopo aver nominato Haku: faceva malissimo. Lo prese in braccio, accarezzandogli i soffici capelli biondo scuro, e bisbigliò: «Voi bambini piccoli siete così puri da poter vedere gli angeli, perché siete voi stessi un po' angeli, non è vero? Spero che almeno tu possa vedere Haku... e dirgli quanto lo amo» «Amo» annuì il piccolo, convinto: era come se avesse riferito una risposta... ma forse era solo un'altra inutile illusione.

* * *

Le settimane che seguirono furono un'autentica girandola di avvenimenti, talmente caotici ed eterogenei da lasciare trafelati.
Griša e Kim trascorrevano insieme ogni minuto libero, ma la loro si stava rivelando una storia difficile; lei, dopotutto, era il colonnello della Stella Verde: spettava a lei il comando delle missioni, ed era spesso costretta a partire anche per più giorni consecutivi, il più delle volte senza preavviso.
Griša rideva meno ed era ogni giorno più teso, anche se si sforzava di non farlo capire: ogni sera, quando inforcava la bici diretto verso il porto, partiva con l'angoscia che Kim fosse sparita di nuovo. Nei (frequenti) casi in cui Lillie, enigmatica, lo raggiungeva davanti alla porta da sola, lui prima ancora di avere la conferma dei suoi timori abbassava la testa, malinconico, e trascorreva il resto della serata a scrutare il cielo nella speranza di scorgere il bagliore azzurro dei motori di una LK.
Le prime volte, trattandosi di missioni relativamente brevi, aveva sopportato la lontananza un po' seccato e un po' rattristato, ma era sufficiente che Kim tornasse e corresse subito tra le sue braccia per dimenticare tutto. Rispettando i sentimenti distrutti di Lillie evitavano il più possibile qualsiasi effusione di fronte a lei, sicché i momenti più teneri erano le sere: facevano insieme lunghissime passeggiate con Laky, il cane mascotte dell'esercito, e quando rientravano si fermavano negli hangar. Lì sotto, nella sala attrezzata per la guardia in periodi di battaglia, c'erano divani e brandine: non era il massimo fare l'amore così furtivamente, sobbalzando ad ogni rumore sospetto, ma a loro importava solo di stare insieme.
Ma poi le missioni avevano cominciato a farsi sempre più numerose, e per la loro storia non c'era più spazio: Kim tornava esausta dopo settimane in giro per l'iperspazio in pericolose azioni di guerriglia, andava subito a letto alla sera, e già il giorno dopo doveva ripartire. Griša non era per nulla remissivo, e si era subito ribellato a Lillie con una ferocia e un cinismo dettati solo dal dolore: «Solo perché non sei stata in grado di mantenere la tua storia con Haku» le aveva ringhiato, una terribile sera «Non vuol dire che tu debba rovinare anche me e Kim».
Si sentiva così solo, furibondo e disperato che era stato sul punto di annegare tutto alla Taverna dei Rimpianti, ma all'ultimo momento gli era venuta un'altra idea: Girolamo non gli era forse capitato a casa in un momento di sconforto? Risoluto, aveva girato la bicicletta e si era intrufolato nei quartieri bassi. E quello era stato il sigillo della sua intesa con Girolamo: erano diventati amici, rivelando i lati più insospettabili dei loro caratteri, cosa questa che non mancò di innervosire ulteriormente Lillie. Il delinquente padre di Dylan era tornato nella Stella Verde, e per quanto si sforzasse di comportarsi nel migliore dei modi aveva ancora molta strada da fare.
Ma ora che Kim era finalmente tornata, esattamente un mese dopo l'inizio della loro storia, Griša poteva tirare un sospiro di sollievo. Non voleva assolutamente pensare che forse presto sarebbe partita di nuovo: l’importante era averla lì, in quei rari momenti di tranquillità, e poi nonostante tutto si fidava di Lillie. Le aveva udito promettere alla sua alleata qualche impegno in meno, e Lillie non era una bugiarda: soltanto estremamente crudele, ma bastava cercare di non irritarla troppo e si poteva convivere quasi pacificamente con il suo cuore congelato.
Quella calda mattinata di luglio, il 10, l’aggressiva comandante delle flotte della Stella Verde aveva deciso di poter fare a meno di Kim per qualche ora: bastavano i suoi alleati a pianificare eventuali attacchi, per quanto gli universi da loro controllati fossero in un momento tranquillo.
Un mese insieme.
Griša aveva evidenziato la data sul calendario, cosa mai fatta in vita sua. Mai prima di quel momento si era sentito così innamorato, e per colui che aveva proclamato tanto amore per Estel sembrava un pensiero inconcepibile. Solo ora scopriva di non averla mai amata del tutto: non aveva fiducia in lei, aveva trascorso tredici mesi con l’angoscia di vederla andare via da un momento all’altro con il primo arrivato, e soprattutto sapeva di essere solo “uno dei tanti”. Gli stessi pensieri che Haku aveva fatto con Lillie, così ossessivamente da rimetterci la vita.
Non era il momento di pensare a nulla, si impose: Kim era finalmente lì, di fronte a lui, e gli sorrideva con gli occhi che brillavano. «Come mai così pensieroso oggi?» gli chiese, con quel suo melodioso accento, e lui le rispose in tutta sincerità: «Credo di essermi innamorato per la prima volta».
Non osava nemmeno sfiorarla per paura di vederla sparire, e si limitava ad osservarla: piccola ed esile, con i capelli lisci sciolti sulle spalle, un’ampia gonna variopinta e una camicetta intonata. Le si avvicinò quasi timidamente, sfiorandole il viso con una carezza, e sussurrò impercettibilmente: «Ciao, zingarella». Kim gli si appoggiò, lasciandosi abbracciare, e gli scompigliò i capelli sulla nuca tirandolo dolcemente verso di sé. I loro sguardi erano uno solo, nella penombra estiva, sempre più vicini. Griša era solo vagamente conscio di quel contatto, tutta la sua attenzione era concentrata sul sentimento sconosciuto che lo faceva rabbrividire lievissimamente. Adorava stare abbracciato, andava in visibilio se qualcuno gli accarezzava i capelli, e con Kim così stretta a sé faticava addirittura a tenere gli occhi aperti. «Amore…» mormorò, un attimo prima di baciarla.
Stavano così, appoggiati al muro, sprofondando e riemergendo da un bacio lunghissimo, trattenendo il respiro alle carezze sempre più ardite, ascoltando i brividi reciproci.
Erano caduti sul letto, ma Kim con un risolino malizioso e tenero ruppe il silenzio: «Posso dare un’occhiata ai tuoi dischi? Oggi non è come tutte le altre volte, abbiamo tutto il tempo che vogliamo, e… faremo qualcosa di diverso» «Tutti quelli che ho?» esclamò Griša. Con il lavoro da dj che aveva fatto, tutto il suo appartamento era stipato di dischi!
Ma lei lo zittì con un bacio, e si mise a scorrere i titoli senza abbandonare quella luce provocante che le scintillava in fondo agli occhi seminascosti dai ciuffi castani. Quando ebbe posizionato un Lp sul giradischi, infine, tornò a sorridergli mentre le note di un lento si versavano nella camera. Era un blues, malinconico ma anche molto dolce.
Griša si alzò e la prese tra le braccia, posandole le labbra sul collo. Erano soli, ma erano insieme, e il resto del mondo non esisteva più. Cosa c’era di meglio? Non stavano ballando, eppure nel mezzo di una pista si sarebbero comunque fatti notare. «Non sei un sogno?» le chiese in un bisbiglio «Sei apparsa dal nulla, e subito hai preso tutta la mia vita… dimmi che è tutto vero, non voglio più svegliarmi…». C’era una tristezza senza fondo in quelle parole, era uno specchio di ghiaccio in cui si riflettevano anni di delusioni e imbrogli. Kim lo sapeva: per quanto lui fosse riservato e chiuso in se stesso, Lillie era riuscita a strappargli molto sul suo conto durante la sua assenza per qualche missione. E gliel’aveva riferito. «Sono qui, ora» gli rispose, tornando a sedersi sul letto e trascinandolo con sé «E non stiamo sognando».
Il brano successivo, che si annunciò con il fruscio silenzioso della puntina sul vinile, era completamente diverso dal precedente: aveva un ritmo sensuale, sembrava fatto apposta per essere ballato in quel momento, ma loro non si mossero. Stavano sdraiati vicini, l’una appoggiata all’altro, e parlavano a bassa voce. «Una volta, prima di unirmi all’esercito di Lillie» stava dicendo Kim «Vivevo con alcuni parenti in un carrozzone, e giravo per tutto il mondo. A dodici anni ballavo nelle piazze e sapevo leggere la mano, e a quattordici ho iniziato a rubare e a fare fino in fondo la vita degli altri con cui viaggiavo. Te l'ho già detto, no? Ora: ti fidi ancora di me? Ormai la gente ci ha schedati tutti come dei delinquenti…» «Sono stato anch’io un vagabondo e un ladro» la interruppe Griša, prendendola per mano «E ho avuto a che fare qualche volta anche con la tua gente. Chissà, forse qualche volta ci siamo perfino incontrati: non era raro per me passare le notti invernali seduto in un bivacco, col fuoco nei bidoni di cherosene e le ombre dei carrozzoni che si allungavano tutto intorno. Non capivo molto della vostra lingua, ma sapevo di essere ben accetto almeno in quel clan… che, temo, ormai non esisterà più».
Kim pensò alla lunga notte in cui qualcuno aveva appiccato il fuoco al loro accampamento: tutto era andato distrutto, i suoi parenti erano morti, e lei aveva dovuto cavarsela completamente da sola. Fino a quando, durante un suo numero in piazza, aveva conosciuto Lillie e l’aveva seguita. Ma quella era un’altra storia… «Guarda» disse improvvisamente, facendo ripartire la canzone di sottofondo «Questo era uno dei miei pezzi forti, voglio ballarlo solo per te».
Incuriosito, Griša si accovacciò meglio sul letto. Conosceva – o meglio, sperava di ricordare – qualche passo delle danze zingare, giusto per non sfigurare, ma si rese conto fin da subito che quella sarebbe stata un’esibizione solitaria.
Kim era veramente molto bella, ma così sembrava una creatura incantata. L’ampia gonna le svolazzava intorno alle gambe, rivelando i brevi bagliori di una cavigliera carica di pendenti che le sfioravano i piedi nudi. Si era slacciata i primi bottoni della camicetta, rivelando il profilo seducente dei seni nudi. Aveva la pelle appena leggermente scura, come se fosse rimasta abbronzata dal sole delle estati vagabonde, e anche nella luce scarsa si indovinava la sua espressione ardente. Soprattutto, ballava benissimo.
Griša, rapito, seguiva con lo sguardo ogni suo movimento. Teneva le labbra appena dischiuse, come ipnotizzato, e quando Kim scivolò dolcemente sopra di lui fu come se per un attimo il cuore gli si fermasse. «Sei bravissima» riuscì ad esalare, seguendo con baci leggeri il suo profilo delicato.
Lei gli insinuò le mani sotto la maglia, sfiorandogli la schiena con le unghie: rideva a fior di labbra dei fremiti che gli provocava, e gli impediva qualsiasi commento sommergendolo di baci.
Come era bello non avere fretta, poter pensare soltanto a loro e chiudere fuori i pensieri più tetri!
Un attimo dopo non c’era più nulla a dividerli, nemmeno la leggerezza dei vestiti estivi. E stavano facendo lentamente l’amore, mentre il giradischi nell’angolo rendeva più morbido il silenzio.
Quando si abbandonarono sul letto sfatto, il sole si era già spostato dalla finestra: la lama di luce che aveva illuminato i loro vestiti gettati alla rinfusa ai piedi del letto era sparita in una vaga luce polverosa, da primo pomeriggio.
Griša chiuse gli occhi, lasciando che Kim gli si rannicchiasse accanto e circondandole le spalle magre con un braccio. Quei fini capelli sembravano seta, sparsi sul cuscino, e sentiva il respiro rilassato di lei sul petto farsi sempre più profondo. Le baciò la fronte sotto la frangia e le si assopì accanto sospirando: «Buon riposo, amore». La risposta gli giunse lontana, ma lo fece addormentare tranquillo e sereno come un bambino: «Ti amo».

* * *

Come aveva fatto presto a cambiare tutto! Poche settimane avevano rivoltato radicalmente tutta la situazione: Lillie, indurita dal rimpianto, stava sfogando la disperazione sfoderando una gratuita cattiveria che a volta faceva paura; di conseguenza, Griša era ogni giorno più velenoso nei suoi confronti, e stava prendendo una gran brutta piega bazzicando per il Bronx capitanato dai Di Santo. Kim non era quasi più a San Pietroburgo e di lei non si avevano notizie.
Fino a che punto uno spirito libero quale era Griša poteva sopportare un’organizzazione quasi militare della sua vita? Lillie gongolava nel vederlo così ligio al dovere, disposto ad eseguire qualsiasi ordine pur di avere la possibilità di incrociare lo sguardo di Kim, ma il suo divertimento più grande era spedirlo nelle missioni più pericolose promettendogli ore con Kim che poi non arrivavano mai: quanto avrebbe resistito? Gli leggeva già negli occhi la sfiducia e la disperazione che erano stati tanto vividi nel volto di Haku, ma anche una scintilla di determinazione che non sembrava disposta a lasciarsi spegnere facilmente: anzi, più lei stroncava ogni sua possibilità di stare qualche minuto con Kim, più lui stringeva i denti e si impegnava nei suoi compiti.
Avanti e indietro a testa bassa e a qualsiasi ora da Domland fino al palazzo rosa in cui viveva Girolamo, nella zona più malfamata della città, talmente pericolosa che perfino i poliziotti si rifiutavano di pattugliarla: Griša sopportava la paura, e puntualmente tornava da Lillie sano e salvo. Aveva smesso anche di chiederle dove fosse Kim: mascherando l’odio e il rancore si limitava ad un’occhiata interrogativa ma già priva di speranze.
Lillie aveva escogitato anche un altro modo per rendergli la vita difficile: il ricatto. «Tradiscila con me» gli aveva detto una memorabile sera «Tradiscila, o la manderò sul pianeta più lontano che le nostre astronavi possono raggiungere, e starà lontana per almeno una ventina d’anni». Griša aveva sogghignato, crudelmente bello nella luce del crepuscolo che annullava la sua doppia natura di elfo e di vampiro: «Piuttosto che tradirla, preferisco non vederla mai più».
Ma ora la situazione era ulteriormente peggiorata: Kim era effettivamente tornata, era lì a pochi chilometri di distanza, e nonostante questo Lillie riusciva in tutti i modi a tenerla lontana da Griša, impedendole anche di fare una telefonata di saluto. Era come se fossero ancora lontani, e nessuno dei due sapeva se un giorno sarebbero riusciti a rivedersi: il germoglio del loro amore, costretto a crescere su un terreno accidentato e sterile, rischiava di indebolirsi sempre di più.
Griša passava le giornate a mitragliare di parole lo schermo del computer: scriveva, testardo come non mai, il libro che aveva promesso a Kim. Aveva soltanto il ricordo straziante del poco tempo che avevano avuto a disposizione, così perfidamente breve: sei settimane… tanto quanto era durato il periodo felice di Haku e Lillie. Per un come lui, appassionato di magia e paranormale, la predestinazione era una teoria inconfutabile, e quella coincidenza – l’ultima di una catena impressionante – aveva il potere di atterrirlo.
Quel giorno, però, anche la sua cocciutaggine crollò: per l’ennesima volta aveva aspettato Kim dopo pranzo, sperando di poterla almeno abbracciare un istante, e per l’ennesima volta la sua ardente attesa era andata delusa. «Kim è impegnata» gli aveva detto Lillie quando, disperato, aveva telefonato al quartier generale «Sta intrattenendo rapporti molto stretti con altri comandanti delle mie flotte, e posso assicurarti che non sente affatto la tua mancanza» «Lo sai che non ti credo» sibilò lui, riagganciando con rabbia.
Ma stavolta era tutto diverso, se ne rendeva conto perfettamente: rileggendo le pagine di diario che aveva scritto sera dopo sera da quando era tornato a Domland, notò una terribile somiglianza con quanto Haku aveva scritto un anno addietro: l’inizio dell’idillio il 10 giugno, sei settimane indimenticabili, e poi lo spartiacque segnato dal suo compleanno. Lui e Haku compivano gli anni lo stesso giorno, oltretutto: come non tremare alla vista di una così esagerata corrispondenza delle loro vicende?
Aveva descritto minuziosamente tutta la loro breve storia fino a logorarne il ricordo, e di colpo la sua fiducia nell’attesa precipitò in un baratro senza ritorno: non avrebbe mai più rivisto Kim, ora ne era sicuro, e quand’anche fosse capitato di incrociarla di nuovo ci sarebbe stata Lillie a impedire loro anche un saluto. «Dannazione!» imprecò, sferrando un pugno sulla scrivania tanto violento da intorpidirsi tutto il braccio, ma l’ira si dissipò subito per lasciare spazio a quell’altra sensazione, ben più pericolosa: la sconfitta. Aveva sofferto molto quando Estel l’aveva tradito e abbandonato, tanto da ridursi in fin di vita, ma ora gli dilagava dentro un nuovo dolore, che rendeva futile il precedente: aveva perfino la netta impressione di cadere, volare senza ali in un burrone infinito, mentre tutto il mondo scompariva inglobato da quella forsennata delusione.
«Non farti paranoie» si disse, stringendo i pugni così forte da conficcarsi le unghie nei palmi «Haku, era Haku quello in grado di ridursi così senza avere le prove per convincersi dei suoi terrori. Va tutto bene, coraggio, presto rivedrò Kim… la mia briciolina, la mia zingarella, Kim... non riusciranno a dividerci, tutto quello che ho scritto di lei era reale, concreto, e al massimo tra un paio di giorni saremo ancora soltanto noi due, qui…».
Si rese conto con una drammatica lucidità di non essere più in grado di imbrogliarsi: «Non ci credo più» mormorò, appoggiando la testa sulla scrivania e coprendosela con le braccia «Non è più vero niente». Avrebbe voluto piangere fino a sfinirsi e cadere addormentato, ma non riusciva a fare nemmeno quello. La luce del pomeriggio, di un altro torrido pomeriggio solitario senza Kim, gli faceva bruciare gli occhi asciutti come se fossero pieni di sabbia.
«Devo andarmene da qui» realizzò in un ultimo barlume di ragionevolezza «Haku è morto qui dentro per lo stesso motivo che mi sta facendo impazzire. Ma dove posso andare? Dove posso stare sicuro che Lillie non venga a raccontarmi altre cattiverie?».
La soluzione c’era, lo sapeva, ma faceva ancora più paura di una fuga delirante a Southampton. Prima ancora di rendersene conto, Griša stava correndo fuori verso le periferie, abbacinato dal sole e già stremato dal caldo di luglio. Domland, il centro abitato, i binari della ferrovia, le prime case popolari: tutto gli scorreva intorno in un silenzio innaturale rotto dal suo respiro spezzato e dal tonfo delle scarpe da ginnastica sul cemento arroventato.
Giunse ai grandi casermoni verdi e grigi, tutti collegati tra loro da sudici giardini incolti, e si accasciò stremato su una panchina divelta e sprofondata in un rosaio inselvatichito: il Bronx russo gli appariva a tratti attraverso il velo di sudore che gli colava negli occhi, alternato a brevi pulsazioni di buio spinte dal cuore al limite dello sforzo. «Sto diventando pazzo» rantolò, osservando le grosse gocce trasparenti che scurivano il legno marcio della panchina «Cosa voglio fare qui?».
Cercando di riprendere il controllo affondò le mani nelle tasche dei jeans, e chiuse le dita intorno a un piccolo oggetto levigato e freddo: era il suo talismano più potente, una pietra viola trasparente che Bettina gli aveva regalato ormai sei anni prima. Non sapeva spiegarsi come gli fosse finita in tasca, dato che ricordava benissimo di averla gettata in mare quando la loro storia si era fracassata sugli scogli di tante incomprensioni, ma non si pose il problema: si era sempre sentito al sicuro con quella pietruzza, e a poco a poco riuscì anche a riprendere fiato.
Cominciava a sentirsi meglio, più lucido: Lillie era una persona orribile, priva di sentimenti e crudele oltre ogni comprensione, quindi tutto doveva per forza essere solo un suo imbroglio. Un test di resistenza, magari. Quello che contava era tutt’altro: Kim non poteva essere come lei. Doveva fidarsi e basta, aspettarla fiduciosamente a casa e soprattutto allontanarsi da quella zona pericolosa senza dare nell’occhio. Eppure camminava avanti.
Il palazzo rosa si stagliava enorme davanti a lui, proiettando un’ombra che sembrava volerlo divorare. Le tre porte d’entrata erano sfondate e rimanevano spalancate come orbite vuote, lasciando intravedere tre atri luridi e deserti in cui le cassette della posta sfasciate a pugni sembravano ciondolare pigramente simili a corpi di impiccati. Griša rabbrividì, mentre sfiorava con la punta delle dita la ringhiera di ferro rosso impolverato. I suoi passi suonavano felpati sui pianerottoli stretti, tra mozziconi di sigarette abbandonati lungo gli scalini coperti di sporcizia, e nel caldo l’aria maleodorante sembrava densa.
Primo piano, secondo, terzo. Gli girava la testa, forse per la lunga corsa o per le lacrime bloccate dietro le mura della sua dignità. Quarto piano, chissà come poteva chiedere un bicchiere d’acqua agli zingari che abitavano lì. Quinto piano, il suo cervello allenato allo studio ed estremamente versatile per qualsiasi lingua aveva già assimilato abbastanza vocaboli in sinto da permettergli di salvarsi nel caso in cui la situazione fosse degenerata.
La maniglia della porta traballava, anche quella scassata a pugni, e il legno scrostato lasciava passare fili di luce sporca sul pianerottolo buio. Oltre quella porta…
«…non devi dirle di venire qui, altrimenti io e lui non ci vedremo mai più. Per una volta, sali in bicicletta e proponile di trovarvi a metà strada. Intorno a Domland ci sono solo campi e prati: potete stare fuori a giocare con Dylan, a fare un picnic, a chiacchierare, e sareste lontani da questo postaccio. Vostro figlio non può crescere qui, lo sai meglio di me».
Griša si appoggiò alla porta con un misto di terrore, amore e sollievo: era Kim, Kim era oltre quella porta distrutta, e stava cercando di convincere Girolamo a tenere impegnata Lillie in modo da poter passare qualche ora tranquilla insieme. Solo ascoltando quella voce amata era stato in grado di andare oltre i limiti imposti dalla lingua ormai non più sconosciuta: aveva tradotto tutto ed era certo di aver capito bene.
Gli tremavano le gambe, e se non fosse stato contro la porta si sarebbe afflosciato per terra. «Mia dolce zingarella» sussurrò a occhi chiusi, sognante.
La voce di Girolamo, bassa e rauca, saettò un’imprecazione e qualche ordine incomprensibile, poi passò con naturalezza al russo: «Cosa ti è successo? Dov’è Lillie? È lei che ti ha mandato qui? È successo qualcosa?».
Griša riaprì debolmente gli occhi e si ritrovò abbandonato sul pianerottolo dove doveva avere perso i sensi chissà quanto tempo prima. Altrochè Kim lì... Girolamo era chino su di lui, lo stava sollevando senza alcuna fatica e lo aiutò a trascinarsi fino al divano ancora coperto da un lenzuolo. Non c’erano amicizia o solidarietà nei suoi occhi smaccatamente uguali a quelli di Haku, soltanto un’espressione diffidente e tesa che gli scavava fino in fondo all’anima dragando tutti i segreti… ma no, quello non poteva essere possibile. Con le dita strette intorno a una tazza di acqua di rubinetto, Griša gli si rivolse in un tono che voleva suonare spavaldo ma che in realtà era solo stanco e supplichevole: «C’era Kim qui?» domandò, incurante di quello che avrebbe potuto succedergli da solo con quel pericoloso criminale «L’ho sentita parlare, diceva…».
Le due fessure verdi che lo scrutavano brillarono per un istante, prima che Girolamo gli ritorcesse un’altra domanda: «Tu capisci quando io e Kim parliamo?». La risposta, però, non sembrava interessargli, e la evitò proseguendo: «Comunque, non la vedo da qualche settimana. So che Lillie le ha affidato un compito importante che potrebbe richiedere ancora qualche giorno di lavoro. Ora rispondimi: perché sei venuto fin qui? Ci vuole del coraggio per entrare nella tana del lupo, pochi l’avrebbero fatto e molti sono terrorizzati solo all’idea di incontrarmi da solo nel Bronx. Deve essere successo qualcosa di grave a Lillie o a Dylan, quindi dimmi la verità e fai presto: ora penso a tutto io».
C’era il diario di Haku. In quello stesso periodo, un anno prima, Lillie aveva iniziato a lavorare in un bar il cui padrone era un pervertito senza scrupoli che mirava solo a trascinarla in un angolo a soddisfare i suoi istinti animaleschi. Haku, ogni sera, correva da lei ad aiutarla, ma non aveva potuto impedire che quello schifoso l’avesse vinta almeno una volta: quale occasione migliore per vendicarlo, adesso che lui poteva solo specchiarsi nella sua vita dall’aldilà? Nascondendo un ghigno dietro la consueta maschera impassibile rispose, cauto: «Non le è ancora successo niente, ma non so per quanto tempo potrà stare al sicuro. Come sai, da questa sera ritornerà a fare le pulizie di chiusura del bar in cui lavorava, e credo che questa volta quel porco del proprietario riuscirà a spuntarla con lei: si è fatto molto astuto. L’anno scorso Haku ha provato ad aiutarla nei limiti del possibile, ma… non ce l’ha fatta a sfondare la porta quando lui le è saltato addosso. C’erano i carabinieri dall’altra parte della strada. Ora lui, credendomi Haku, non fa che prendermi in giro ogni volta che mi vede, mi considera un fallito e non fa che umiliarmi davanti a tutta la sua clientela mentre spesso Lillie stessa gli dà corda per non rischiare di inimicarselo».
Girolamo era livido. «Tu, Grigorij, sei una persona onesta e sincera. Grazie per avermi detto la verità, e posso capire il tuo timore per paura delle mie reazioni» disse, serio, appoggiandogli una mano su una spalla «Ma tu non hai paura di me, vero? Guardami: sono calmo, e mai una volta non mi sono comportato da amico nei tuoi confronti. Nessuno può permettersi di offendere i miei amici e sperare di passarla liscia, ma soprattutto nessuno può mettere le mani addosso alla mamma di mio figlio e vivere abbastanza da raccontarlo!». Ora faceva davvero paura: i muscoli ben definiti gli guizzavano di rabbia sotto la maglietta tesa, gli occhi gli sporgevano dalle orbite folli e iniettati di sangue, verdissimi nella luce del giorno, e teneva i pugni così stretti che miriadi di sottili cicatrici bianche gli spiccavano sulle nocche. «Tra me e Lillie, purtroppo, è finita già da un pezzo» proseguì con la voce strozzata dall’ira «E lei è libera di andare con chi vuole, per quanto male mi faccia il pensiero. Tu sei giovane, ma sei un bravo ragazzo. E anche Haku lo era: si vedeva che per lei un tempo ha provato qualcosa di più di una semplice amicizia, ma comprendendo i miei sentimenti non si è mai fatto avanti. Tuttavia, avrei preferito mille volte che lei scegliesse Haku piuttosto che chiunque altro. E se il primo maiale che ha cercato di possederla è riuscito ad averla vinta con la forza, beh, allora quello è un uomo morto. Ti sei ripreso? Alzati, allora, e prendi la mia mazza sul tavolo: io posso cavarmela a mani nude».
Griša, che per tutta la durata del discorso si era gonfiato all’idea di vendicare così bene l’amico morto nonostante lo spavento di aver visto scoperti i sentimenti disperati di Haku, di colpo impallidì: «Io?» balbettò colto alla sprovvista «Finiremo nei guai entrambi!», ma Girolamo era ormai deciso. «Non finché starai con me» affermò, sicuro «Forza: prendi la mazza e andiamo, abbiamo tutto il tempo che vogliamo per arrivare al bar con calma. Strada facendo ti insegnerò qualche mia tecnica personale. E, a proposito» aggiunse, con gli occhi sempre spiritati ma più coscienti «Ti devo un favore: farò in modo di convincere Lillie a lasciarti stare con la tua Kim tutti i giorni, quando lo vorrai».
Bastò quella promessa perché Griša decidesse di andare fino in fondo alla missione che lui stesso si era accollato. Impugnò la tozza mazza rudimentale, pesante ma sorprendentemente maneggevole, e rimase affascinato dall’impugnatura intagliata – un po’ troppo grande per le sue dita sottili, da pianista – e dalle inequivocabili ammaccature che la costellavano. Sul manico erano incise con precisione diciassette tacche bianche, e non era difficile immaginare con quale orgoglio Girolamo avesse così commemorato le sue vittime. «Per Haku» pensò «A Stalingrado non passano, resistenza! Per il mio migliore amico che vive in me!». Era solo un bizzarro gioco di luci, o davvero per un attimo il caldo color caffé rossiccio dei suoi occhi aveva brillato di un cupo verde smeraldo? «Pronti, capo!» scattò, con quella strana cadenza perfetta che gli era venuta spontanea pensando che presto avrebbe potuto rivedere Kim.
I due partirono nel torrido pomeriggio, e approdarono al bar molto prima del previsto dato che avevano letteralmente marciato come soldati. Si soffermarono un istante sulla porta, godendo l’aria condizionata che filtrava dagli spifferi, e poi Griša andò avanti per primo imitando indistinguibilmente l’aria triste e timida di Haku: «Ciao a tutti» pigolò «È già arrivata Lillie?».
Il padrone del bar gongolò nel vederlo solo e smarrito, e subito cominciò a canzonarlo; ma fu interrotto dal rumore di tazzine infrante sul pavimento, e voltandosi vide Moonlight che fissava la porta con gli occhiali storti sulla fronte e uno sguardo di terrore puro: «Sa… Sa…» rantolava, incapace di farsi intendere in mezzo alle tazzine da caffé sbeccate sul pavimento «Don… Don… Sa…». Deglutì, ma la voce non voleva saperne di uscirgli diversa da una serie di squittii atterriti.
Ecco perché “Haku” stava immobile a testa bassa: stava nascondendo una risata satanica! Con un movimento lento ma preciso sfilò la mano sinistra da dietro la schiena, rivelando la tristemente famosa mazza artigianale di Girolamo. «Don Santino» gemette Moonlight, troppo piano perché la vittima dell’agguato potesse sentirlo, e stramazzò a terra vinto dalla paura.
Girolamo abbatté la porta con un’unica spallata, piombando nel locale con un ruggito che aveva l’eco terrificante del loro peggiore insulto, almeno così gli aveva insegnato Kim: «Mangia morti!!!». Non poteva essere vero, però, non era possibile!
Il padrone del bar finì a terra, travolto dall’impeto bestiale dell’avversario, e in un attimo anche Griša gli fu addosso brandendo alta la sua arma: Girolamo lo teneva schiacciato sul pavimento, e in un ringhio ordinò al compagno: «Coprimi le spalle mentre insegno a questo cane come deve comportarsi con te e con Lillie».
In quel momento arrivò Lillie, e si sentì mancare per la scena che le si parò davanti: Griša, con la pazza disperazione sprofondata fino in fondo all’anima, aveva massacrato tre persone intervenute a fermare la carneficina, e li stava scacciando a colpi di mazza; dentro al bar, Girolamo scrollava furiosamente quello che sembrava un corpo inerte, urlando e scandendo ogni frase con un sonoro pugno diretto: «Lui-è-amico-mio-e-tu-non-devi-permetterti-di-mancargli-di-rispetto! E la madre di mio figlio devi lasciarla stare se non vuoi che ti spacchi la testa come un melone!!!». A terra dietro il bancone c’era Moonlight, svenuto ma fortunatamente illeso; l’unica vittima sembrava essere il padrone.
Griša si sentì male alla vista di tutto il sangue che era schizzato ovunque, e stremato dalla tensione dovette correre in strada per non vomitare, ma non poteva negare di essere pienamente appagato nonostante la disperazione di aver perso Kim.
Ma ora tutto sarebbe cambiato, oh sì, ne era certo… in bene o in male ancora non lo sapeva, ma sperava di essere almeno uscito da quell’incerta attesa che l’aveva logorato. Lillie temeva Girolamo, anche se deviava abilmente qualsiasi indizio, e se lui le avesse parlato seriamente, forse qualcosa poteva succedere. Forse.

* * *

Poteva quel cambiamento essere sincero? Se lo chiedevano tutti. Lillie non perseguitava più Griša e Kim con i suoi compiti impossibili, dava alle sue flotte ordini eseguibili senza rischiare la vita ogni volta, organizzava missioni brevi e su pianeti vicini; il clima di diffidente serenità che le si stava creando intorno, sconosciuto ai più, dava comunque i suoi frutti: l’esercito era disciplinato e più determinato a seguirla.
Insieme da quasi due mesi, Kim e Griša potevano solo ora dedicarsi al tempo da trascorrere insieme, ed era come scoprire qualcosa di nuovo ogni giorno. Spesso si incontravano nella tarda mattinata, pranzavano insieme e passavano le ore più calde del pomeriggio d’agosto al fresco della camera da letto, nel silenzio di Domland. Chiacchieravano per ore, abbracciati tra le lenzuola aggrovigliate, raccontandosi tutto ciò che non avevano mai avuto il tempo di dirsi prima, e quando anche le parole finivano c’era solo un dolcissimo silenzio che li isolava dal mondo.
Anche quel pomeriggio erano a casa, a godersi la sensazione di essere come marito e moglie: avevano intenzione di ordinare una pizza per cena e poi di guardare le stelle cadenti sull’argine della Neva, ma il loro progetto fu interrotto dal trillo del campanello proprio mentre stavano per leggere il menù della pizzeria.
Girolamo irruppe nell’appartamento, con il basso sulle spalle e un’espressione seccata, e si lasciò cadere sul divano sbuffando: «Scusate, immagino di essere capitato qui come terzo incomodo. Ho appena litigato con Lillie: le avevo chiesto di uscire oggi, in modo da lasciarmi qualche ora con Dylan, e lei mi ha letteralmente sbattuto il telefono in faccia dicendo tutta preoccupata di avere problemi più urgenti». Aveva tolto con estrema cura il suo strumento dalla custodia, e strimpellava rabbiosamente le quattro grosse corde traendone suoni spezzati; non suonava da molto, ma – forse per la prima volta in vita sua – stava studiando seriamente, tanto che senza rendersene conto eseguiva macchinalmente gli esercizi tecnici imparati durante le lezioni.
«Un’altra cena romantica giocata» pensò Griša alzando gli occhi al soffitto. Quando Girolamo era di malumore e decideva di avere bisogno di compagnia, non c’era scusa che reggesse: bisognava tenerlo e basta. Così prese la chitarra e gli si sedette accanto, proponendo con un’allegria che sapeva di sopportazione: «Perché non proviamo le canzoni nuove da preparare? Sono sicuro che Andrej e Dimitri non hanno ancora cominciato a guardare gli spartiti». Rassegnata, anche Kim si accovacciò sul tappeto, riflettendo: in fondo, c’era da divertirsi quando quei due suonavano insieme, perché finivano sempre con l’inventare qualche buffa filastrocca ai danni soprattutto di Lillie. Una in specifico, particolarmente succulenta, era diventata il loro scherzo preferito ogni volta che Lillie assumeva qualche atteggiamento provocante nei confronti di qualche suo sottoposto, e spesso loro tre finivano per mascherare le risate dietro rumorose soffiate di naso e colpi di tosse.
Con gli amplificatori a tutto volume e presi dalla musica, era impossibile notare lo squillo del telefono in camera da letto. Fu Kim a fermarli, mentre il rumore di un elicottero a bassissima quota invadeva rapidamente la quiete di Domland, e un vigoroso colpo all’abbaino li fece trasalire tutti.
Lillie, in tenuta di guerra, era aggrappata ad una scaletta sospesa nel vuoto che oscillava pericolosamente sotto le pale del suo elicottero. «In tuta da guerra?» commentò Kim «Mimetica, bazooka e cartucciere: ragazzi, abbiamo un problema». Non c’era tempo di cercare una sedia per aprire il lucernario: Girolamo si caricò Griša sulle spalle senza difficoltà e lo issò fino alla serratura. Dal primo spiraglio piovve la voce di Lillie amplificata da un megafono che la faceva apparire ancora più arrabbiata: «Poltroni!» tuonò «Mai una volta che siate reperibili al telefono, voi e i vostri strumenti! Siamo in guerra, emergenza, codice di livello 10, e voi state qui a fare i pappamolle! Scattare! Prendete le mimetiche, i giubbini antiproiettile e tutte le armi che avete a disposizione, poi salite sul mio elicottero. Vi voglio pronti entro cinque minuti e non tollero dimenticanze!». Per rendere più esplicita la consegna sbatté il lucernario più forte che poté, così i due in già precario equilibrio rovinarono comicamente a terra. Griša e Kim erano già sul fondo dell’armadio a recuperare le tute da combattimento, ma Girolamo fissava affascinato l’abbaino: «A volte fa più paura lei di mio padre» mormorò in trance.
Sette minuti dopo si stavano arrampicando in fila indiana sulla scaletta, con gli zaini da guerra stracarichi di armi e provviste, sferzati dagli urli da SS di Lillie: «Cominciamo male, in ritardo!» «Piantala» soffiò Griša, e Girolamo gli fece eco: «Porta rispetto». Bastava quella luce sinistra e irritata a ridimensionare Lillie, che si mise alla guida dell’elicottero rispondendogli furtivamente tra i denti.
Era il tramonto quando raggiunsero l’estrema periferia di San Pietroburgo, oltre le zone del porto: lì un tempo c’era un centro commerciale, ma aveva chiuso le saracinesche da più di un anno e l’intera zona era caduta in disuso. C’era un ampio parcheggio nel quale, di notte, i giovani teppisti facevano le gare motociclistiche («Ehm» tossicchiò imbarazzato Girolamo), e oltre un prato incolto troneggiavano le fabbriche abbandonate, ancora con il logo appeso sopra le porte bloccate. Nella luce rossastra degli ultimi raggi di sole spiccavano, neri, i pali dei lampioni spenti: nel complesso, quel posto appariva più spettrale di un cimitero di notte.
Lillie atterrò sul tetto del centro commerciale, ordinando a Kim di scassinare la serratura che portava all’interno, e solo quando furono al sicuro nel magazzino del sottotetto cominciò a spiegare: «Nell’ultima missione una delle mie navi è andata volontariamente fuori rotta: un ammutinamento. Erano in tre là sopra, e la navetta era contrassegnata con le loro iniziali: WGG» «Ancora loro!» protestò Griša, pensando alle tre croci di Haku «Speravo che tu li avessi già cacciati fuori» «Chi?» si interessò Girolamo, ma Lillie proseguì imperterrita: «Certa gente va tenuta buona solo concedendosi a letto, e io non ne avevo alcuna intenzione, per questo la WGG ha deciso di tradire il mio esercito: sono atterrati su un pianeta anonimo che dovevamo ancora esplorare, e hanno rubato alcune pietre sconosciute. Da allora non ho più avuto loro notizie certe: la navicella è rientrata, l’abbiamo seguita io e Kim sul radar della nostra base, e abbiamo anche captato un segnale che dava appuntamento per stasera proprio qui, nella periferia. Era molto strano, però, sembrava più una richiesta di aiuto che altro, e ad un certo punto abbiamo sentito dalla radio un coro di versi stranissimi, non si capiva nemmeno se fossero gemiti umani o ringhi animali, dopodiché il segnale è scomparso come se l’emittente fosse fuori uso. La cosa più strana è che i nostri impianti di ultima generazione non hanno rilevato la provenienza del messaggio, quindi noi dobbiamo stare di guardia qui e sorvegliare tutta la zona in attesa di qualsiasi avvenimento. La WGG faceva parte del mio esercito, e ora quei tre mi hanno tradita: potrebbero mettere in giro documenti segreti, e la nostra missione è distruggerli prima che possano parlare».
Griša gongolava tra sé: «Willy, Genius e quell’altro infame italiano stanno per fare una brutta fine. Goditi lo spettacolo, Haku!», e Girolamo meditava: «Sanno troppo e vanno eliminati, ho capito». Entrambi si erano concentrati solo sugli argomenti che conoscevano meglio, la vendetta e l’impostazione mafiosa del discorso, e Kim li riportò all’ordine: «Quei versi di sottofondo sembravano appartenere come minimo ad una dozzina di… cose» ribadì «Appena fuori dall’atmosfera, stasera, abbiamo piazzato una flotta delle nostre nuovi astronavi LK, quelle che i radar normali non possono rilevare, e in caso di pericolo sono tutti pronti ad atterrare qui nel parcheggio, quindi l’importante è non farsi prendere dal panico…».
Seduto contro il muro del magazzino, Girolamo guardava fuori lucidando la sua inseparabile lupara: non era certo che potesse servirgli, ma non era nemmeno disposto a farne a meno. «I disonesti vanno puniti» la interruppe «Ma, ad essere sincero, non vedo nulla di pericoloso: là fuori ci sono solo due ubriachi che non si reggono nemmeno in piedi».
Era vero: due sagome umane, appena distinguibili nella luce scarsa, barcollavano trascinando i piedi e incespicando nei mucchi di immondizia. Uno dei due cadde, picchiando la spalla contro un lampione così forte da farlo ondeggiare contro il cielo rosso scuro, ma andò avanti carponi come se nemmeno avesse sentito la botta, davanti agli sguardi perplessi dei quattro che, nel frattempo, si erano schierati contro il parapetto. Lillie li teneva d’occhio dal mirino del bazooka, pronta a dare il via.
Improvvisamente nella sua visuale comparve Girolamo, che correva come una scheggia con la mazza artigianale stretta nella mano sinistra e le dita della destra coperte da un tirapugni. Non l’aveva nemmeno sentito alzarsi né calarsi giù dal tetto aggrappandosi alle saracinesche. «Vai!» lo esortò «Allontanali da qui, non è il momento di bighellonare ubriachi».
Poi successe qualcosa di strano: Girolamo frenò così bruscamente da perdere l’equilibrio, strisciando con gli scarponi sul cemento, e per quella che parve un’eternità rimase pietrificato, accucciato per terra come un gattino terrorizzato. Con movimenti lentissimi strisciò all’indietro, mentre i due ubriachi si voltavano ciondolando verso di lui, con quegli stessi versi che Lillie e Kim avevano sentito dalla radio. Si scambiarono un’occhiata significativa che non sfuggì a Griša, ma prima di poter chiedere spiegazioni si sentì istruire: «Vai laggiù, recupera Girolamo e torna indietro più velocemente possibile. Non spaventarti se sentirai spari, abbiamo una mira perfetta e ti copriremo semplicemente le spalle. L’importante è che ci rifugiamo tutti quassù nel minor tempo possibile».
Non era il caso di fare domande, c’era solo da ubbidire. Griša non si fidava di Lillie, era ancora convinto che lei fosse un’arpia che aveva portato il suo migliore amico al suicidio, ma lì ora c’era anche Kim, e mai garanzia era stata più verosimile. Così impugnò la spranga di ferro che teneva sempre a portata di mano sopra lo zaino da missione e scese per la stessa strada seguita dal compagno, precipitandosi verso di lui.
La prima cosa che notò fu lo sguardo vacuo di Girolamo, fisso sui due volti sfigurati che aveva davanti. Erano esseri umani, indubbiamente, ma la loro pelle cadeva a pezzi in un colorito malaticcio, lasciando qua e là scoperta la carne sanguinolenta. Il tanfo di putrefazione che aleggiava sul parcheggio veniva da loro, e non dai cumuli di sporcizia come aveva pensato. Dovevano essere due lebbrosi all’ultimo stadio, forse addirittura tossicodipendenti.
Vedendolo così vicino, Girolamo si riebbe e balzò in piedi, fondandosi su di loro con un ruggito che non riusciva a nascondere la paura. Ne colpì uno alla tempia con la mazza, così forte da far sprizzare un denso sangue nerastro, e quando l’ebbe atterrato continuò a massacrarlo a pugni.
La creatura, qualunque cosa fosse, era insensibile e dotata di una forza soprannaturale: senza alcuna difficoltà se lo scrollò di dosso e si rialzò, mentre brandelli di carne cadevano dal volto irriconoscibile. Griša si tuffò sull’altro, afferrando coraggiosamente i capelli incrostati di sangue secco, e rovesciandogli la testa all’indietro lo riconobbe attraverso le descrizioni di Haku. In tasca sentì distintamente il peso della calibro 25 che Girolamo gli aveva regalato per il suo compleanno, ma non aveva il coraggio di usarla. Per quanto infame e odioso potesse essere, era pur sempre una delle più grandi fiamme di Lillie, dopo il famoso Willy che doveva essere comunque lì intorno! Lo scaraventò sul cemento, colpendolo a mezz’aria con un calcio sulla nuca, e subito con uno scoppio secco la testa coperta di capelli scuri gli si disintegrò davanti in una pioggia di sangue e cervello. Vincendo la nausea indietreggiò, con le gambe che non lo reggevano, e prima di scoprire altri orrori prese Girolamo per un braccio e lo staccò dal corpo che stava massacrando, balbettando: «Andiamo via da qui! Lillie ha sparato a uno dei suoi, vuol dire che c’è qualcosa di veramente serio!». Si erano appena allontanati di qualche passo quando anche il secondo figuro stramazzò a terra con la testa spappolata. Lillie, in bilico sul cornicione, stringeva ancora in mano la sua arma fumante. «Portatemene uno» ordinò, ma quello era troppo: Griša e Girolamo, nauseati, si erano accovacciati vicini su un'aiuola straripante di erba e sembravano pietrificati, entrambi con gli occhi spiritati e le labbra tremanti.
Fu un fruscio sospetto a svegliarli, proveniente dalla fabbrica abbandonata un centinaio di metri più a ovest: si voltarono nello stesso momento e videro un vasto schieramento di uomini disumanizzati, che brancolavano privi di coscienza e di qualsiasi reazione fisica, spinti da chissà quale macabra vitalità. E loro erano disarmati: una mazza e una spranga erano del tutto inutili.
Griša trovò per caso la rivoltella che teneva nella tasca della tuta, e la passò a Girolamo il quale, al contatto freddo di quell’arma familiare, ritrovò d’un colpo la lucidità. Cinque esseri li avevano quasi raggiunti, e con cinque colpi precisi scoperchiò loro il cranio; un attimo dopo entrambi correvano all’impazzata verso la saracinesca, con i passi scanditi dai mugoli bestiali sempre più vicini.
Kim li aiutò a salire, mentre Lillie si occupò di reclutare tutte le flotte a sua disposizione: «Annullate tutte le missioni» stava dicendo davanti alla radio «Emergenza di livello 10, codice nero: abbiamo bisogno di tutti, siamo sul tetto dell’ex centro commerciale. Astronavi, elicotteri, macchine e moto: abbiamo bisogno di tutti». Girolamo, rannicchiato tremante in un angolo, suggerì: «Fa’ in modo di reclutare anche la mia banda del Bronx, sono tutti bravissimi a sparare. Non voglio sapere cosa ci sia là fuori, ma è meglio abbatterli tutti».
In pochi minuti il cielo splendeva delle luci colorate delle flotte: era la prima volta che l’esercito di Lillie si mostrava al completo, e sembrava non avere limiti. Una sonda radiocomandata atterrò sui due cadaveri riversi nel loro sangue nero e prelevò campioni di materiale, per poi collegarsi direttamente all’analizzatore usato per esaminare le sostanze rinvenute sui pianeti da colonizzare.
Kim era diventata in poco tempo abilissima al computer, e già stava trasmettendo i dati a tutte le flotte. Griša, intontito dall’orrore, se ne stava accucciato ai suoi piedi e le teneva la testa in grembo senza accorgersene; abbarbicato a se stesso dietro uno scatolone, Girolamo si sforzava di riprendere il controllo. «Sembrano zombie» uggiolò, e Lillie annuì: «Temo che la loro non sia solo un’apparenza. Sono stati infettati dalle radiazioni delle pietre sconosciute che la WGG ha rubato su quel pianeta, sono morti ma è come se non lo fossero. Una sola cosa conta: non dobbiamo toccarli o finiremo infettati a nostra volta».
Griša e Girolamo gracchiarono insieme: «Noi li abbiamo toccati!», ma Kim non lasciò loro il tempo di aggiungere altro: «L’importante è che il loro sangue infetto non si sia mescolato al vostro. Avevate ferite sulle mani?». I due si controllarono minuziosamente, ma erano talmente atterriti che anche una pellicina sollevata era motivo di sgomento, e si tranquillizzarono solo quando Kim ebbe sintetizzato un antidoto efficace. «Avevo poco materiale a disposizione» spiegò, portando a Lillie un’ampollina di quel nuovo rimedio battezzato Contravveleno «Con una goccia di questo farmaco puro, i pezzetti di carne marcia che la sonda ha portato sono tornati rosei e irrorati di sangue, quindi a loro ho propinato la stessa medicina diluita con la classica soluzione di sali minerali». Studiando le carte appena stampate, Lillie scoprì un ulteriore vantaggio: «Con questo Contravveleno puro» annotò «Si può essere immuni dal contagio per qualche minuto».
Sopra di loro, le astronavi avevano edificato una formazione a rombo capace di rendere la zona invisibile ai radar tradizionali; a bassa quota, sonde e navette mitragliavano senza sosta la folla di zombie che cercava di raggiungere il centro commerciale. «Dobbiamo scendere» disse Lillie, caricando il bazooka e porgendo ai compagni tre mitra «Prendiamo un paio di gocce di Contravveleno e, mentre le flotte fanno saltare in aria la fabbrica in cui gli zombie sono annidati, falciamo tutti quelli che sono venuti fuori» «Tutti?» obiettò Kim «Saranno un centinaio, là sotto».
Le sue parole vennero sommerse dal rombo uniforme di cinquanta moto di grossa cilindrata, e Girolamo si illuminò: «I miei amici hanno portato tutti!» cinguettò.
Distribuito il farmaco, i quattro si schierarono in riga con le spalle protette dalla saracinesca e le armi spianate. Gli zombie, vedendo quattro vivi così a portata di mano, deviarono la loro marcia istintiva verso di loro. «Fuoco!» urlò Lillie, e simultaneamente i tre mitra detonarono la catena di colpi, mentre i bossoli dorati cadevano tintinnando sui loro scarponi chiodati. Kim aveva una precisione assoluta, a Girolamo brillavano gli occhi sotto il cappello a tesa larga, e Griša metteva in pratica egregiamente gli insegnamenti ricevuti da entrambi. I colpi di bazooka di Lillie erano meno frequenti ma devastanti: là dove colpivano c’era un cerchio di cemento annerito, e i corpi sfracellati tutti intorno. I centauri di Girolamo, disposti in riga, si erano schierati in due per mezzo: uno guidava e l’altro sparava, in modo che una volta finita la benzina fosse possibile cambiare moto e fare un secondo raid. C’era chi spiccava le teste con lame, mazze e perfino accette da boscaioli; chi maneggiava rivoltelle di tutti i calibri aprendo larghi buchi nelle fronti esangui; e anche chi, in bilico sulla sella, faceva sporgere seghe da giardinieri che sbriciolavano i corpi.
Lillie, sola, salì sull’elicottero e planò verso la fabbrica abbandonata, inserendo il pilota automatico in modo da restare sospesa sopra il tetto. Teneva sottobraccio una valigetta su cui lampeggiava un display digitale. «Sessanta secondi» programmò con un sogghigno, calando la bomba piccola ma letale dentro uno dei fumaioli «Vi auguro che lì dentro ci sia molto materiale infiammabile». Quell’ordigno era il suo gioiello: era capace di provocare una detonazione molto silenziosa e circoscritta, senza danneggiare le vicinanze del botto colpendo in profondità. Ugualmente, tuttavia, accese i lampeggianti rossi dell’elicottero e ordinò: «Ritiratevi tutti nel campo a est!».
Tutto l’esercito fece appena in tempo a rifugiarsi dietro un muro quando la terra tremò e un’ondata di aria calda fece mancare il respiro per qualche terribile secondo. Per quell’infinito istante tutta la periferia fu illuminata a giorno, le navi ormeggiate al molo beccheggiarono pericolosamente e nuove crepe si aprirono sui muri dei palazzoni vuoti.
Quando uscirono, della fabbrica era rimasto un cumulo di macerie fumanti. Lillie, appoggiata all’elicottero, si accese con noncuranza una sigaretta. «Raccogliete i corpi e buttateli nella voragine che ho creato» ordinò «Non toccateli, però, trascinateli con le moto e le navette».
Erano in tanti, e svolsero il compito immediatamente: giusto il tempo di una sigaretta. Lillie gettò il mozzicone acceso alle sue spalle, e subito divampò un rogo che cancellò le tracce dell’orrore appena sventato. «Ecco fatto» concluse «Anche questa missione è andata a buon fine».
Si era salvato soltanto uno zombie, che ciondolava stupidamente tutto intontito dall’esplosione. Griša aveva ancora un colpo nella calibro 25, e Girolamo gli fu subito a fianco: «Forza, cuginetto» lo esortò «Tu qui sei il più giovane di tutti, ma hai dimostrato di sapertela cavare benissimo. Dagli tu il colpo di grazia!». Pur sorpreso da quel nuovo appellativo, lui impugnò l’arma e prese la mira: non gli tremavano più le mani, si era impratichito a sufficienza. Un unico colpo e anche l’ultimo zombie crollò a terra, scomposto, con un foro in mezzo agli occhi.
«Complimenti» gli disse Lillie, e le sue parole stupirono perfino più della strana uscita sul «cuginetto» di Girolamo: nessuno l’aveva mai sentita elogiare chicchessia. Griša si inorgoglì, ma il momento più bello fu quando Kim lo abbracciò forte sussurrando in un bacio: «Sono fiera di te».
La battaglia era durata tutta la notte, anche se sembrava che fossero trascorsi pochi minuti dall’arrivo al centro commerciale: cominciava già ad albeggiare, e nella luce tenue del giorno ormai prossimo si svelò la desolazione di quella zona già abbandonata a se stessa. Rovine fumanti, calcinacci e polvere dappertutto, tracce di esplosioni, lampioni divelti, sterpaglie incenerite: il sole sorgeva filtrato da fumo e polverone, ma rivelava la loro vittoria: non era rimasto in piedi (dire “non era rimasto vivo” non aveva senso…) nemmeno uno zombie, e tutto l’esercito affratellato alla banda del Bronx ruppe la tensione in uno scrosciante applauso di trionfo.

* * *

In effetti, per qualche giorno tutto filò per il verso giusto, ma Griša ormai aveva già perso completamente la fiducia. Anche quando Lillie si rinchiudeva in casa a rimpiangere Haku era pericolosa, perché poi finiva sempre per prendersela con tutti loro, e alla fine chi ci rimetteva era sempre lui. Kim era troppo legata a Lillie per abbandonare la Stella Verde, e a lui non rimaneva altro da fare che ritirarsi invelenito a Domland rimuginando maledizioni, oppure bighellonare insieme a Girolamo col quale stava andando sempre più d'accordo.
Finché, un pomeriggio, Kim atterrò con la sua LK proprio dietro la lunga via di Domland. Era una visita improvvisata, la sua, e si avvicinò furtivamente alla casa per fare una gradita sorpresa a Griša.
La prima cosa che notò fu la musica che sembrava irrompere dai garage e, perplessa, si fermò per ascoltare meglio: doveva essere un disco, ma allora cos'era quel suono così grezzo e genuino? Chi mai poteva essere là sotto, se in quel paesello sperduto non abitava nessuno?
La batteria sbagliò un passaggio, e con una cascata di accordi stonati anche gli altri strumenti si fermarono, sciogliendo la musica in un coro di sghignazzate e ululati canzonatori. Nitida, una voce femminile sovrastò le altre, ma parlava in una lingua sconosciuta, alla quale uno solo rispose: Griša.
Kim si appoggiò al muro, mentre una strana rabbia le faceva bruciare gli occhi, e per quanto il suo buonsenso le suggerisse di non fare cattivi pensieri, per una volta non lo ascoltò. Avrebbe voluto buttare giù la porta e punire quell'infingardo, ma all'ultimo momento decise di spiare dalla finestrella semiaperta, se non altro per intervenire nel momento più opportuno. Ma le bastò un'occhiata per rimanere immobile, completamente sbalordita e un po' imbarazzata per il fugace pensiero che aveva fatto.
Griša era seduto su una pila di pneumatici, con un microfono davanti e la chitarra elettrica di Haku tra le braccia, e stava spiegando divertito: «Era elfico, e ora sai come mi sento quando tu, Lillie e Kim parlottate in fretta tra di voi senza che io riesca a seguire il discorso!». Con chi stava parlando, e soprattutto di cosa? Possibile che...?
Dall'altra parte del garage, intento a lucidare uno sfavillante basso nuovo, Girolamo stava ancora ridendo insieme ad un altro ragazzo mai visto prima, il batterista, che protestava: «Hai sbagliato tu per primo, io non avrei dovuto seguirti!». La ragazza che aveva parlato prima era tutta affaccendata dietro un pianoforte, dal quale traeva qualche limpida nota che sembrava tintinnare sul vetro di una bottiglia di vino rosso appoggiata li sopra, e anche lei era una perfetta sconosciuta: capelli lisci, pettinatura alla dandy, abbigliamento di gusto retrò ma molto elegante. Griša le si avvicinò (Kim, accovacciata fuori dalla finestra, fu per un attimo sul punto di sfondare il vetro senza troppe cerimonie) e sorseggiò un po' di vino da un bicchiere prima di passarlo agli altri due, dopodiché le si sedette accanto e riprese a parlare, questa volta in modo perfettamente comprensibile in modo che anche Girolamo e quell'altro ragazzo lo ascoltassero: «Quello di cui avremmo bisogno è un altro chitarrista» disse, serio «Se Haku fosse ancora vivo... era il suo sogno riuscire a rimettere insieme una band. In mancanza di un accompagnamento ritmico dobbiamo fare affidamento solo sul pianoforte, almeno per il momento, quindi cerchiamo tutti quanti di seguire Kate. Girolamo, tu suoni il basso da poco e sei l'unico pienamente giustificabile se ogni tanto sbagli qualcosa. In quanto a te, Dimitri, non trascinare il basso nei tuoi virtuosismi, perché mandi tutti quanti fuori tempo! Per il momento proviamo tutte le canzoni senza fronzoli, in modo da padroneggiarle più facilmente, e aggiungiamo dopo tutti gli abbellimenti del caso. Il nome che abbiamo scelto per il gruppo deve essere anche un fatto!». Il batterista si esibì in una sonora rullata, strepitando: «Sintonia! Sintonia per sempre!», e tutti scoppiarono a ridere. Era esilarante anche solo vederlo con quella pettinatura: aveva i capelli perfettamente lisci, rossi, tagliati a caschetto ma rasati sulla nuca, che proiettavano l'ombra di un grosso fungo sulla parete; una spolverata di lentiggini intorno agli occhi quasi dello stesso colore dei capelli gli conferiva un'aria ancora più sbarazzina. «Cretino» lo zittì l'altra ragazza, ma sorrideva.
Di colpo, come se si fossero messi d'accordo, i quattro tacquero nello stesso istante. Griša eseguì uno smorzato conteggio iniziale, e in un attimo il garage fu nuovamente invaso dalla musica, questa volta molto più sicura. Girolamo suonava tutto serio, con le labbra strette dalla concentrazione, Kate sembrava far scivolare le dita sui tasti del pianoforte, Griša arpeggiava una delicata melodia e Dimitri fondeva tutto con un ritmo ovattato ma al contempo consistente.
Kim lo guardò a lungo, molto a lungo, impegnato a tenere d'occhio i compagni di gruppo per non rischiare di sbagliare proprio ora che erano partiti così bene, e si sentì tremare il cuore quando cominciò a cantare. Aveva una voce rauca e dolce, stabile, che sovrastava la musica con parole inequivocabili: «Ti aspetterò, dovunque tu sia, ti aspetterò se sarai ancora mia, ti aspetterò su questa strada di periferia...». Nel secondo ritornello cominciò a cantare anche Girolamo, spalleggiando la voce solista, e quasi era irriconoscibile: dov'era il temutissimo criminale che urlava minacce ubriaco? Dove aveva esercitato quella voce così calda e intonata?
Avrebbe potuto rimanere così per sempre, ascoltando una canzone scritta per lei. Quando finì, Griša sospirò: «Avrei voluto che lei fosse qui ad ascoltarci». L'aveva detto piano, ma il microfono vicino a lui era ancora acceso. Girolamo cercò di rincuorarlo, ma si vedeva fin troppo che le sue parole erano solo una maschera: «Prima o poi...», cominciò, ma di fronte a quello sguardo disilluso lasciò cadere il discorso.
Sentendo bussare, tutti si girarono istintivamente verso Dimitri per chiedergli come avesse fatto a produrre quel suono con la batteria, ma Griša si era già lanciato fuori dal garage, correndo fuori nel sole abbacinante dell'estate. «Sei qui!» esultò, prendendo Kim tra le braccia e sollevandola «Fantastico, è come se avessi espresso un desiderio che si è avverato istantaneamente! Vieni giù, voglio presentarti il mio nuovo gruppo: i Sintonia!» «Vi ho sentiti» sorrise lei «Ma non ho molto tempo a disposizione. Vuoi venire via con me, ora? Ho pensato che il nostro tenente dovrebbe finalmente imparare a pilotare le navicelle della Stella Verde: pensa, potremmo stare insieme anche durante le missioni, perché prenderesti parte anche tu».
Le prove, oltretutto, erano ormai finite: qualche minuto, giusto per riporre gli strumenti e salutarsi, e cominciò l'addestramento.
Era difficile padroneggiare quei comandi così complicati: timone, radar, accelerazione, gravità, navigatore... Griša seguiva attentamente le spiegazioni, seduto alla guida per la prima volta in vita sua, e prima di iniziare la prova osservò, dubbioso: «Non sarebbe stato meglio farmi incominciare con il prototipo? È più semplice, se non sbaglio». Kim gli schioccò un bacio sulla fronte, rassicurante, e sorrise: «È più semplice, ma io sono certa che le LK non rappresenteranno un ostacolo per te. Coraggio: parti!».
Il primo esperimento fu disastroso: la navetta, incredibilmente maneggevole, si sollevò docile fino a un paio di metri da terra, spostando una nuvola di terra riarsa; bastava sfiorare i comandi per metterli in funzione, e ben conoscendo l'altissimo potenziale distruttivo di una LK, Griša esitava. Kim stava seduta dietro di lui, insegnandogli via via tutto ciò che doveva fare e ricordandogli ogni tanto: «Stai tranquillo, sono pronta a sostituirti qualunque cosa succeda, e soprattutto pensa che queste navette dispongono di un sistema automatico di atterraggio in caso di problemi: se dovessi perdere il controllo, atterreremmo dolcemente sul primo spiazzo disponibile». Il sistema di salvataggio automatico era destinato ad entrare in funzione spesso, quel pomeriggio, ma Griša era abbastanza testardo da non mollare tanto facilmente. Prima fece il giro del palazzo, poi attraversò tutto il sobborgo di Domland, infine con un gran sospiro impennò verso il cielo. «Bravissimo, così!» lo elogiò Kim, lasciandogli pian piano tutti i comandi liberi. Da quell'altitudine non aveva più paura di schiantarsi da qualche parte, e già si era reso conto di come funzionassero le LK: per quanto parecchie leve e pulsanti gli risultassero sconosciuti, le funzioni principali gli erano già ben chiare. Presto, dedusse, il prototipo sarebbe stato suo.
Era ormai il tramonto quando rientrarono a Domland, sull'ampio spiazzo erboso che portava dritto all'argine della Neva, e Griša scese dalla navicella quasi a malincuore. Non si era mai reso conto di quanto immenso fosse lo spazio a loro disposizione, e si sorprese a chiedere, quasi senza accorgersene: «Haku è mai stato un pilota?». Kim si oscurò, come se un pensiero troppo cupo le avesse pesato sul cuore, e abbassando la voce buttò lì una spiegazione che aveva il gusto amaro di una confessione: «No» disse «A quei tempi mi occupavo solo io dei viaggi, non avendo nessuno che mi aspettava qui. Da quando Haku è morto, Lillie non resiste più molto tempo in casa per timore di rimanere schiacciata sotto le rovine dei suoi ricordi, e allora mentre Dylan è all'asilo mi aiuta per i viaggi più brevi. E poi... Haku e Lillie, ultimamente, era come se nemmeno più si frequentassero: se anche lui avesse chiesto di imparare a guidare, forse lei avrebbe potuto anche ignorarlo».
Si tenevano per mano, vicini nel tramonto, e per un attimo parve a entrambi di percepire uno sguardo greve di invidia e rimpianto che raffreddò l'aria tiepida della sera di luglio. Esistevano davvero i fantasmi? Secondo loro, sì. «Haku?» chiamò Griša, e una ventata gelida passò loro molto vicina. Kim, che indossava solo una leggerissima maglia di seta, rabbrividì e si strinse a lui, appoggiandogli la testa su una spalla e ascoltando per qualche minuto il suo respiro. «A cosa stai pensando?» sussurrò, sentendolo teso.
Quando lo guardò negli occhi, Griša aveva le iridi di uno strano colore rossiccio: era forse il riflesso del tramonto? Non era raro che qualcuno scherzasse sui suoi canini un po' troppo lunghi per il normale, ma in quella luce strana che digradava rapidamente verso il crepuscolo aveva davvero un che di vampiresco. «Ai fantasmi» mormorò dopo un interminabile silenzio «In quella che sembra un'altra vita, quando ero il re di una numerosissima compagnia, tutti noi eravamo appassionati di fantasy e paranormale. Quello che pochi capiscono è che alcune delle “cose” descritte nei libri esistono veramente, anche se sapientemente nascoste! Ti faccio un esempio: oggi, quando ho salutato Kate, abbiamo parlato nella lingua degli Elfi, e questo perché io... non sono esattamente “normale”. Sono un incrocio tra due nature contraddittorie: per metà elfo, e per l'altra metà vampiro. Ecco perché la luce del sole non mi fa male. Creature, per così dire, “magiche”, nel corso degli anni sono state costrette a ibridarsi per rendersi sempre più simili al mondo in cui viviamo: avresti mai pensato a me in questi termini? Pensa che al mondo siamo solo in tre elfi-vampiri: io, Estel e nostra figlia. Estel è nata dall'amore impossibile della Regina degli Elfi e del Signore dei Vampiri, e io ho acquisito la sua stessa natura tramite un rituale. Nessuno lo sospetterebbe mai, giusto? Ora, pensa a Kate: ha la carnagione delicata, gli occhi di un verde chiarissimo, ma sa mimetizzarsi perfettamente tra tutti noi. In realtà, però, è un'elfa di sangue puro, e se tu riuscissi a vederla quando è insieme ad altri che ne sono al corrente, noteresti subito che ha le orecchie appuntite. Anche Haku era “speciale”: aveva un potere inconscio, quello di poter leggere l'anima delle persone come se lui stesso fosse uno specchio. Girolamo, da ragazzino, è stato sottoposto al rituale di – credo – una vecchia zingara morta nello stesso incendio che ti ha resa orfana: se mai avesse trovato qualcuno capace di amarlo davvero, e se poi la loro storia fosse finita, il suo successore sarebbe stato condannato ad ereditare un frammento della sua anima in modo che anche solo una piccolissima parte di lui rimanesse sempre al fianco dell'altra persona. Questa sua particolare protezione è entrata in conflitto con il potere di Haku: Lillie ha amato Girolamo al punto da avere un figlio, poi tutto è finito, e mesi dopo si è innamorata di Haku. Un pezzetto dell'anima di Girolamo si è impiantato in quella di Haku, e questa è diventata la sua particolarità: se si fosse trovato in uno stato alterato di coscienza, furibondo o disperato, avrebbe potuto trasformarsi in una sorta di specchio di Girolamo. Io l'ho visto all'opera più volte, con quell'anima condivisa: diventava una bestia irrefrenabile. Altri miei amici di un tempo, come Dralbij, o come Bettina, invece, erano semplicemente dei maghi: maghi veri, non come i santoni di cui si legge nei libri moderni. Vedi, dunque? Sicuramente tra tutti... ma no, forse è solo una follia».
Kim aveva ascoltato tutto senza fiatare, ma teneva gli occhi spalancati in un'espressione molto seria e forse un po' scettica. Aveva sentito parlare del rituale al quale Girolamo si era sottoposto, ma lei stessa non credeva che al mondo potessero esistere altre particolarità così eterogenee. Eppure, aveva incominciato a capire perché mai Griša le avesse rivelato tutti quegli arcani. «Tu saresti in grado» realizzò, allibita «Tu potresti far tornare in vita Haku».
Aveva paura di quegli occhi rossi, per quanto dolci e innamorati, e tremò quando li vide per la prima volta splendere come rubini accesi. «Sono sempre io, briciolina» disse lui, arretrando per non rischiare di farla sentire in pericolo «E ti amo troppo per poter convivere con l'idea di doverti tenere nascosto qualcosa. Guarda: io sono così quando uso la natura notturna». Ormai le sue iridi brillavano di luce propria, i canini baluginavano azzurrognoli nella luce lunare che gli sbiancava ulteriormente il volto mortalmente pallido. Ringhiò al cielo buio, mentre spiegava due enormi ali nere, da pipistrello, con le membrane bucherellate da chissà quale battaglia. «Me la sono cavata bene con la tua LK» ammise «Soltanto perché io stesso so svolazzare. Che ne dici? Potrei essere utile alla Stella Verde anche così?». Si captava la sua paura, non sapeva che reazione aspettarsi, e Kim lo sapeva; ma sapeva anche di amarlo troppo per rischiare di perderlo o di ferirlo. «Certamente» gli assicurò «Ma è meglio che tu non usi molto spesso questa tua qualità: sei spaventoso!» «Mai quanto la tua guida delle LK» ammiccò lui, tornando gradatamente quello di sempre «A proposito: c’è tempo per un’altra esercitazione? Non mi sento del tutto sicuro per quanto riguarda il bilanciamento degli alettoni, e…» «Lillie si starà chiedendo imbestialita dove sono finita» lo interruppe lei, posandogli un dito sulle labbra «E non è il caso che sappia quello che ti ho insegnato. La Stella Verde è un’organizzazione planetaria perfettamente segreta, e la nostra comandante ha tutte le ragioni di essere diffidente nei confronti di tutti: un minimo sospetto della sua esistenza, e succederebbe il finimondo. Per il momento, anzi, faresti bene a non dirle nulla di navette, comandi, coordinate spaziali e tutto il resto: se tu non fossi già dei nostri, se tu fossi soltanto il mio ragazzo, non sospetteresti nemmeno dell’esistenza di questo esercito. Io mi fido di te, e sono sempre più sicura che non ci tradirai: stai arrivando al punto di trascurarmi pur di pensare alle navicelle!». Lui trasalì, sorpreso, e si affrettò a recuperare il tempo perso: la abbracciò, così deliziosamente minuta, e si perse in un bacio infinito.

* * *

La caratteristica principale della Stella Verde era la segretezza, ma alla lunga si stava rivelando un’arma a doppio taglio: le spese per mantenere un esercito in piena attività erano veramente esorbitanti. La maggior parte delle risorse utilizzate proveniva da piattaforme spaziali che estraevano materiali sconosciuti da anonimi pianetini, ma i conti finali se non erano in rosso lo mancavano di poco. Era necessario trovare un lavoro per tutti al più presto, e fu proprio Griša ad avere l’illuminazione, un caldo pomeriggio assolato: «I campi» se ne uscì nel pigro silenzio dell’ora della pennichella. Girolamo dormiva sul divano, Lillie sembrava una statua acciambellata su una poltrona, e lui si stava per assopire con Kim che gli faceva scorrere le dita lungo la schiena, sotto la maglia, mandandolo in visibilio. «Quando lavoravo al Number One, il dj capo mi ha raccontato del suo lavoro diurno: l’assicuratore. Però ha anche parecchi filari di mele, e mi sembra di ricordare che il suo vicino di campo abbia anche pesche e pere che maturano in questo periodo. Sicuramente se mi facessi sentire riuscirei a piazzarci tutti quanti!» «Ma tu non dormi mai?» sbuffò Girolamo, rigirandosi tra i cuscini «Se potessi io essere coccolato quanto lo sei tu, credo che potrei sonnecchiare così per tutto il giorno» «Grande differenza con la tua vita attuale, allora» lo rimbeccò prontamente Griša. Quegli esilaranti scambi di battute a doppia direzione erano sempre degni di nota, e nelle risate generali anche Lillie aprì gli occhi.
L’idea, comunque, era decisamente ottima: avrebbero lavorato per tutto luglio e settembre nell’orario in cui Dylan era all’asilo, e durante le sue vacanze di agosto non era certo un problema organizzarsi i turni. E così Griša, sfoderando il suo irresistibile fascino da dj, guidò il quartetto fino alla grande zona agricola pietroburghese, fermandosi davanti ad un imponente casolare di campagna; nell’ampio magazzino erano già impilati i cassoni per la raccolta della frutta, e oltre il muro massiccio si intravedevano alberi stracarichi di mele ancora verdi.
Tutti si aspettavano di essere ricevuti da un giovanotto, immaginando un dj abbastanza carico di esperienza da essere più anziano dello staff del Number One, ma quando videro arrivare un uomo sulla cinquantina non poterono trattenere un mormorio di stupore. Lo videro strizzare gli occhi azzurri sotto un cappello di paglia, strofinarseli incredulo e poi urlare, dopo uno stranissimo verso stridulo: «Non ci posso credere… Dj Blacky!». Griša gli corse incontro, dopo aver risposto con lo stesso vocalizzo senza senso, e i due cominciarono a parlare fitto, ridacchiando e a volte addirittura sghignazzando senza ritegno. Nessuno avrebbe potuto immaginarsi un accordo di lavoro stipulato con tanta ilarità, e quando l’ometto si rivolse a tutta la squadra per impartire i primi ordini stava ancora ridendo per una buffonata che, a quanto pareva, avevano capito solo lui e Griša: «Comincerete da domani nel campo del mio vicino, staccando le pesche, poi passerete alle pere, e verso settembre toccherà ai miei filari di mele. La paga, da queste parti, è di cinque rubli e mezzo all’ora». Era esiguo come stipendio, ma gestibile: essendo tutti e quattro della Stella Verde, era scontato che una parte del ricavato sarebbe finita come fondo cassa militare, e in ogni caso nessuno aveva mai recriminato sui soldi: se serviva qualcosa pagava chi aveva qualche rublo in più, o chi aveva il portafogli più a portata di mano.
Cominciò così anche la lunga estate di lavoro. Il caldo si faceva sentire in tutta la sua intensità, la peluria delle pesche provocava fastidiose irritazioni sulla pelle, i rametti tranciati dei peri graffiavano loro le braccia senza pietà: non era un lavoro facile, ma diventava sostenibile quando erano in compagnia. Ogni tanto trascinavano carretti e cassette di frutta a terra, altri giorni si inerpicavano sul carroponte e alleggerivano i rami più alti, e quando proprio la giornata iniziava male erano costretti ad adoperare perfino i pesantissimi scaloni. Mangiavano insieme, accampati all’ombra di un’enorme quercia secolare, e dopo pranzo avevano anche il tempo di fare un sonnellino ristoratore; spesso Lillie preparava all’alba un thermos di caffé che si manteneva bollente fino a mezzogiorno, che veniva poi diviso con gratitudine. Per Griša e Kim, poi, tutto quel fogliame era una benedizione: potevano imboscarsi tra le frasche e approfittarne per scambiarsi dolcissimi baci, e un pomeriggio erano perfino riusciti a fare l’amore sulla riva di un ruscelletto all’ombra di un salice.
Come in tutti i lavori, c’erano stati anche i momenti di rabbia e quelli di sconforto. Griša e Girolamo, per esempio, non stavano per nulla simpatici al padrone dei campi vicini; e c’era con loro anche un signore attempato, un viscido argentino che Griša aveva subito schedato come Larvoniano, il cui passatempo preferito era fare il cascamorto con Lillie e Kim. Quando passarono dal loro ufficiale datore di lavoro toccò alle due amiche avere vita difficile e battibecchi con il capo, ma nel complesso tutti e quattro erano molto testardi, e non mollarono mai nonostante la stanchezza e, dopo tante settimane di campi, l’esasperazione.
Alla sera, prima di andare a letto, Griša leggeva e rileggeva il diario di Haku, ma non riusciva a sbrogliare la matassa. Lillie, effettivamente, aveva un atteggiamento ambiguo con tutti, perfino con l’argentino che voleva a tutti i costi offrirle sigarette del suo paese; ma non esistevano prove concrete che lei fosse una mangiatrice di uomini. A volte, inoltre, aveva certi scatti d’ira che facevano rabbrividire; ma erano comunque semplici sfuriate in confronto alle torture che descriveva Haku. Non gli stava simpatica per la sua enigmaticità, questo doveva ammetterlo, ma nemmeno la odiava.
Cominciò a faticare a mandare giù quando le missioni di Kim si moltiplicarono. Ogni fine settimana, misteriosamente, una delle due LK era costretta ad assentarsi per controllare gli avamposti negli angoli più remoti della galassia, e toccava sempre a lei. Lillie non voleva sentire ragioni, ma il motivo di fondo del suo comportamento sempre più dittatoriale era dopotutto abbastanza evidente: Haku. Invidiava Griša e Kim e ingoiava il dolore per la sua morte, e il cocktail di due sentimenti così contrapposti metteva a dura prova i suoi nervi.
Finché, un mattino, Griša e Girolamo arrivarono insieme davanti al portellone dell’hangar: era il momento tanto atteso delle prime lezioni di pilotaggio, e se l’uno fingeva di essere stupito, l’altro non stava più nella pelle dall’emozione.
I computer erano tutti spenti, e tra le navette ordinatamente allineate si distinguevano due crudeli spazi vuoti: quelli riservati alle LK. Lillie aveva assicurato che non avrebbe più mandato Kim in missione da sola, ma li aveva buggerati con la sua sfuggente abilità verbale: già, non aveva mai parlato di abolire le missioni in coppia.
I due amici, esterrefatti, si guardarono l’un l’altro come chiedendosi notizie; e poi, quando si resero conto che Lillie e Kim non c’erano più, si sedettero sullo scalino dell’ingresso e non riuscirono a dire più nulla.

* * *

Ormai non era più una novità per nessuno vedere Griša e Girolamo bazzicare insieme per il Bronx: si trattava di un dato di fatto accettato da tutti, anche se non condiviso. Stavano laggiù, all’ombra del palazzo rosa, spesso senza parlare per ore ed ore, mentre bottiglie di birra vuote e mozziconi di sigarette si accumulavano intorno a loro. Ben pochi, in quei momenti, avevano il coraggio di avvicinarsi a loro da sobri: bisognava essere ubriachi o fumati per non tremare passando nel fuoco incrociato di sguardi che passava tra quelle due sfingi.
Non c’era astio tra di loro, né quella sorta di formale sopportazione reciproca degli inizi: erano disperati, stremati dalla nostalgia e dal rimpianto, da quando Lillie e Kim erano partite per una lunga missione la cui data di termine non era nemmeno stata fissata; solo che non volevano darlo a vedere, troppo orgogliosi e troppo ancorati alla loro aria da duri. Soltanto una notte, sdraiati sotto le stelle sul tetto del palazzo rosa, avevano sospirato nello stesso istante: «Dove saranno ora?».
Quelle tre parole avevano avuto il potere di scuotere la malinconica apatia in cui erano caduti: l’esercito segreto di Lillie era noto a entrambi, e pur con tutte le cautele scoprirono di essere a conoscenza più o meno dei medesimi dettagli. «Lillie è il capo», ripetevano spesso tra frasi smozzicate «Ma è Kim la mente di tutto. Hanno avamposti disseminati su tutti i pianetini e gli asteroidi della galassia. Nessun governo terrestre ne è a conoscenza». Si rendevano conto perfettamente della gravità della situazione: dovevano a tutti i costi ritrovarle, prima di essere stroncati dall’interminabile attesa che lasciava sospesa qualsiasi ipotesi, ma avevano a disposizione soltanto le loro capacità dato che nessun altro era a conoscenza dell’organizzazione planetaria nascosta. Anzi: se qualcun altro oltre a loro sapeva, loro non ne erano nemmeno al corrente.
Fu un’afosa sera d’agosto che Griša ebbe un’idea.
Lui e Girolamo, per anestetizzare la solitudine e il silenzio, si erano intrufolati in una discarica che confinava con un cimitero di automobili: potevano rubare qualunque cosa, protetti dal buio, e poi rivendere a mercato nero ricavando un cospicuo gruzzoletto. Non era la prima volta che lo facevano, e quando si spartivano il guadagno sembravano due fratellini intenti a contare i dolci di Natale… almeno finché non si notava lo sguardo diffidente volto a fregare prima di rimanere fregati.
Griša, appollaiato come un corvo sul tetto di una fuoriserie ridotta ad una carcassa rugginosa, dominava tutto il vasto mare di detriti immerso nella notte. Non c’era la luna, una densa afa rossastra rifletteva i lampioni di qualche cittadina lontana, e in quel silenzio perfetto spiccava il gorgoglio del fiume, lì mosso dagli scarichi fognari. Di lui si vedeva solo la brace della sigaretta. «Lamiera dappertutto» commentò «Se noi venissimo qui ogni notte, recuperando pochi pezzi alla volta, potremmo costruire una navicella e cercare di raggiungere Kim e Lillie. Ho sempre osservato attentamente tutti i loro calcoli, e credo di essere in grado di penetrare nel computer centrale dell’esercito e copiare le coordinate del loro viaggio. Però non sono un meccanico, e probabilmente non riuscirei ad assemblare i pezzi».
Attentissimo, Girolamo socchiuse gli occhi: lo faceva sempre quando qualcosa gli interessava particolarmente, e sembrava quasi di vedergli sprizzare scintille verdi dalle iridi schiarite dalla concentrazione. «Tu sapresti scoprire dove sono?» ripeté, impadronendosi senza cerimonie della sigaretta «Io potrei provare a costruire una navetta, se avessi tutti i calcoli già pronti. Non ho studiato quanto te, ma nella vita pratica ho sempre saputo cavarmela egregiamente. Ci vuole del coraggio, però: questo non è un furtarello da supermercato, e nemmeno una rapina in banca. Ne vanno di mezzo le nostre vite! Tu sei un bravo ragazzo, l’ho sempre detto, e spesso non riesci a nascondere la tua intelligenza: mi fido di te… almeno per queste cose».
Furtivi come erano entrati lì dentro, i due si inerpicarono sulla cancellata chiusa e atterrarono silenziosamente su un cumulo di erba tagliata. Avevano già ben chiaro il loro piano: Girolamo avrebbe reclutato tutti i suoi fedelissimi del Bronx, abituati a rubare e truccare anche i motori, e Griša si sarebbe occupato del delicatissimo compito di scovare i piani di viaggio di Lillie. Non poteva entrare in casa sua: Kim gli aveva rinfrescato la memoria in materia di aprire anche i lucchetti più robusti senza lasciare tracce, ma aveva anche dimostrato una bravura spaventosa nel piazzare ingegnosissime trappole invisibili e spesso letali. Doveva arrangiarsi da solo, dal suo computer di casa, sperando di essere abbastanza esperto da superare le barriere delle password. Era la sua mente contro quella di Willy: un confronto impossibile sul piano informatico. Sentì di odiare il grande amore di Lillie almeno tanto quanto Haku l’aveva – giustamente – temuto, e proprio mentre così rifletteva si ricordò di quanto Lillie gli aveva rivelato, qualche notte dopo il funerale: «Willy mi faceva comodo per tante cose, ma non l’ho mai amato tanto quanto amavo Haku». Come se fosse la cosa più ovvia del mondo, davanti alla schermata di inserimento della password Griša digitò quattro lettere: «H-a-k-u».
«Accesso al sistema centrale in corso» lesse ad alta voce, mentre un ruggito vittorioso gli si gonfiava in gola.
La prima schermata che gli capitò davanti riuscì per un attimo a stangare il suo entusiasmo: era una serie infinita di numeri apparentemente senza senso, stringhe di sei cifre seguite da nomi improbabili. «010878-310878 x|-y», diceva l’ultima cartella salvata: era totalmente incomprensibile. Sempre meno convinto, aprì il file allegato e studiò ogni singola parola: si trattava dell’attacco sistematico di un settore ben definito di universo, ma non poteva servirgli. Scorrendo con precisione tutti i file disponibili riuscì tuttavia a vedere premiata la sua costanza: trovò un documento relativo alla costruzione delle astronavi che guidava Kim. Con gli occhi che luccicavano di febbrile attenzione, Griša cominciò a leggere: «Metallo, cristallo, deuterio…», e subito si bloccò: dove mai avrebbero potuto trovare tutto quel cristallo? E a quale “metallo” facevano riferimento? I codici riportati di seguito erano tutti collegati a quelle materie, e la matematica non era mai stata il suo forte.
Stampò ad ogni buon conto ogni pagina, sperando che il suo futuro collega avesse qualche intuizione. Stava giusto fissando scettico la spropositata catena di numeri quando, come una scudisciata, lo colpì una rivelazione: «Sono partite il primo giorno di agosto, quindi 01-08-78! E, con le missioni dell’isterica che di solito durano tra le quattro e le sei settimane, può essere plausibile che tornino il 31-08-78! Ecco cosa significano questi codici: 020878, 030878… hanno calcolato su quali coordinate si troveranno ogni giorno! I settori sono quattro come i punti cardinali: x|y, x|-y, -x|-y e -x|y, per cui ora sono dirette nel settore est!».
Il tragitto da Domland al quartiere di Girolamo non gli era mai apparso così lungo, tanto che quando si fu arrampicato su per gli ottantotto scalini che portavano al quinto piano dovette fermarsi sull’ultimo gradino e aspettare che qualcuno gli portasse dell’acqua prima di riuscire a parlare: «So come trovarle» rantolò «Se riusciamo a bucare l’atmosfera terrestre e a mantenere la rotta della nostra navicella, possiamo raggiungerle con poche ore di viaggio da Ferragosto in poi: dal 15, infatti, la loro flotta invertirà la rotta e le incroceremo sulla via del ritorno. Non avremo bisogno nemmeno delle scorte di carburante che hanno loro, perché il nostro percorso sarà circa un quarto del loro. Possiamo farcela!».
Girolamo era strabiliato: aveva costruito in una sola giornata un team di pirati meccanici, e ora grazie alle scoperte di Griša potevano mettersi al lavoro senza perdere tempo.
La squadra aveva a disposizione un furgone bianco con la targa sapientemente infangata in modo da essere illeggibile e due camion resi anonimi dallo stesso metodo: quella notte stessa, con un solo viaggio avrebbero raccolto tutto il materiale necessario.
I lavori incominciarono subito: Griša e Girolamo, armati di calce e cemento, si diedero da fare a edificare sul tetto del condominio una rudimentale rampa di lancio. A venti metri da terra e con tre motori potenziati – così stabilivano i progetti disegnati da Griša seguendo i calcoli che aveva trovato –, la navetta non avrebbe dovuto avere problemi nel partire.
Lamiere arroventate, motori che rischiavano di fondersi durante i test, carburanti esplosivi: era tutto molto pericoloso, e soprattutto molto incerto. Anche un banale errore di calcolo poteva riservare loro una morte atroce, ma alla domanda «Ne vale la pena?», entrambi rispondevano con una cocciuta determinazione: «Senza dubbio».
All’alba del 19 agosto, dopo una notte di prove e ritocchi, la navicella era pronta e luccicava sinistramente nella luce del giorno già caldo. Il nome che avevano scelto i due ideatori del piano, Starship 17, campeggiava in oro sulla vernice metallizzata viola. La forma del mezzo, che voleva essere aerodinamica, ricordava ancora le automobili da cui proveniva. Nel complesso era uno spettacolo piuttosto patetico, ma l’importante era che funzionasse perfettamente.
E così, in un clima di paura e di incertezza, la Starship 17 decollò in verticale in una nuvola di rovente fumo nerastro dopo una tossicchiante beccheggiata lungo la rampa. «Santa Sara degli zingari, prega per noi» bofonchiava Girolamo, il primo pilota «Sant’Alessio mendicante, prega per noi…» «Devi proprio?» sbottò Griša, distogliendo per la prima volta lo sguardo dal computer di bordo al quale si era delegato «Comunque vada, abbiamo la leva che farà entrare in funzione il rientro d’emergenza, lanciando un sos tramite onde radio che qualsiasi stazione spaziale può percepire».
La navicella cominciò a oscillare, man mano che la barriera del suono era sempre più vicina. Solo a quella velocità potevano sperare di oltrepassare l’atmosfera terrestre, ma il rischio di ingolfare il carburatore era altissimo. Girolamo aveva la fronte imperlata di sudore e teneva le labbra così serrate da farle scomparire. La leva di potenza, stretta nella sua mano tremante, cominciò ad inclinarsi dolcemente, mentre i contatori della pressione salivano a livelli preoccupanti. Ora un rivolo di sangue gli gocciolava dal naso, entrambi si sentivano le orecchie scoppiare, ma la luce risoluta in fondo ai loro occhi non voleva saperne di spegnersi insieme alle loro forze. «Non ce la faremo» realizzò Girolamo, un attimo prima che la mano di Griša si affiancasse alla sua sull’impugnatura della leva. «Al tre» fu l’ordine gridato nello strepito dei motori sul punto di scoppiare «Tira con tutte le tue forze!».
Il monitor del computer segnalava il limite dell’atmosfera, ma esplose in una pioggia di vetri e pulviscolo che fece ballonzolare la Starship 17 come senza controllo; ma ormai Griša aveva urlato «Tre!», e insieme a Girolamo aveva abbassato completamente la leva.
Da terra, tutto il team aveva visto la fiammata nel cielo torbido di caldo, e frammenti di lamiera bruciata caddero incandescenti su tutto il palazzo. Il computer di bordo, fuso, non poteva più inviare alcun segnale: erano isolati nello spazio, non del tutto coscienti e coperti di ferite provocate dalle schegge di vetro, ma la navetta aveva resistito senza perdere la scorta di ossigeno. Anche il pulsante di richiesta di aiuto era rimasto intatto: Girolamo era semisvenuto, e col suo corpo aveva protetto la radio di bordo.
Abbandonato sul sedile, Griša teneva lo sguardo perso fuori dall’oblò: le stelle sembravano vicinissime e più vivide che mai, nel buio, e la terra appariva come un globo verdeazzurro coperto qua e là da masse di nuvole. Il silenzio sembrava palpabile, feriva le orecchie lacerate dalla pressione, e gli venne spontaneo pensare a quanto sola dovesse sentirsi Kim lassù, alla guida delle flotte. In un angolo remoto del suo subconscio pensò a quanto fosse romantico fare l’amore fuori dal mondo e poi guardare le stelle da vicino, solo loro due in un’astronave tutta loro… E quel pensiero era così dolce e confortante che quando Girolamo si svegliò con un gemito di dolore, lui non poté fare a meno di lamentarsi: «Non potevi rimanere svenuto ancora cinque minuti?». La paura e la sofferenza appena superate ebbero il potere di rendere comica quell’uscita, tanto che Girolamo lo rimbeccò: «Possibile che anche qui tu debba perderti a pensare agli affari tuoi? Se quando passavi i pomeriggi con Kim ti fossi preoccupato di provvedere ad una tuta spaziale, ora non saremmo pieni di vetri dappertutto!» «E tu» ribatté Griša, piccato «Invece di pensare a come portarti a letto Lillie, avresti potuto cercare di carpirle qualche segreto sulle sue astronavi: ci avresti evitato tutto questo casino!».
La gioia di ritrovarsi vivi e coscienti li rendeva euforici e pronti a ridere per qualsiasi sciocchezza, tant’è che andarono avanti per altri dieci minuti a prendersi in giro. «Riaccendi i motori» ridacchiò Griša dopo una battuta particolarmente divertente. Girolamo riprese i comandi, alzò la leva di potenza…
E un’esplosione paurosa, sicuramente visibile dalla terra, staccò di netto i due motori che, dopo un volteggio fumoso, falciarono le ali della Starship 17 in un solo colpo, spezzando gli alettoni di sicurezza.
Con un sibilo l’ossigeno cominciò a defluire da una sottile crepa sulla fiancata, e Griša si sentì male dal terrore: «È infiammabile» sussurrò con voce afona. Era pietrificato dalla consapevolezza della loro fine: o bruciati vivi, o asfissiati.
Girolamo era la maschera del panico: bianco come un morto, con gli occhi fuori dalle orbite ridotti a due smeraldi terrorizzati, i corti capelli dritti sulla testa e il mento che tremava. «No» mugolò, incapace di dire altro. Convulsamente, si tuffò di peso sul pulsante di emergenza: «Aiuto» ringhiava, sfiatato «Aiutateci, qualcuno ci sente?».
Il loro disperato sos viaggiava nello spazio per loro così tragico e ignoto, e insieme a quella richiesta anche le loro forze cominciavano a scorrere via. Sarebbero morti così, alla deriva, e la Starship 17 era destinata a finire probabilmente contro qualche asteroide o in un buco nero.
A centinaia di chilometri di distanza, strette nella loro navetta, Lillie e Kim stavano ancora sonnecchiando: erano le sette del mattino, secondo l’ora terrestre, e l’ululato rauco della sirena tardò a spezzare il loro sonno profondo. «È una richiesta di aiuto» osservò Kim, subito attiva al computer di bordo «Dice solo “sos”, ma non riesco a mettermi in contatto con chi l’ha fatta partire: forse è una navicella-spia, o forse qualcuno ha il computer fuori uso ed è riuscito solo a chiedere aiuto così». Lillie, assonnata, attivò il depuratore dell’aria e si accese la prima sigaretta della giornata. «E allora?» fece, annoiata «Potrebbe essere un nemico. Piallalo senza pietà!».
Da quando stava insieme a Griša, però, Kim aveva imparato a disubbidire agli ordini della sua comandante, e sbottò: «Cosa? Come puoi essere così spietata tutte le volte?». Senza attendere risposta registrò le onde radio sempre più frequenti e le passò nell’analizzatore, scandendo ad alta voce i risultati del computer: «È una navetta di infimo livello, che perfino l’ultimo satellite della nostra flotta saprebbe annientare, e non capisco come abbia fatto ad arrivare fino quassù. Il nome registrato è Starship 17, non la conosco, e risulta essere intestata a…».
Silenzio, un infinito silenzio, tanto che Lillie si alzò a sedere. Kim era sbiancata, gli occhi come due gocce di inchiostro le brillavano di angoscia, e senza aggiungere altro cominciò ad infilarsi la tuta da esterno. «Sono loro» disse soltanto, prima di indossare il casco «Io prendo la scialuppa e torno indietro».
Non attese nemmeno una risposta, e il portellone che teneva pronta la scialuppa di salvataggio si chiuse con uno scatto alle sue spalle. «Razza di insubordinata cronica» le urlò dietro Lillie, ma ormai la curiosità era troppo forte: studiando i pochi dati frammentari che il computer era riuscito a racimolare dai relitti della misteriosa Starship 17 si rese conto che il logo non le risultava nuovo: l’ombra del nome, infatti, non ricalcava le lettere giuste, ma si deformava formando un’altra parola: Sintonia. Il gruppo musicale di Griša, Girolamo e quegli altri loro amici sbandati. «Mio Dio» trasecolò. Aveva già attivato la comunicazione con il resto della flotta, e ordinò senza mezzi termini: «La missione finisce qui. Disponetevi a ventaglio dietro di noi, lasciandoci libere di invertire la rotta, e seguiteci in formazione senza perdere di vista i nostri motori. Abbiamo ricevuto un’improrogabile richiesta di aiuto, della quale devo occuparmi personalmente».
Kim, a bordo della leggerissima e maneggevole scialuppa, saettava tra le costellazioni con gli occhi pieni di lacrime: non sapeva cosa avrebbe potuto trovare, dato che la Starship 17 stava volteggiando fuori controllo verso un ammasso di detriti che potevano fracassarla.
Il radar le segnalava la confortante presenza di tutta la flotta dietro di sé, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dal puntolino rosso che indicava la navicella distrutta. «Resisti, amore, resisti» pregava. Chissà se, in fondo, anche Lillie sperava di arrivare in tempo?
Griša e Girolamo si erano barricati dietro un portone a tenuta stagna, arginando le fiamme che consumavano rapidamente tutto l’ossigeno. Quand’anche fossero riusciti a domare l’incendio, sarebbero alla lunga soffocati nello stretto cubicolo che si erano costruiti. Avevano davanti uno scorcio di cielo, nero e incredibilmente stellato, e si accasciarono l’uno contro l’altro guardando supplichevoli quell’immensità e chiedendosi dove mai fossero sparite le loro amate. «Lillie…» «Kim…» esalarono, chiudendo gli occhi.

* * *

Era solo un sogno?
Non si sentivano più soffocare. Avevano qualcosa sul naso e sulla bocca, forse una mascherina, che riempiva i polmoni di una strana aria chimica dal gusto medicinale. Troppo deboli per reagire, i due della Starship 17 tornarono a dormire.
C’erano però quelle sensazioni comuni: erano distesi, e qualcuno li teneva per mano mormorando qualcosa di incomprensibile. Come era possibile percepire i reciproci pensieri?
Era notte quando Girolamo riuscì a destarsi, e sulle prime fece fatica ad orientarsi: era avvolto in un ruvido lenzuolo, e al suo capezzale c’era Lillie che lo osservava attentamente, pulendogli le ferite causate dalle schegge di vetro. «Là dove succedono i disastri» lo sgridò subito «C’è Don Santino, vero? Scriteriato! Sei orgoglioso della tua bravata, ora? Sei vivo per miracolo ancora una volta, puoi vantartene!» «Gesù» sospirò lui, rassegnato ma felice «Ciao anche a te, gioia».
Sentendo quelle voci note, anche Griša riaprì gli occhi, e subito Kim lo abbracciò forte stampandogli un enorme bacio sulle labbra. «Dolce amore mio» sussurrò, liberandogli la fronte dai ciuffi spettinati «Sono arrivata appena in tempo, non avrei mai permesso a niente e a nessuno di dividerci per sempre».
La differenza di situazione da un lettino e l’altro era evidente, ma anche se in modo diverso ciascuno manifestava il suo sollievo.
Quando i due convalescenti ebbero ripreso il caldo sonno ristoratore, Kim fece cenno a Lillie di seguirla fuori, e non appena ebbero raggiunto il terrazzo dell’ospedale si lanciò in una lunga invettiva: «Adesso mi sono proprio stufata delle tue missioni interminabili e così misteriose! Quei due lì dentro sanno benissimo che tipo di esercito comandi, sono stati perfino in grado di rintracciarci anche se non avevano i mezzi adatti per raggiungerci, e per quanto facciano i duri hanno bisogno di noi. Non so cosa tu provi per Girolamo, non mi riguarda, ma io amo Griša, e vederlo in quelle condizioni è stata una mazzata: ha rischiato la vita pur di avere mie notizie, dopo che siamo partite come al solito senza alcun preavviso. Da questo momento in poi ti consiglio di avvertirli prima di partire: sarà triste ugualmente, ma almeno lui… ehm, loro staranno tranquilli a casa e ci aspetteranno pazientemente. Altrimenti, mia cara, dovrai trovarti un’altra alleata». Lillie digrignava i denti, ma era lucidamente consapevole di non avere scelta davanti a quell’ultimatum. «Va bene» concesse rabbiosamente «Sei la numero uno dei miei sottoposti, una vice che ha sempre meritato la massima fiducia. Accetto le tue condizioni: avvertiremo quei due sdolcinati quando avremo qualche missione in programma, ma adesso non voglio più sentir parlare di queste frivolezze. Va’ in stanza e fai il primo turno di questa notte: io sono stanca e non vedo l’ora di riabbracciare Dylan. Nessuno si sentirà solo, stanotte, e non fare quella faccia: Girolamo non soffrirà di solitudine se Griša comincia a fare il pagliaccio come al suo solito».
Recuperando con i denti la dignità da capo, Lillie tornò a casa.
Kim rientrò, completamente rasserenata, e si sedette vicina a Griša ancora addormentato, accarezzandogli delicatamente il viso. «Mai e poi mai» gli sussurrò sulle labbra «Non succederà mai più niente di male. Te lo prometto!».

* * *

La breve parentesi di lavoro in campagna era già quasi finita: Lillie aveva preferito rimanere tra i primi campi in cui aveva guadagnato soldi, incurante o forse perfino lusingata dalla presenza dei Larvoniani; Girolamo, ancora debilitato dopo la disavventura della Starship 17, era stato costretto (per nulla a malincuore) a rimanere a casa tutto il giorno a badare a Dylan. Griša, invece, non aveva esitato un solo istante a scavalcare la rete che divideva quella zona da quella del suo amico dj di vecchia data, e Kim l’aveva seguito.
Tuttavia, tra loro qualcosa si era forse irrimediabilmente incrinato, e la cosa peggiore era che non si capiva cosa mai potesse essere andato storto: una sera, come tante altre volte, Griša si era rannicchiato accanto a Kim aspettando un tenero bacio di buonanotte, ma lei voltandosi dall’altra parte aveva sbuffato: «Sarebbe un gesto sforzato da parte mia». Quelle parole, inaspettate e dolorosissime, erano state come una doccia gelata capace di lavare via l’ardore delle prime settimane, e avevano allo stesso tempo restaurato la fredda disillusione in cui lui era caduto dopo Estel: mai e poi mai avrebbe potuto essere felice a lungo con qualcuno, e quella storia già difficile a causa delle missioni della Stella Verde rischiava davvero di fracassarsi da qualche parte.
Da quella sera, infatti, Kim era cambiata. Avevano avuto la possibilità di stare insieme, soli, un’intera mattinata, e Griša cercava in tutti i modi quel minimo di conforto tra le sue braccia; lei non si tirava indietro, ma era terribilmente lontana e distaccata, come se tutto fosse una circostanza priva di significato. Nei giorni successivi non era cambiato più niente.
A peggiorare le cose, Lillie aveva ripreso a stare male come nell’inverno appena trascorso, quando Haku era impazzito dalla disperazione e aveva preferito la morte ad un altro giorno vedendo la sua amata in quelle condizioni. Poteva sopportare di vederla circondata da uomini, sapendo che le parole dolci che tanto gli mancavano erano riservate solo a loro, poteva dubitare della sua fedeltà fino a sentirsi l’ultimo di un’infinita catena di amanti – e il più incapace –, ma non riusciva più a sopportare i suoi ingiustificati scatti di odio nei suoi confronti: era morto con la convinzione che Lillie lo detestasse, lo canzonasse quando “usciva con i suoi amici” e fosse subito pronta ad accettare le moine del primo arrivato. Solo con i suoi pensieri non avrebbe mai potuto farcela, isolato a Domland.
Griša non era solo in quel paesino sperduto, ma ugualmente preferiva non parlare con nessuno dello sconforto che gli dilagava dentro ogni giorno di più: voleva fare il duro, e nello stesso tempo sperava con tutte le sue forze che Kim tornasse ad essere la dolce zingarella che aveva conosciuto quando l’estate doveva ancora fiorire. A dispetto del suo carattere fiero e chiuso, in sua presenza la supplicava tristemente di concedergli almeno una carezza, ma lei sembrava avere ben altro per la mente. Anzi: assomigliava sempre di più a Lillie, e questo lo terrorizzava alla luce del diario di Haku. «Che ne sarà di me?» si chiedeva sempre più spesso.
C’erano sempre le ore nei campi per stare insieme, e quella almeno per un poco era stata la sua consolazione: non era forse tra i filari soleggiati che l’aveva baciata l’ultima volta? Ma ora si era aggiunta un’altra sfortunata coincidenza che aveva debellato anche il suo ultimo filo di speranza: nella loro squadra di raccoglitori di mele era entrata un’altra ragazza zingara, che aveva subito legato con Kim. Le due passavano tutto il tempo a chiacchierare nella loro lingua, lavorando bene e con entusiasmo, mentre lui si era ritrovato in disparte in un istante: non capiva che qualche parola qua e là, ed essendo da solo nella sua metà di filare rimaneva facilmente indietro.
In poche ore aveva perso ogni illusione: la loro storia era nata sotto la maledizione dello specchio di Haku, e solo un amore sconfinato avrebbe potuto annullarne gli effetti. Quello stesso amore che di punto in bianco gli era stato negato. C’era ancora una differenza, però, che lui era ben deciso a mantenere: Haku, vedendosi perduto, aveva sollevato un gran polverone di implorazioni e scenate di disperazione con la crudele Lillie; lui non voleva saperne. Avrebbe lasciato Kim libera di comportarsi come meglio credeva, libera come era sempre stata per tutti i suoi ventitrè anni di vita, senza mai intervenire a farle notare quanto riusciva a fargli male. Si era sempre tenuto tutto dentro, era abituato ad aspettarsi il peggio, e anche se quella volta ci aveva creduto sul serio (non come con Estel: in quel caso attendeva la fine da un giorno all’altro) non avrebbe fatto poi molta fatica a ritornare schivo e diffidente: per quelli come lui non c’è spazio per i sogni. Avrebbe continuato come aveva sempre fatto: scherzoso, spiritoso, creativo… soltanto con una croce in più nel suo cimitero interiore.
Con un profondo sospiro, Griša scostò i rami carichi di mele rosate ma ancora troppo acerbe e si allungò il più possibile per raggiungere quelle più alte e più mature: una dozzina di metri più avanti anche Kim stava facendo lo stesso, ridendo per qualche battuta mentre l’altra sorrideva soddisfatta e divertita. Era tutto molto facile, per loro che potevano anestetizzare il lavoro scherzando, tanto più che erano nella metà di filare più ombreggiata e meno ricca di frutti maturi; lì da lui, invece, sotto ogni frasca rosseggiavano sempre quattro o cinque mele, e doveva stare ben attento a staccarle tutte. Esitò solo un momento a guardarla, ripensando ai pochi ma intensissimi momenti che avevano trascorso insieme e a tutte le volte che le si era abbandonato tra le braccia, certo che sarebbe stato sempre così: molto ingenuo da parte sua. Com’era bella, però, con quel foulard colorato che le proteggeva la testa dal sole infuocato: ciuffi di lisci capelli scuri le sfuggivano sotto la stoffa leggera, aveva gli occhi che brillavano come inchiostro tra le foglie, e quando sorrideva sembrava illuminarsi tutta. Bella, ferocemente bella e lontanissima, bella e lontana da star male. «Perché?» sussurrò Griša, tirando il carrello carico di cassette verso il trattore. Ecco, si era incantato di nuovo a guardarla, e ora doveva fare i conti non solo con il ritardo ma anche con il rimpianto. «Perché è andata così?». Una goccia di sudore gli bruciò in un occhio, facendoglielo lacrimare, e una sottile traccia trasparente gli luccicò lungo la guancia. Dovette appoggiarsi al carretto e sistemarsi meglio il cappello per evitare le domande premurose del capo, quello stesso capo che l’aveva già visto soffrire tanto acutamente quanto ingiustamente. Come quell’altra volta, anche ora gli sorgeva in gola un ringhio di rabbia e dolore: «Non è giusto!», e di nuovo non poteva che accettare in silenzio e cercare di andare avanti. Dopotutto, Kim non l’aveva lasciato, e forse esisteva ancora qualche occasione per loro; peccato doversi sempre accontentare delle briciole.
Il trattore si allontanò lungo il filare con un rombo, sobbalzando sul terreno accidentato, e presto ci fu solo silenzio. Griša portò avanti il carrello ancora per qualche metro, saltando gli alberi meno carichi per poi ritornare sui suoi passi, e non appena si fu riempito le mani di mele grosse e mature si voltò e si trovò la cassetta già svuotata e riappoggiata sul carretto. Perplesso, depositò il bottino e commentò tra sé, in modo che la sua voce rendesse meno triste il silenzio: «Ero così concentrato nel pensare a Kim che nemmeno mi sono accorto di aver già scaricato tutto nei cassoni. Ottimo rimedio contro la fatica!». Nemmeno le battute gli uscivano più molto convinte, e per uno come lui era proprio un brutto segno. Fischiettando tra i denti raccolse altra frutta, non stava pensando assolutamente a niente se non a quei dannati rami che si staccavano dall’albero piuttosto che mollare il delicato picciolo delle mele, e in quel momento il cigolio delle ruote lo fece trasalire: doveva aver lasciato il carrello in bilico su qualche buca, e se si fosse rovesciato tutto il raccolto sarebbe finito nel cassone di scarto. Voltandosi di scatto vide il carretto arrancare cautamente giù per un’ampia depressione del terreno, e poi risalire dall’altra parte senza far cadere nulla. I rami dei meli lì accanto frusciarono per qualche secondo, dopodiché tre mele rosse fluttuarono a mezz’aria e si depositarono nella cassetta imbottita.
Griša strabuzzò gli occhi così tanto che per un momento se li sentì sporgere come quelli di Girolamo, che tanto si divertivano a prendere in giro, ma anche così non poté trattenere una battuta: «Hai dimenticato una mela lì dietro», indicò. Il frutto si staccò dalla pianta con tutto il ramo attaccato, e quando con un secco strappo si ruppe il picciolo parve di sentire un mugolio di protesta. «Sto impazzendo» realizzò, appoggiandosi ad un albero e spruzzandosi dell’acqua di bottiglia sulla fronte sudata «Devo aver preso troppo sole e negli orari peggiori».
Quella pausa fu sufficiente a schiarirgli le idee: un attimo dopo aveva ripreso il suo lavoro, ascoltando la voce melodiosa di Kim dall’altra parte e logorando i ricordi di quando poteva ancora abbracciarla liberamente, senza il timore di sentirla aspettare rassegnata di potersi svincolare. Faceva male leggere così i suoi pensieri.
Le due cassette imbottite si riempivano in fretta, e poco dopo dovette tornare a svuotarle una alla volta; stava per depositare la seconda quando vide delle altre mele ben ammonticchiate nella prima, e allora cominciò veramente a temere per la sua sanità mentale. Stava per chiamare Kim come si era deliziosamente abituato a fare («Amore…»), ma un attimo prima di incappare nell’errore preferì strisciare sotto gli alberi e chiedere semplicemente: «Ragazze, che ore sono?».
Avrebbe preferito non saperlo, giudicò poi: non erano nemmeno a metà lavoro. Addentò una mela svogliatamente, e riattraversò il filare là dove aveva lasciato il carretto… che però non era più lì, bensì tre piante più avanti, con le due cassette già riempite. Griša imprecò sottovoce, ma non poteva lamentarsi di quell’allucinazione così produttiva, e decise di fare finta di niente e procedere. Qualunque cosa, anche la più inquietante, andava bene per allontanare i cupi pensieri sulla sua adorata e irraggiungibile Kim.
Nell’altro campo si udì all’improvviso la voce di Lillie, che stava dettando il suo numero di telefono a qualcuno, e Griša alzò gli occhi al cielo pensando: «La felina è a caccia» e ridendo per lo squallore di quel pensiero. Di colpo le mele mature smisero di accumularsi nelle cassette insieme a quelle che deponeva lui, e un refolo di aria gelida gli ghiacciò il sudore sulle tempie. Vide distintamente quell’aria muovere le foglie altrimenti immobili, i rami di un albero di nespole piegarsi e scricchiolare come se qualcuno vi si stesse arrampicando, e perfino un torsolo di mela cadere dal nulla sotto l’albero. Rimase per un po’ pietrificato, prima di costringersi a riprendere le sue occupazioni, ma ormai non riusciva più a stare attento e rimuginava di continuo su quanto aveva visto. Inutile fare tanti giri di parole: era come se una persona invisibile gli avesse dato una mano a staccare le mele, e poi avesse scalato l’albero per osservare la situazione nell’altro campo, facendo nel frattempo merenda con parte del raccolto!
Kim sbucò attraverso il fogliame, facendolo sobbalzare, e lo rimbeccò aspramente: «Sei rimasto indietro!» «Stavo pensando» tergiversò Griša «Se ti va di fare una passeggiata stasera…» «Vedremo, perché a differenza di te io mi sto dando da fare e sono stanca» fu la dura risposta tra il verde. Una frase logica, ma detta con un tono che Lillie doveva aver usato sempre con Haku.
Avvilito, si mise così d’impegno che nel giro di un’ora riuscì a raggiungere le altre. Quando Lillie, di là, era sparita di nuovo tra i filari di pesche, i fatti strani erano ricominciati vicino a lui, ma si era imposto di non badarci. Aveva sentito qualcosa di freddo e impalpabile su una spalla per un momento, e poi la frutta aveva ripreso a scivolare nelle cassette a una velocità invidiabile.
C’era però un pensiero più forte di quelli che aveva chiuso fuori, ed era sempre più difficile ignorarlo: Griša credeva nei fantasmi e nel paranormale, e aveva studiato abbastanza tomi polverosi appartenuti al suo nonno medium da rendersi conto che quegli avvenimenti portavano tutti nella stessa direzione. Tuttavia, non poteva fare nulla per indagare senza rischiare che Kim lo scoprisse: se l’avesse sorpreso a parlare da solo, sotto il sole cocente in mezzo alla campagna riarsa, chissà tra lei e Lillie quanto l’avrebbero umiliato e ferito, ora.
Ammesso che Kim facesse caso a lui. Era dall’altra parte delle piante, e stava raccontando qualcosa di apparentemente molto interessante. La chiamò un paio di volte per nome, piano, ma lei o finse di non accorgersene o proprio non lo udì; più tranquillo ma comunque inquieto, Griša alzò un po’ il tono di voce e buttò lì la prima domanda che gli venne in mente: «Chi sei?».
Finalmente te ne sei accorto!
La voce sembrava provenire ora dall’alto, ora da un lato, nitida e forte. «Piano!» sibilò Griša, lanciando un’occhiata preoccupata tra i rami. Kim stava assaggiando una mela, ma non sembrava aver sentito nulla di particolare.
Non ha sentito niente, infatti, e se vuoi puoi rispondermi solo pensando. No, non stai diventando matto, quindi sforzati di apparire indifferente mentre parliamo; soprattutto, cerchiamo di finire il filare prima che arrivi il capo, perché sei rimasto davvero molto indietro pensando a lei.
«Come ti permetti di leggermi nel pensiero?».
Si scoprono tante cose leggendo le parole degli altri. Tu stesso hai letto il mio diario, quindi siamo alla pari.
Con uno schianto, la cassetta degli scarti cadde a terra. Griša vi inciampò sopra dopo averla lasciata cadere, ma non gli importava niente: «Haku?!» rantolò «Cosa diamine…».
Non riesco a stare lontano da Lillie, fu la laconica risposta mentre le mele piccole o bacate tornavano nella cassetta. Ho fatto male a credere che solo morendo avrei potuto dimenticarla, perché dopo la morte si continua a vivere, anche se in modo diverso. L’ho vista piangere al mio funerale, l’ho sentita dire che mi ama ancora, e ho voluto starle vicino anche se lei non potrà mai più vedermi. Forse, però, mi sono ingannato anche questa volta: ho visto quello che ha fatto la notte del funerale, quando è venuta a Domland mentre tu cercavi di capire qualcosa in più sul mio suicidio. Ho visto quando vi siete baciati, così appassionatamente…
«E disperatamente» si difese Griša, ben sapendo di non avere molte possibilità con uno spettro. La ragazza del suo migliore amico morto gli era crollata a piangere tra le braccia, e nei singhiozzi l’aveva abbracciato forte con gli occhi chiusi. «Come gli somigli» era stato il suo sussurro mentre gli accarezzava i capelli, e poi l’aveva baciato a lungo, fermandosi solo un istante per gemere: «Haku…». Lui si sentiva sì in colpa, ma non completamente: «L’ha fatto solo perché io e te potremmo essere gemelli» ribadì «Ci assomigliamo, e lei quella notte era stremata dalle lacrime: è successo solo perché Lillie ha voluto avere per l’ultima volta l’illusione di averti con lei, di recuperare tutto quello che ti ha negato».
Non le è mai dispiaciuto. Non mi amava, ero solo il povero scemo che le serviva per andare da Girolamo. Hai visto che cosa ha fatto di là? Ha dato il suo numero al contadinotto che la insidiava la scorsa settimana, e non è nemmeno l’unico che ci prova con lei in quello stesso campo. Magari lo porterà sulla mia tomba e mi umilierà anche ora, come faceva quando ero vivo: «Questo patetico idiota…».
«Per la miseria, ragazzo mio, quanto sei pessimista!»
È la verità, anche se nessuno mi ha mai creduto. Io ero il pazzo paranoico, lei la santarellina che mi sopportava per amore.
«Tu ti sei descritto come la vittima, mentre lei era una mangiatrice di uomini. L’apparenza è quella, non posso biasimarti, ha sempre cinque o sei persone intorno alle quali scrive tutti i vezzeggiativi più teneri; ma Kim mi ha assicurato che è parte del suo carattere, e che a dispetto di quello che tu e altri avreste potuto pensare lei ti è sempre stata fedele»
Quindi secondo te è stato piacevole per me leggere tutte le paroline dolci rivolte a Willy e gli altri, sapendo che al massimo a me avrebbe concesso un “buongiorno” se la imploravo? «Il mio amore geloso», gli scriveva, e quella è una cosa che io non mi sono mai sentito dire! Prima di darmi del paranoico, mettiti nei miei panni: come ti saresti sentito tu se avessi scoperto che Kim ha scritto una frase del genere ad un altro?
Griša esitò. Certo, c’è un sottile confine tra le parole che si dicono ad un amico e quelle riservate al proprio ragazzo, e Lillie l’aveva non solo fisicamente passato, ma addirittura sfracellato. Aveva pure ammesso che Willy era stato di gran lunga il più pericoloso tra tutti, e nello stesso tempo c’era sempre qualcuno che si definiva “il suo fidanzato”: due cose troppo strane, se prese insieme, per dare torto ad Haku. «Lo so» ammise debolmente «Quello è un buco nero nella vostra storia: non ci si può avvicinare senza rischiare di impegolarsi. Quanto vorrei che tu potessi tornare, e non solo perché mi manchi. Se Lillie potesse riabbracciarti, tante cose cambierebbero… ne parlereste con calma, chiarireste anche le zone d’ombra di questa faccenda, e forse tornerebbe tutto come all’inizio». Se Lillie si fosse tirata su, aggiunse tra sé, anche Kim sarebbe stata più serena.
Aiutami, Grigorij. Sei un mago, no? Quella richiesta accorata parve frusciare più forte tra le foglie. Ricordati che cosa hai studiato: tu puoi far tornare in vita i morti, e anche se non hai mai provato su un essere umano non hai mai fallito una sola volta quando ti occupavi di pianticelle e animali. Aiutami: io non riesco a resistere senza Lillie! Ho giurato a me stesso che la lascerò libera di stare con tutti i suoi uomini, a patto di poterle ancora parlare anche solo per una volta, ma per farlo ho bisogno del tuo aiuto.
«Tu hai preferito morire piuttosto che andare avanti così. Come puoi dirti ora disposto a tollerare un orrore del genere?»
Di qua è tutto buio e silenzioso, fa paura ed è molto triste: preferisco l’inferno terreno di Lillie a questo purgatorio, perché è lì che ho trovato la forza di amare fino alla fine. Qui fa freddo, mi sento solo…
A Griša parve per un attimo di risentire l’eco delle parole di Kim di ritorno da una lunga missione iperspaziale: «Qui è tutto buio e freddo, c’è un silenzio spaventoso e mi sei mancato da morire, dolce amore mio. Non voglio più andare via!». Erano già altri tempi, purtroppo, ma in seguito lui stesso aveva visto dalla Starship 17 com’era lassù, e poteva immaginare benissimo quanto pesasse quel vuoto senza fine. «I fantasmi sono fatti di energia orgonica» rifletté «Esistono macchine in grado di condensarla pian piano, ma serve un pezzetto del dna del cadavere. Come faccio a scoperchiare la tua tomba? Il cimitero di San Pietroburgo è sorvegliato da telecamere…»
Soltanto intorno alle mura di cinta. E le navette LK non possono essere rilevate né dalle telecamere né dai radar.
«In ogni caso sarebbe un disastro, e tu soffriresti ancora e forse ancora più di prima. Come puoi, dopo quello che hai passato, desiderare di rivivere quell’incubo?»
Non mi importa. Io amo Lillie, e se posso avere la possibilità anche solo di incrociare ancora i suoi occhi sono disposto a pagare qualunque prezzo. E poi, ora a Domland ci sei anche tu, non sarei più solo. Ho visto che qualcosa non va anche a te con Kim, per cui non credi che farebbe bene a me e a te cercare di tirare avanti insieme e di aiutarle nei loro periodi peggiori?
Fu l’ondata di angoscia che lo travolse a convincerlo ad accettare: qualunque cosa potesse servire a salvare la sua storia con Kim, lui l’avrebbe fatta. Sentì più dolorosa la morsa del rimpianto, la tagliola dei ricordi che gli dilaniava il cuore, e senza più alcuna titubanza promise, deciso: «Sì, Haku, va bene. Cercherò di riportarti in vita. Ti chiedo solo di darmi un po’ di tempo per parlarne anche con Lillie e prepararla, sperando che non faccia qualche scenata di isteria o di menefreghismo»
Tutto il tempo che vuoi, amico mio. Ora rimarrò qui nello stato in cui sono, andrò da lei e… beh, continuerò a farle da angelo custode come ho fatto finora.
Con una folata, lo spirito fluttuò lungo il filare e scivolò leggero verso il campo confinante. Griša si rese conto come svegliandosi da un sogno di aver appena depositato l’ultima mela nella sua cassetta: aveva finito tutto il lavoro un quarto d’ora prima del previsto, e trotterellò dalle altre due per aiutarle in caso di necessità.
«Sei pallido» osservò Kim «Come è possibile, dato che hai un’abbronzatura invidiabile? Spero che tu non stia covando un’influenza» «Sono solo molto giù di corda» ammise lui «Ho voglia di stare con te, di tenerti stretta per qualche minuto nel buio dell’atrio, di darti quel bacio che mi neghi da ormai una decina di giorni… e sono stanco, è stata una giornata pesante». Parlando aveva rivolto lo sguardo al campo limitrofo, dove Lillie stava manovrando un trattore: intorno a lei i rami degli alberi sembravano scostarsi magicamente per non graffiarle il viso, e ogni tanto qualche pesca rimasta indietro volteggiava verso il cassone agganciato al trattore. Haku era già all’opera, silenzioso e invisibile come era stato in vita.
Ora lo aspettava un lavoro ben più difficile di quello in campagna, ma era una promessa fatta ad un amico che intendeva mantenere ad ogni costo. Se solo avesse avuto il rifugio sicuro dell’affetto di Kim! Invece si sentiva sempre più abbandonato a se stesso e spaventato dalle tremende conseguenze che poteva avere quella situazione se fosse peggiorata. «Briciolina…» chiamò, incapace di trattenersi. Lei gli sorrise, sussurrando: «Sei così dolce…», ma finse di non vedere la supplica di quella mano tesa a cercare brancolando le sue.
Intorno a loro il cielo si stava addensando di nuvole temporalesche, rischiavano di non vedersi nemmeno quella sera a causa del maltempo. Se non si fosse messo a piovere, però, che cosa li aspettava? Tutto dipendeva da Kim, Griša se ne rendeva perfettamente conto, e per l’ennesima volta in vita sua decapitò le speranze e le lasciò ballonzolare, inerti, tra i detriti dei suoi sogni.
Chissà se la follia di riportare in vita Haku poteva servire a qualcosa?

* * *

Per quanto Griša fosse schivo e taciturno, era nota a tutti la sua passione per le Arti Oscure: fin da bambino il suo unico interesse dopo la musica era la magia, nella cui materia cercava di erudirsi in tutti i modi possibili. Comprava libri, ascoltava i discorsi che riusciva a captare in qualsiasi posto, prendeva appunti e, instancabile, faceva esperimenti su esperimenti. Sicché ora, a ventun anni compiuti, poteva vantare un impeccabile bagaglio di conoscenze, ulteriormente rafforzato dalla sua doppia natura di elfo e di vampiro che gli permetteva di spaziare in tutti gli ambiti della magia, anche i più contraddittori. Fedele alla prima regola di un mago, non dava mai dimostrazioni delle sue capacità, anche a costo di sminuire i suoi poteri innegabili; tuttavia, in casi di reale necessità, era sempre riuscito a cavarsela con qualche incantesimo.
Ma in confronto all’entità di ciò che aveva in mente, tutti i rituali che conosceva sembravano bazzecole: come poteva rischiare di riportare in vita un essere umano? Aveva resuscitato topolini, gatti e cani, piante secche e alberi tagliati; una persona era tutt’altro, e la cosa peggiore era che non sapeva a cosa andava incontro. Haku poteva tornare, il punto era: come? Uno zombie era quello che più si avvicinava ai suoi terrori: e se la sua energia magica non fosse stata sufficiente?
Da una parte aveva lo spettro invisibile di Haku che lo implorava di procedere, e ne poteva percepire la paura; dall’altra il telefono e il chiodo fisso di chiedere aiuto a Estel, o meglio ancora alla maga nera Bettina. In tre non avrebbero potuto sbagliare nulla.
Chiamale! Lo istigava la voce dal vuoto. È la nostra unica possibilità!
«Vuoi farmi finire nei guai con Lillie e Kim?» ringhiò, esasperato «Posso arrangiarmi. Al massimo potrei sentire Bettina, ma le ci vorranno giorni per arrivare da Southampton a San Pietroburgo. Estel è indubbiamente più vicina e quasi al suo stesso livello, ma non ho nessuna intenzione di ricorrere a lei: per quanto mi riguarda, può anche crepare».
Ormai era comunque troppo tardi per tirarsi indietro: il rituale prevedeva una notte di luna piena, per lui che traeva i suoi poteri dall’astro d’argento, e il plenilunio cadeva proprio quella notte. Non erano disposti ad aspettare un altro mese.
Griša guardò fuori dall’abbaino: il cielo era limpido, di un azzurro che già lasciava presagire le tiepide giornate di settembre, solcato qua e là dai cirri rosa del tramonto. I tetti coperti di tegole rosse e marroni rilucevano degli ultimi raggi di sole, mentre la luna sorgeva tra i comignoli bianca e spettrale, evanescente come un fantasma. Era perfettamente rotonda, con il Mare della Tranquillità che spiccava, azzurro, nel riflesso del cielo.
«Sei proprio sicuro di desiderarlo veramente?» chiese allo spirito per l’ennesima volta «Quando ho buttato lì la proposta a Lillie, lei mi ha lanciato uno sguardo scettico e sarcastico e ha detto solo che “non sarebbe una cattiva idea”. Non sembrava per nulla estasiata all’idea di avere anche solo una possibilità di riabbracciarti: non le importava, oserei dire, e quel suo atteggiamento ha confermato tanti miei timori. Se tutto andasse per il verso giusto, tu le capiteresti davanti e lei potrebbe limitarsi a un cenno distratto: come puoi sopportare tutto questo?».
Un cenno… significherebbe che mi vede.
«Ma poi ricomincerà a sfruttarti, a umiliarti, a tradirti! Sente quotidianamente Willy, lo sai benissimo, e io ho il terrore ad immaginare tutto quello che gli dice e gli scrive: riusciresti davvero a sopportarlo un’altra volta? Dà fastidio a me perché penso che è stato Willy il colpo di grazia che ti ha spinto a toglierti la vita, e tu potresti veramente accettare di rivivere quella catastrofe? Il male che mi ha fatto Estel, a suo tempo, è una nullità in confronto a quello che ti ha fatto e che ti farà Lillie. Lo sai!».
È un rischio che sono disposto a correre. Griša, io e te siamo amici da sempre, siamo stati così uniti che spesso potevamo spacciarci l’uno per l’altro. Prima che Girolamo scoprisse come sono andate realmente le cose, credeva che tu fossi me. Non è nemmeno l’unico! Però, se all’ultimo momento decidi di non aiutarmi, sono pronto anche a ricorrere a Estel: ha i tuoi stessi poteri, potrebbe comunicare con me e compiere il rituale di questa notte al tuo posto.
«Ne sei sicuro?» ghignò «Estel mi odia! Non accetterebbe mai».
Allora tutto dipende da te: se sei davvero un amico, fammi ritornare in vita. Dammi la possibilità di stare ancora vicino a Lillie.
«Proprio perché siamo amici preferirei non farlo».
Ricordati che cosa ti ha detto Kim: è tutta apparenza la freddezza di Lillie. Io credo in lei, voglio credere che possa ancora amarmi, e se c’è ancora una scintilla sotto la cenere, il fuoco dell’amore può ancora divampare.
Griša meditò a lungo su quelle parole. Haku era il classico innamorato che non vuole intendere ragioni, disposto a tutto – anche a morire un’altra volta – per la sua amata, e non si rendeva conto della gravità della situazione: troppe cose erano cambiate da quando per la prima volta Lillie si era abbandonata alle sue carezze, quattordici mesi addietro. Il fuoco di cui parlava Haku si era già spento da un pezzo.
Tu sei per natura diffidente e pessimista. Credimi: io conosco Lillie meglio di te…
«Ma io stesso l’ho vista in chat! L’ho vista sorridere dolcemente leggendo i messaggi di Willy!»
Lasciale il suo Willy, se può farla felice. A quanto pare lui ha tutto quello che mancava a me. Ma finché resto così non posso fare nulla! Se fossi vivo potrei aspettare anche tutta la vita pur di poterle sfiorare una mano!
«Sì. Lo dicono in tanti. Tu saresti solo un altro numero della lista».
Lo sono sempre stato, ci ho fatto l’abitudine. Vogliamo andare, ora? È quasi notte, ma se non te la senti posso sempre andare da Estel.
«Io sono sempre stato pronto a tutto».
Griša aprì l’armadio e indossò l’ampia tunica nera bordata di raso viola, su cui Estel aveva ricamato simboli e formule magiche in elfico e gotico: era la sua divisa da mago, arricchita da talismani per ogni abilità che era riuscito ad acquisire. Sopra, si legò un lungo mantello in puro raso nero, e come suprema protezione mise nella tasca interna della tunica la pietra trasparente viola che gli aveva regalato Bettina: ora era davvero pronto.
Prima di uscire esitò, guardando supplichevole il telefono, ma tutto taceva: già, Kim… che soltanto la sera prima gli aveva sfiorato le labbra con un bacio frettoloso. «L’hai fatto sforzatamente!» aveva esclamato lui, mentre quella ferita riprendeva a sanguinare. Si era giurato di non commentare più niente in quei casi, e ancora una volta il dolore era stato troppo forte per stare zitto: la sua Kim che doveva sforzarsi per… non riusciva nemmeno a finire la frase.
Non ti chiamerà, stasera.
Già, era stato lui stesso a dirglielo: le aveva chiesto di tenere impegnata Lillie per una sera, in modo da avere il campo libero per rubare una delle navette LK dagli hangar e compiere il rituale.
Griša aveva uno strano colore di occhi: a prima vista sembravano castani, ma avvicinandosi sembravano due cupi rubini. Ora, dalla paura per quello che lo aspettava e dalla disperazione per la situazione con Kim, aveva le iridi rosse come quelle di un albino.
Coraggio, amico mio, sono nelle tue mani.
«Sto per portare il mio migliore amico al rischio di morire un’altra volta».
No, perché so benissimo a cosa vado incontro. So quello che può succedere.
Avevano discusso per tutto il tragitto fino al porto, con l’odore del mare che rendeva l’aria amarognola. Sul calamaio nero del mare galleggiavano i pescherecci con le loro luci, mentre minuscole onde di luna scivolavano silenziose sotto gli ormeggi.
Griša, ormai ufficialmente entrato nell’esercito della Stella Verde, si era già guadagnato alcuni privilegi, tra cui quello di avere una copia delle chiavi degli hangar. Entrò senza fare rumore, e nel buio distinse la sagoma un po’ goffa ma perfezionata della Starship 17. Sorrise tra sé, ma non era quella la sua meta: le LK, dal profilo aggressivo e perfettamente aerodinamico, erano allineate con precisione lungo una parete.
Ti ricordi ancora come si pilotano?
«Per mia fortuna, imparo in fretta», rispose deciso. Una delle navicelle era già posizionata sulla rampa di lancio, e vi salì agilmente. Ricordava bene tutti i comandi necessari, e anche se non era un esperto pilota sapeva di essere in grado di compiere le manovre elementari. I motori silenziosi si accesero in un bagliore azzurrino, e un attimo dopo la LK levitò docile nell’aria; i comandi erano molto sensibili, per uscire dall’hangar c’era solo una stretta porticina, e si rischiava di incastrarsi con gli alettoni.
Griša tirò un lungo sospiro, stringendo in tasca la pietra viola, e inclinò il volante a U verso avanti. La LK partì come scivolando nell’aria, velocissima, e con una brusca virata la fece passare di sbieco attraverso la porta aperta che si richiuse automaticamente alle sue spalle.
Se non l’avessi visto con i miei occhi non ci crederei!
«Guidare la Starship 17 con Girolamo mi è servito, alla fin fine».
Ora sotto di lui c’era solo la notte. La navetta era così silenziosa che si udiva il ronzio attutito della città sottostante. Griša sorvolò la zona, spingendosi in pochi minuti fino a Pietroburgo, godendosi l’aria fresca: non era necessario sigillare i vetri a tenuta stagna, non finché rimaneva entro i confini dell’atmosfera. Il plenilunio perfetto scadeva poco prima dell’una, aveva un quarto d’ora per orientarsi e atterrare nel cimitero. Sicuramente all’interno non c’erano telecamere, e le LK erano famose per risultare invisibili a qualsiasi sistema di rilevamento. In presenza del fantasma di Haku, i radar interni sembravano impazziti, ma in quel momento erano sufficienti il navigatore e la bussola: quando sorvolarono il cimitero pietroburghese, Griša cominciò la manovra di atterraggio in verticale, galleggiando a mezz’aria.
Sei proprio sopra la tomba! Vira un po’ più a sinistra, atterra sul vialetto, o rischierai di abbattere anche le lapidi qui intorno.
Un minuto più tardi, la LK si posò sul vialetto. L’alettone destro, strisciando su un muretto, aveva sprizzato qualche scintilla.
Dannazione, si è tolta la vernice!
«Lillie sarà troppo impegnata a pensare a come farti del male per accorgersene».
E Kim prenderà esempio da lei.
«Sono ancora in tempo per piantarti qui, Haku!». Il fantasma non aggiunse altro, e Griša si accovacciò di fronte alla tomba. La foto di Haku, in bianco e nero, avrebbe potuto essere la sua: era inquietante, ma ben più intensa era la sensazione di abbandono di quella lapide avvolta dalle erbacce. Sul marmo bianco era stampigliato solo il nome, senza nemmeno il cognome, e le date di nascita e di morte.
Quando tornerò vivo, voglio cercare notizie sulla mia famiglia.
«Io e te ci assomigliamo così tanto che potresti essere un Delacroix, però hai anche una certa somiglianza con Girolamo: potresti essere un Di Santo e non saperlo!».
Quel breve scambio di battute non servì a dissipare la tensione, così forte da rendere l’aria densa. Griša accese sette candele intorno alla tomba, formando un ettagono, e tentennò: «Non sono sicuro di poter andare contro la morte di un essere umano, tutti i libri di magia che ho studiato spiegano come fare ma lo sconsigliano! Ho paura…».
Anch’io… ma dobbiamo almeno provare! Ormai siamo qui!
In quel momento Griša rimpianse la presenza di Estel: se ci fosse stata lei a lanciare un incantesimo di limitazione si sarebbe sentito più sicuro. Gli occhi gli brillarono come schegge preziose, rossi e fieri, mentre alzava al cielo il suo talismano: il primo raggio del plenilunio attraversò la pietra viola, facendola brillare, e un attimo prima che la luce si posasse sulla foto evocò la sua protezione: «Sigillo lunare!». Le sette candele si accesero simultaneamente, collegate da un filo di luce a terra, e le fiammelle violacee si inclinarono tutte verso il centro, sulla terra incolta della tomba.
A migliaia di chilometri di distanza, a Southampton, Bettina stava guardando la televisione per rilassarsi dopo la giornata di lavoro al cantiere aerospaziale della sua università. Qualcosa la indusse a correre fuori, nel parco della sua villa, e non appena i suoi occhi ebbero incontrato i raggi della luna piena seppe tutto quello che stava accadendo. «Sei un grande» mormorò, orgogliosa «Hai avuto il coraggio di farlo. Ti mando la mia protezione!».
Non si sarebbero mai più visti, lo sapevano perfettamente, quel tempo apparteneva alla memoria di un libro bruciato e di un lungo amore incenerito, ma le loro affinità magiche non potevano spegnersi come una storia qualsiasi: Griša percepì quell’incantesimo, riflesso nella stessa luna che splendeva in ogni angolo di mondo, e cominciò a condensare tutta l’energia tra i palmi delle mani. Sorrideva, pur avendo gli occhi stralunati e i capelli dritti in testa dal terrore.
Anche gli altri maghi della terra percepirono la potenza del rituale proibito, e pur senza sapere chi fosse il pazzo incosciente disposto a rischiare una tale eresia gridarono alla luna le loro protezioni.
Nella sua villa di collina, Kate filtrò la forza degli elementi tra i raggi della luna che piovevano verticali nel giardino, e la lasciò fluttuare verso il cielo in tante minuscole schegge d’oro sussurrando: «Non mollare, Aerandir!».
Bettina stava cercando di fondere i suoi poteri a quelli di Griša per spalleggiare lo sforzo immane che era costretto a compiere.
Estel cercò di resistere fino all’ultimo, ma il patto tra maghi era più forte di qualsiasi rancore: in piedi sul tetto di casa sua rivolse i palmi delle mani verso il cielo stellato e invocò i poteri del giorno e della notte.
Dralbij, impegnato in una messa satanica, uscì dalla chiesa sconsacrata e ruggì le formule nere che servivano a contrastare i limiti divini imposti dalla parabola di Lazzaro.
Nel cimitero di Pietroburgo, Griša era solo tra tutte le lapidi su cui tante lacrime straziate erano scivolate; eppure non aveva coscienza della sua solitudine: sentiva la presenza degli amici di un tempo che, deposte le ostilità, erano in qualche modo riuniti a dargli manforte. Sarebbe stato in grado di controllare tutta quella potenza? Gli tremavano violentemente le mani, un vento gelido da oltretomba gli faceva svolazzare la tunica, i fuochi fatui danzavano come impazziti sopra ogni lapide e gli turbinavano intorno.
«Se dovessi morire ora» ululò «Qualcuno di voi dica a Kim che la amo, e che il mio ultimo pensiero è stato per lei!». Tutta la frustrazione per l’inspiegabile cambiamento della sua adorata venne finalmente allo scoperto, rompendo la diga della sua resistenza, mentre due immagini gli cozzavano violentemente davanti: Kim che lo aspettava nel buio dell’hangar e lo trascinava in un lento bacio che lo tramortiva di piacere, e lei stessa che gli negava la buonanotte giustificando il tutto come «un gesto sforzato». Era lo stesso dolore che Haku non aveva più saputo sostenere: come poteva farglielo rivivere?
Cambierà tutto! Vedrai! Non mollare ora, non mollare!
«Haku, ritorna!!!» ordinò, condensando tra le mani l’amicizia, la rabbia, il dolore e l’appoggio di tutti. Subito un incendio viola e blu esplose intorno alla tomba, liquefacendo in un colpo tutte le candele. Nella luce esangue si delineò l’ombra di Haku, spettrale come la luna appena nata dalle ceneri del tramonto, la terra della fossa cominciò a tremare, e mentre il fantasma sembrava sciogliersi e filtrare tra gli sterpi due violenti colpi parvero risalire dalle profondità della tomba.
Griša crollò a terra, sfinito e convinto di aver fallito: Haku era scomparso, non percepiva più nemmeno il suo spirito, ed era così stremato da non riuscire nemmeno a recuperare la lucidità. Sentiva una serie di colpi ovattati, forse era il suo cuore, ma subito udì un latrato feroce: «Aiuto!».
Folle per quell’idea, si tuffò sulla tomba e cominciò a scavare a mani nude, mentre un angolo razionale della sua mente lo induceva a pensare: «Sono pazzo, pazzo completo, il mio migliore amico è morto e io sto profanando la sua tomba». La terra era soffice e veniva via facilmente, i colpi violenti all’interno della bara echeggiavano come i battenti delle porte infernali.
«Manca l’aria!» gemeva Haku, scalciando con tutte le sue forze. Griša, atterrito, saettava lo sguardo qua e là alla ricerca di qualcosa per far leva sul coperchio, ma non fu necessario.
«…Frammento di Anima!» tuonò Haku, e con un colpo secco la bara si scoperchiò, con il legno scassato a pugni poderosi. Griša ruzzolò all’indietro, aggrappandosi ad una lapide per recuperare l’equilibrio, e per un infinito istante si sentì totalmente impazzito.
Haku si arrampicò lungo la fossa, mentre la potenza strappata all’anima di Girolamo defluiva pian piano. Era vestito elegantemente, da funerale, i capelli biondi erano pieni di terra ma soffici e puliti, e una vaga luce di sfida disperata gli oscillava negli occhi smeraldini, il sinistro solcato da quella lunga cicatrice rossastra. «Lillie» fu la sua prima parola «Sono vivo, sono tornato… Lillie, dove sei?».
Solo poco dopo si ricordò quanto era accaduto, e subito si precipitò a soccorrere l’amico: «Tu non sei semplicemente un mago» gli disse, aiutandolo a rialzarsi «Sei molto di più, sei come un dio ora» «Esagerato» sorrise Griša, abbracciandolo cameratescamente «Sono solo un vecchio matto blasfemo che si lascia intenerire dalle professioni d’amore. Sali sulla LK, sbrigati: hai bisogno di una sistemata, e poi tra qualche ora potrai rivedere la tua Lillie».
Il redivivo non se lo fece ripetere due volte e si rincantucciò in un angolo della navetta. Griša, prima di raggiungerlo, rimise a posto alla bell’e meglio la terra sulla fossa – era talmente abbandonata che nessuno ci avrebbe fatto caso – e rivolse un muto ringraziamento verso la luna: «Grazie… a tutti».

* * *

All’ora di uscire per portare a passeggio il cane, Griša inforcò la bicicletta e Haku si sistemò a cavalcioni sul portapacchi: per un attimo fu come se fossero tornati bambini, a scorrazzare su e giù per i sobborghi di Liverpool su quella stessa bici che era stata tante volte aggiustata, truccata e rimodernata. «Sei sicuro di sentirtela?» domandò Griša per la decima volta nel giro di pochi minuti. Haku aveva gli occhi più verdi che mai traboccanti d’amore, e non ebbe bisogno di rispondere. «Sto per rivederla» ripeteva tra sé «E questa volta anche lei mi vedrà, mi saluterà… si accorgerà della mia presenza!» «Vivo o morto, che differenza faceva…» stava per dire l’altro, ma si trattenne. Avrebbe lasciato l’amico al suo destino, ma non riusciva nemmeno a rallegrarsi pensando all’inaspettata serata con Kim che lo aspettava; anzi, stava sempre peggio. Aveva un bisogno straziante di lei, di un qualsiasi gesto, ma ora che tutto era «sforzato» (rischiava di dare di matto a forza di ripetersi mentalmente quella frase) non aveva nemmeno il coraggio di chiederglielo per paura di ossessionarla o peggio di vedersi rifiutare ancora.
I due amici avevano parlato a lungo quel pomeriggio, e Haku si era sorpreso: «Proprio tu, il grande dj che se l’è cavata con qualche cicatrice dalla disavventura di Estel, soffri così tanto per una ragazza che sembra essersi stufata temporaneamente di te?» «Kim non era… non è “una” qualsiasi» aveva sibilato Griša, subito in difesa «È lei e basta. E il nostro amore non conosce parole, era un indescrivibile infinito che…» Si fermò, di nuovo con quel dannato groppo in gola, e infine sospirò in un filo di voce: «…che ha finito per schiantarsi contro quel confine che sembrava non dovere esistere per noi. Pazienza, sopravvivrò».
I suoi occhi, però, la dicevano ben più lunga: non era necessario conoscerlo a fondo per precipitare in quella stupita desolazione. Era lo sguardo di chi ha sempre assaggiato la felicità e si è visto portare via il piatto ancora pieno, ma la cosa più triste era accorgersi che non aveva mai avuto altro, finendo per abituarsi a quello stato di cose.
Haku non aveva insistito, conosceva le barriere in cui Griša sapeva nascondersi se si ostinava a non voler ammettere ciò che provava, e poi era troppo esaltato dall’idea di poter parlare ancora con Lillie: non poteva essergli d’aiuto, e men che meno in quei momenti.
Eccolo di nuovo davanti alla porta di legno che tante volte si era visto sbattere in faccia senza nemmeno un cenno di saluto, mentre la voce di Lillie si allontanava in quelle interminabili telefonate, con una dolcezza sconosciuta o forse dimenticata. La spinse – era sempre aperta – e salì lentamente le scale, con il cuore a mille e la vita che gli pulsava di nuovo nelle vene. Bussò.
Kim stava per uscire, Griša era laggiù che la aspettava, ma nel vederlo trasalì ed esclamò sottovoce: «Dio mio! Haku… ce l’avete fatta! Non vedo l’ora di andare giù a farmi raccontare tutto. Lillie è al computer, vai pure».
Al computer. Gran brutta postazione, pensò lui con un brivido. Sapeva cosa lo aspettava, era pronto, e con gli ultimi passi decisi varcò la soglia della camera da letto.
Quel sottile profilo, i capelli rossi sciolti sulle spalle, la divisa militare ordinatamente piegata ai piedi del letto, le mani delicate che scrivevano velocemente sulla tastiera… non volle nemmeno sapere cosa. Per un terribile momento fu sul punto di correrle incontro, abbracciarla forte e al diavolo tutto il resto… invece, con un autocontrollo esemplare, ingoiò l’amore – era la sua specialità – e mormorò: «Ciao, padroncina».
Lillie gli lanciò un’occhiata di sufficienza dal fondo degli occhi dello stesso colore della brughiera irlandese, e sbottò irritata: «Piantala, Grigorij, chi ti ha detto di salire? Tua morosa è già scesa, cosa vuoi qui?» «Sono io» esalò lui, indietreggiando «Sono… io».
Solo allora lei si decise a voltarsi, spazientita, e di colpo sbiancò: aveva sentito Griša e Kim parlare sotto la finestra, e nello stesso tempo si era ancorata in quegli occhiacci verdi che per due volte aveva amato e poi odiato. Balzò in piedi e gli si avvicinò quasi con cautela, prendendogli qualche ciuffo biondo dalla fronte e rigirandoselo in mano, poi lasciò scorrere la punta delle dita lungo la cicatrice sull’occhio sinistro, scivolando sulle labbra tremanti. Com’era dolce e inaspettato quel contatto!
Poi, di colpo, si infuocò e spalancò con un pugno la finestra, abbaiando alla strada: «Griša, pezzo di imbecille! Dove hai trovato qualcuno così schifosamente identico a lui? Perché questo scherzo crudele? A volte sei proprio senza cuore, maledetto bastardo, ora ho proprio capito perché tu e Girolamo andate tanto d’accordo: siete due disgraziati entrambi! Infami, sciagurati, scellerati!».
Haku, vincendo la soggezione, la prese per mano e la tirò indietro: «Aspetta un momento!» la pregò «È grazie a lui se sono qui… se posso ancora parlare con te».
Lillie aveva gli occhi stranamente lucidi, nessuno l’aveva mai vista così. «Sei un altro di quei puttanieri che credono di potermi portare a letto, vero?» pianse «Tu per conto di chi sei venuto qui? Qualcuno di astuto e fortunato, perché sei veramente identico al mio Haku, ma finirai come tutti gli altri: ti farò massacrare! Io stessa l’ho visto morto, morto con le vene tagliate e la schiuma alla bocca per i tanti sonniferi che ha buttato giù, morto perché non ho mai saputo dirgli “ti amo”, morto perché non sono stata in grado di accorgermi che stava male e che lo stavo distruggendo! Vattene, sparisci, è una tortura per me vederti…». Le lacrime le scendevano copiose lungo le guance pallide, ma non stava singhiozzando: era dignitosa, da vera comandante, anche in quel momento atroce. «Scricciolo, aspetta!» gridò Haku, e forse fu quel tenero nomignolo che solo lui le aveva detto a convincerla a fermarsi. «Io posso dimostrarti che sono tornato, te lo giuro, lasciami solo provare».
Senza aspettare altro si piazzò in mezzo alla camera, con uno sguardo doloroso al letto sul quale per la prima volta avevano fatto l’amore, e con quel ricordo stretto nel cuore ricorse per la seconda volta in poco tempo al potere speciale che aveva promesso a lei e a se stesso di non usare mai più: «Tecnica del Frammento di Anima». La maglietta leggera che indossava si tese sui muscoli nitidi, quasi raddoppiati, gli occhi gli si fecero verdissimi e i capelli gli si arricciolarono sulle tempie.
Nessuno meglio di Lillie avrebbe potuto riconoscere quelle caratteristiche uniche. Cercò di balbettare qualcosa, ma la voce le si era asciugata in gola, e le uscì solo un rantolo sfiatato. Tese le mani e lui le strinse con un tremito, un attimo prima di trovarsela tra le braccia. Era rimasto lui stesso di sasso, con quel corpicino magro eppure forte accostato al suo, e non sapeva come comportarsi.
Lillie non faceva che accarezzare il volto familiare, indovinando con gli occhi chiusi ogni millimetro, e si fermò solo per un istante a seguire il profilo delle labbra. «Dammi un bacio» ordinò, riuscendo ad apparire autoritaria anche in un momento così tenero. «Uno?» sorrise Haku «Tutti quelli che vorrai, quando e se vorrai». Vincendo anche le ultime paure la spinse dolcemente verso il letto, si lasciò cadere accanto a lei e si perse in quel bacio che quasi gli bruciò sulle labbra tanto l’aveva desiderato, quel bacio che sapeva di sincerità, di lacrime e d’amore.

* * *

In fondo al rettilineo, il palazzo rosa sembrava un alveare immerso nella notte sporca di lampioni appannati. Non era molto tardi, per cui qualche finestra qua e là era ancora accesa; il muro si avvicinava ad una velocità vertiginosa, la traiettoria l’avrebbe portato a schiantarsi dritto nell’atrio centrale, ma all’ultimo momento Griša compì una brusca impennata, e la navetta passò a volo radente lungo le finestre scomparendo in breve in un puntolino lontano tra le stelle. Un attimo dopo, anche la seconda navetta fece la stessa manovra, ma nel rientrare sullo spiazzo si lanciò in uno slalom forsennato tra i lampioni, davanti agli occhi ammirati di chi assisteva alle prove delle due nuove navicelle ancora da battezzare. Girolamo scese con un sorrisetto compiaciuto, e Kim annotò diligentemente sul computer: «Altissima maneggevolezza, altissima accelerazione, minimo consumo di carburante. Il pilota Uno ha fatto il suo dovere serio e bellissimo, il pilota Due pur palesando una mania di grandezza patologica ha dimostrato ulteriormente il perfetto bilanciamento delle GHG».
Griša, che aveva sentito l’ultimo commento, ridacchiò facendo una linguaccia a Girolamo e si abbandonò un po’ sorpreso vicino a Kim, commentando con un compiacimento che non era più quello dei primi tempi: «Serio… e bellissimo?». Erano già diventati così rari e preziosi quei lumicini felici che aveva dovuto riaggrapparsi alla sua storica diffidenza, e per evitare una possibile batosta deviò subito il discorso: «GHG sta per Grigorij, Haku e Girolamo?» «Affatto!» sbottò Girolamo comparendogli d’un tratto alle spalle «Vorrai dire Girolamo-Haku-Griša, perché il nome dei migliori va sempre per primo». Kim lo rimbeccò: «Ho detto GHG e tale rimane!», con un tono che ricordava molto quello del suo capo, e al pensiero di Lillie tutti si incupirono, preoccupati.
La notte prima Haku era tornato dal regno dei morti, e Lillie ammutolita di gioia e amore non l’aveva più lasciato andare per tutta la notte. Quella era la loro seconda giornata insieme, ma già da poco prima dell’ora di cena tutti avevano avuto uno strano presentimento per niente bello: Griša era nervoso, e Girolamo si sforzava di non pensare nemmeno alla maledizione delle loro anime condivise per non rischiare di svelare la verità prima del tempo. Si erano scoperti più di una volta a meditare, tesi, su quello che poteva essere successo, e avevano già guardato l’orologio una ventina di volte aspettando il momento di andarlo a recuperare. Kim era riuscita a distrarli – e a distrarsi, perché era impensierita anche lei – proponendo un rodaggio delle nuove navette appena costruite, ma ormai i due nuovi piloti della Stella Verde avevano ultimato il loro compito.
Griša e Girolamo tornarono a bordo delle rispettive navicelle e, per ammazzare il tempo, decisero di fare un giro della zona in formazione per verificare fino a che punto i radar di sicurezza concedessero a due mezzi di avvicinarsi senza pericolo. Quando però furono passati rasoterra scambiandosi un cinque, fu chiaro a tutti che le GHG erano perfette quanto le LK, e non c’era nient’altro da fare.
Girolamo si ritirò tra i caravan del campo nomadi allestito ai piedi del palazzo rosa, pregustando qualche birra ghiacciata e una notte di bevute e chiacchierate: fino al pomeriggio seguente sarebbe stato irreperibile. Griša fu per tre volte sul punto di abbracciare Kim e incamminarsi con lei al vicino parco pubblico, a coccolarsi su una panchina come ragazzini sotto la luna piena, e per tre volte si rispose da solo: «Se lo facesse, lo farebbe sforzatamente». Sempre più immalinconito, anche se le sue maschere non lo lasciavano intendere, le rivolse un sorriso stanco e propose: «Vuoi fermarti qui con gli altri a recuperare le tue radici, zingarella? Haku mi aspetta tra un’ora sotto casa di Lillie per tornare a Domland, e siccome pensavo di recuperarlo con una navetta ho tutto il tempo di esercitarmi ancora a pilotarla».
Passandogli di fianco, Kim gli fece una lunga carezza tra i capelli, e si accovacciò davanti a lui squadrandolo con quegli occhi neri e penetranti. «No» affermò, seria «Vorrei solo parlare con te: cosa ti succede? Da qualche giorno non sei più lo stesso».
Vedendo scoperto così facilmente il suo bluff, Griša fece per protestare e scoprì di non averne nemmeno la forza. «Non qui sotto» borbottò, accennando al lurido condominio popolare «Potremmo andare al parco qui dietro». Era irrequieto come un attore alla sua prima recita, e intanto era soltanto un attore che aveva perso le sue maschere. Kim lo prese per mano con una lieve esitazione, e fece strada lungo il sentiero di pietre rosa e grigie: l’unico suono che si udiva nella notte era il fruscio delle sue ciabatte di paglia.
Scelsero una panchina seminascosta tra le fronde di un salice, lontana dai raggi della luna, e solo allora Griša si decise a confessare, con un tono che voleva essere leggero e spavaldo ma che in realtà tradiva ansia e frustrazione: «Non riesco a non pensare a quella sera in cui ti ho chiesto un bacio e tu ti sei tirata indietro infastidita. Da allora non ho più osato chiederti niente! Ricordo bene come ero io nei primi anni a Southampton, appena uscito dalla vita di strada: ero intoccabile, detestavo qualsiasi effusione, e se qualcuno mi si avvicinava troppo ero pronto a scattare. So quanto è irritante, quando non si vuole essere toccati da nessuno, avere davanti un’altra persona che ti chiede addirittura un bacio, e da quel momento ho temuto di farti sentire braccata, assillata… tu che sei uno spirito libero ancora più di me. Tu e Lillie avete molte cose in comune, quasi quante ne abbiamo io e Haku, e ho filtrato il tuo comportamento attraverso il diario del mio amico. Sai bene quanto assurdamente simili siano le nostre storie, quanto io tema la predestinazione, e purtroppo quella sera coincideva perfettamente con una stessa scena vissuta da Haku esattamente un anno fa, negli stessi giorni. Con la sola differenza che lui, disperato, ha subito pensato al peggio ed è diventato veramente ossessionante; ma io, piuttosto che ripetere quell’errore, ho preferito lasciarti libera e aspettare che fossi tu a chiedermi una carezza, un abbraccio o un bacio. Solo che… a quanto pare questa volta la commediola non mi è riuscita. La verità è che mi manchi come se fossi partita per un’altra missione, che darei tutto pur di potermi ancora riparare tra le tue braccia, ma che piuttosto di sentirti dire ancora che lo faresti per forza preferisco lasciarti andare. Ho sbagliato a rimuginare questi pensieri, parlandone con Haku per un terribile momento ho pensato perfino che tu non provassi più nulla per me, ma ho finito per lasciar perdere e aspettare: io ti amerò per sempre, e posso aspettare per sempre».
Aveva messo da parte tutti i suoi travestimenti da palcoscenico, parlando con una dolce e triste schiettezza; ma era pur sempre uno scrittore, la retorica era una delle sue specialità, e quel discorso rivelò ben più di quello che lui aveva intenzione di ammettere.
Kim taceva, fissando il buio. Un refolo di vento aprì le fronde del salice come un sipario, e la luce argentata della luna piovve ad illuminarla in pieno, scivolando sul liscio cupo dei capelli. Lui dovette distogliere lo sguardo: era troppo bella, e aspettare qualsiasi risposta con l’angoscia che potesse essere l’ultima sarebbe stata solo una tortura. La luce danzò ancora sugli orecchini d’oro che le sfioravano il volto chino, e per un attimo parve piovere sui numerosi bracciali che le avvolgevano i polsi sottili, cadendo in un’ultima stilla sulla cavigliera. Finalmente parlò, incerta: «Allora è questo che ti rendeva così schivo» mormorò «Ti ho ferito. Non negarlo», lo fermò indovinando la protesta che voleva troncare quel discorso doloroso per entrambi «Non negarlo, perché ora che me l’hai detto mi rendo conto di quanto sia evidente. Sai che cosa mi ha detto Lillie, una sera, pochi giorni dopo aver saputo che io e te ci siamo messi insieme? Che la nostra storia non avrebbe mai potuto andare avanti molto, che io sono troppo indipendente, e ora sto cominciando a crederle. Se penso che sei così da almeno due settimane, che da giorni ti tieni tutto questo magone dentro senza fiatare, e che io non mi sono preoccupata di niente, mi verrebbe quasi da darle ragione in pieno. Forse davvero non sono adatta per le storie serie».
«Non pensarlo nemmeno!» tuonò Griša, disperato «Non mi importa niente di quello che può aver detto quell’isterica, ora ha di nuovo il suo Haku da torturare, e deve lasciarci in pace!». Sorpreso lui stesso dalla crudeltà di quell’affermazione continuò a tormentarsi: «E non mi importa nemmeno di stare per ore a coccolarci» mentì spudoratamente «Se tu non vuoi, saprò vivere anche senza la minima carezza: mi basterebbe averti accanto… se questo non fosse un limite per te».
Aveva alzato molto la voce, e il campo nomadi non era molto distante in linea d’aria. Girolamo, che aveva zittito tutti i suoi amici con un cenno, era ancora immobile con la mano alzata. «Lillie ha già ripreso a tormentare Haku» pensò «Lui è tanto buono, ma tremo al pensiero che possa di colpo perdere il controllo e usare il suo potere speciale». Sentendo il seguito del discorso, tuttavia, si preoccupò ancora di più per l’amico che sembrava così abbattuto: «Dove si può trovare un amore così grande?» si chiese, e desiderò ardentemente che per i due tutto si risolvesse per il meglio. Nelle lunghe chiacchierate con Griša aveva imparato non solo ad apprezzarlo, ma anche a conoscere i suoi limiti, e sapeva che poteva reagire a tutto fuorché alle legnate per amore. E lui era ben più che innamorato di Kim: frasi del genere dovevano esserglisi conficcate ben in fondo nel cuore, allineate a tanti altri chiodi arrugginiti che ogni tanto bruciavano ancora. Lui, al suo posto, l’aveva ammesso: non avrebbe resistito. Fu sul punto di gridare qualcosa, un incoraggiamento magari, ma gli mancavano le parole. Tornò alla sua birra fredda con un sospiro mesto.
Sotto il salice, Kim non aveva parole. E Griša non sapeva assolutamente come comportarsi: da un lato avrebbe voluto solo stringerla forte, nascondere il viso tra le pieghe vellutate dello scialle che le riparava le spalle esili dal vento freddo della sera, difendersi così dai pensieri più tetri, e dall’altro aveva il terrore di sentirla compiere un gesto sforzato e svogliato. Sinceramente, non sapeva se sarebbe stato peggio lasciarla andare con la sua libertà o abbracciarla inerte percependo la sua rassegnata attesa che quel momento finisse.
Fu lei a rompere il silenzio: «Posso appoggiarmi a te?». In una richiesta così semplice aveva spazzato via ogni incertezza. Senza aspettare risposta gli si raggomitolò con la testa su una spalla, accomodandosi meglio quando le braccia tremanti e tanto amate la circondarono esitanti. «Non ho mai avuto tanta paura di perdere qualcuno, anche se è stato solo per un attimo. Mi dispiace di averti fatto del male, amore mio». Griša le posò le labbra sul collo, socchiudendo gli occhi beato. «Ho avuto paura anch’io» bisbigliò «Devo aver preso il vizio di Haku di essere disfattista e paranoico all’inverosimile, ultimamente». Una decisione, però, l’aveva comunque presa: avrebbe cercato la dolcezza di Kim solo quando era sicuro di non irritarla, tirandosi rapidamente indietro al minimo rifiuto o alla più velata concessione, rispettando il suo animo da gabbianella che non conosce confini. Poi trovò il morbido contatto delle sue labbra dischiuse e non pensò più a nulla.

* * *

A un isolato dal molo, nell’aria salata filtrata dallo sciaguattio delle onde sugli scafi delle navi ormeggiate, Haku strascicava i piedi sul cemento senza curarsi di dove si stesse dirigendo. Era deluso, sì, ma l’aveva preventivato quando aveva contrattato con il Giudice Infernale per avere la possibilità di tornare come fantasma e quando aveva persuaso Griša a riportarlo in vita.
Aveva fatto subito un passo falso: vedendo che Willy era ancora in circolazione non era riuscito a trattenere il terrore per tutto quello che lui gli aveva fatto passare, e si era lanciato in una sfilza di invettive e battute indecenti per due volte consecutive. Lillie, naturalmente, si era infuriata e l’aveva sbattuto fuori. «Neanche ventiquattr’ore è durata la pace!» aveva abbaiato lui sferrando un pugno alla porta chiusa a chiave, e ormai da tre ore bighellonava tra i vicoli del porto. Quanto aveva avuto ragione Griša! La sera prima era lì, rapito e stordito dalla tenerezza di Lillie, e ora era davvero come se non fosse mai cambiato niente.
«Come se non fossi mai morto» disse ad alta voce, e scoprì che quel pensiero gli dava un’inspiegabile gioia. Non era forse quella la sua vita, la normalità? Se l’aspettava, aveva già avuto molto più di quello che non avrebbe mai osato nemmeno sognare, e in fondo c’era un filo di bellezza in quella situazione: l’eterna attesa di lei, lo stupefatto appagamento di una parola dolce, le lacrime ingoiate a fiotti davanti agli schermi fitti di parole di una chat che si asciugavano di colpo se lei gli chiedeva di accarezzarle la schiena come aveva fatto quando stavano per mettersi insieme, le delusioni che lo rendevano forte e corazzato contro le avversità della vita, il guscio impenetrabile del quale solo lei aveva le chiavi. Aveva detto e dimostrato di amarlo, la sera prima, e quella non era stata un’allucinazione: con un sorrisetto malizioso si passò le dita sul collo, là dove un profondo bacio gli aveva lasciato una larga virgola nascosta dai capelli ordinatamente raccolti all’indietro. Era quella la sua vita, la sua storia, il suo unico amore, e non voleva né sapeva pensare ad altro.
Tornò sui suoi passi, seguendo la luce che passava attraverso le tapparelle della camera di Lillie. Una luce fredda, biancastra, la luce di un monitor ancora acceso a quelle ore tarde. «Scricciolo!» chiamò, certo che lei l’avesse udito ma con il dubbio se si sarebbe fatta vedere o no.
Lillie si affacciò subito alla finestra, seccata per essere stata interrotta ma stupita di vederlo ancora lì. Come tutte le volte che lo vedeva in qualche atteggiamento tipico di Girolamo – in quel caso in agguato sotto la sua finestra – le saltava agli occhi la loro netta somiglianza, insieme al dubbio che potessero essere parenti stretti, e pensò di sfuggita che forse lo trattava così male proprio per quello. I capelli biondo scuro tirati indietro con la brillantina, gli occhi dello stesso verde, ma ora che aveva conosciuto di persona anche Griša notava che la vera similitudine era con lui: potevano realmente essere gemelli, solo con gli occhi e i capelli di colori diversi. «Beh?» sbottò.
Dalla strada, Haku aveva ancora gli occhi arrossati dalle lacrime, si vedeva che era distrutto da quella prima litigata ma ben determinato a tener duro con la sola forza dell’attesa di un solo gesto da innamorati. «Niente» rispose, spavaldo «Volevo soltanto scusarmi per essermi tanto accanito sui tuoi amici. Buonanotte, piccola». Come già tante altre volte aveva fatto, se ne andò senza nemmeno voltarsi indietro: ora poteva solo andare alla deriva nel mare nebbioso dell’attesa.
Ormai, comunque, era ora di andare a casa.
La GHG viola e la LK si stagliavano, parallele, sullo sfondo dell’Orsa Maggiore. Kim atterrò direttamente nell’hangar, con una manovra perfetta e precisa al millimetro, mentre Griša si posizionò sul ciglio della strada, proprio di fronte ad Haku. «Ciao, fratellino» lo salutò aprendo il portellone, e istantaneamente gli passò la voglia di scherzare: quegli occhi non erano già più due smeraldi carichi di aspettativa, ma grigi come pietre impolverate. Accidenti a Lillie. «Ti è andata male da subito, eh?» commentò apaticamente «Ora mi sento in colpa per essermi lasciato convincere».
La rivalità fraterna che c’era tra loro funzionò anche in quella spinosa circostanza. «Cosa vuoi che sia?» sbadigliò Haku «Lillie è a capo di un esercito planetario: non ha mai avuto né avrà mai tempo per le tenerezze da innamorati». Si sforzava di apparire fiero e tranquillo, ma non era un attore ai livelli dell’amico, e Griša smascherò subito la sua finta, ma rimase zitto. La sua opinione di Lillie, se soltanto la sera prima si era decisamente indorata, stava tornando quella consueta. «Non è un mio problema» concluse poi, deciso «È la tua ragazza». Quell’infelice uscita gli avrebbe dato la possibilità di sfoderare ben altre perfide battute, ma si contenne e riaccese i motori. Almeno, rifletté, Haku non era più solo con la sua disperazione, e dall’indomani avrebbero cominciato le ricerche sulla sua famiglia: Lillie lavorava tutto il giorno, e lui già tremava al pensiero di una decina di ore senza sentirla e sapendola attorniata da Larvoniani di prima scelta. Almeno così non ci avrebbe pensato ossessivamente; e Griša e Girolamo, insieme, erano abbastanza esuberanti da poter schiodare dalle sue paranoie qualsiasi maniaco depressivo. «Domani ti porterò al palazzo rosa» disse, perentorio «Girolamo non è affatto così odioso e pericoloso come credi, ci aiuterà nelle ricerche e ti impedirà di pensare a quell’isterica lassù» «Girolamo?!» balbettò Haku, ma subito dopo scattò in difesa della sua adorata: «Non ti azzardare a chiamarla così! Tu forse hai calamitato il lato buono di Don Santino, ma io conosco la dolcezza insospettabile di Lillie, quindi siamo pari».
Griša alzò gli occhi al cielo, fingendo di intimorirsi per quella minaccia, e per iniziare a distrarlo ammiccò, con una scintilla di sfida in fondo alle iridi di rubino: «Vuoi vedere come ho imparato a pilotare questi gioiellini inferiori solo alle leggendarie LK? Ce n’è una in cantiere anche per te!».
Haku si allacciò le cinture, e lui non ebbe più alcuna remora: con i motori al limite e i portelloni a tenuta stagna sigillati ermeticamente, impennò verso la barriera del suono e saettò oltre l’atmosfera, dilettandosi in acrobazie spericolate tra gli asteroidi e i satelliti. La sua soddisfazione non era tanto l’essere riuscito a eguagliare i virtuosismi di Girolamo, quanto il vedere Haku con quel sogghigno divertito: certamente, ora sarebbe toccato a lui imparare a guidare le navicelle della Stella Verde!

* * *

Griša non era mai stato molto modesto nel giudicarsi, e anche nei momenti peggiori aveva saputo mantenere il suo innegabile fascino strafottente; escludendo la parentesi con Estel, durante la quale sembrava essersi dimenticato che cosa fosse l'amor proprio, in fondo non era mai cambiato: spiritoso, sicuro di sé e consapevole del suo essere sempre attraente anche senza abusare mai delle sue doti.
Ma mai come in quel momento si detestava per quel modo di fare dal quale non riusciva più a staccarsi: era, in una parola, drammaticamente stanco di tutto. Combattere nelle file della Stella Verde, pilotare navette, svolgere missioni anche molto difficili, aspettare giorni infiniti di rivedere Kim. Ormai non si sentiva più niente in mano, nulla aveva più interesse, e mai come ora capiva in quale stato d'animo Haku doveva essersi ucciso.
Incurante anche del suo orgoglio smisurato calciò da parte le lenzuola – chi mai avrebbe dormito quella notte? – e osservò per qualche minuto la sagoma immobile nel letto dall'altro lato della camera: Haku dormiva già da un pezzo con un vago sorriso, sicuramente beato dopo essere uscito con Lillie per una romantica passeggiata, e non si era accorto di nulla. Lo invidiava terribilmente: in fondo, era vivo solo grazie a lui, e che cosa gli era venuto in tasca? Soltanto dispiaceri. Haku, il suo migliore amico, piuttosto di contraddire Lillie gli aveva voltato le spalle. Lillie, che evidentemente aveva bisogno di qualcuno su cui sfogare la sua naturale cattiveria, se l'era dunque presa con lui, e lo stava colpendo nell'unico suo punto vulnerabile: stava distruggendo la sua storia con Kim. A nulla erano servite le timide obiezioni di Haku o i perentori suggerimenti di Girolamo: testarda, lei andava avanti deliziata dalla sua stessa crudeltà. E la storia di Griša e Kim stava già per diventare un ricordo.
«Non ci riuscirà mai» aveva sussurrato Griša prima di salutare Kim all'alba dell'ennesima missione «Io rimarrò sempre qui ad aspettarti». Ma quell'attesa non era destinata a finire.
Pur tremando di rabbia, di dolore e di solitudine, Griša uscì nella notte e si diresse a passo svelto verso gli hangar della Stella Verde, certo di trovare Lillie ancora sveglia e al lavoro: se esisteva ancora quell'ultima possibilità di stare con Kim, era disposto a qualunque cosa.
L'entrata degli hangar era buia, ma in fondo al capannone di lavoro si udiva la pioggia di scintille di una fiamma ossidrica, e il bagliore tremolante che emanava gli fece strada nell'aria che sapeva di motori e di bruciato.
Lillie si tolse la maschera protettiva, asciugandosi il viso sudato. Per un attimo parve non accorgersi nemmeno della sua presenza, troppo impegnata a studiare le saldature sulla lamiera ancora grigia di una nuova navicella, ma proprio quando lui stava per chiamarla gli si rivolse con sufficienza, senza nemmeno voltarsi: «Dimmi pure».
Griša non si era preparato niente da dire: aveva in mente solo il suo progetto, e non sarebbe servito a niente fare tanti giri di parole. Così le si avvicinò, serio, e si sedette su uno scatolone di pezzi di ricambio, aspettando che fosse lei a rompere il silenzio con un acido: «Che cosa vuoi? Hai visto che ore sono?» «Voglio parlarti in privato» rispose lui «Diciamo che si tratta di un... compromesso». Sforzandosi di ingoiare l'orgoglio le si accovacciò accanto: poteva fare tenerezza così, triste e remissivo, ma non a lei che lo detestava. Lo sapeva. «Io non ce la faccio più senza di lei» ammise, diretto e conciso «Kim è... è tutto per me, e non posso più andare avanti in queste condizioni. Ascoltami: sono pronto ad ubbidire ai tuoi ordini, a rigare dritto senza fare il ribelle, a scusarmi per come mi sono comportato con te finora; in cambio ti chiedo solo... lasciami stare un po' con Kim». Erano parole vecchie, consumate, già dette troppe volte. Lillie gli lasciò finire il discorso, riprese la fiamma ossidrica e con un secco «No» tornò alle sue occupazioni.
Griša rabbrividì di ira, ma fu in un attimo il dolore a prendere il sopravvento. «In quale assurda missione l'hai costretta ad andare, stavolta?» mormorò. Parlava piano, come se anche quelle parole gli costassero un'enorme fatica dopo l'inutile umiliazione di prima. Lei, fiera di aver ottenuto tanto facilmente il suo risultato, ora aveva solo da godersi la scena: che cosa le importava di loro due ora che aveva ritrovato Haku? «Non lo so di preciso» disse «Due ore fa ho perso il contatto radio con lei. So che stava per lanciarsi in una battaglia, mi ha detto che non si aspettava tanti avversari in una volta sola e poi non ho più saputo niente». Aveva una calma e un disinteresse assoluti.
Pallido, con gli occhi sbarrati come se stesse assistendo ad un orrore inconcepibile, Griša indietreggiò incespicando. Tremava violentemente, era madido di un sudore freddissimo e non riusciva a trovare le parole con cui ribattere. Peggio: aveva la nitida impressione di precipitare lentamente nel vuoto. «Tu sei senza cuore» affermò, trascinandosi lungo il muro. Aveva il respiro ridotto a un rauco rantolo sfiatato. «Non credo» concluse Lillie, compiaciuta «Se fosse vero non amerei Haku così tanto». Probabilmente non era nemmeno stata ascoltata: sentì la porta dell'hangar sbattere violentemente, in un fragore di oggetti metallici rovesciati.
Una scena da film: strade deserte, un'insistente pioggerellina autunnale, l'amaro in bocca e la Taverna dei Rimpianti come meta fissa.
Come se non si fosse mai allontanato da San Pietroburgo: se l'era ripetuto già milioni di volte, ed era tornato lì appena da un paio di mesi. Gli ci era voluto pochissimo a riprendere i tristi standard dai quali credeva di essere finalmente libero: e invece eccolo ancora una notte alla Taverna dei Rimpianti. Non si può sfuggire all'incubo di un passato che ancora non è diventato tale ed estende le sue ombre sul presente annebbiando il futuro. Griša sentì di odiarsi, di nuovo lì come un qualsiasi derelitto, a piangersi addosso sprofondando in un'alcolizzata solitudine. L'aveva sempre saputo: il ritorno a Domland sarebbe stato la sua condanna. E c'era tornato ugualmente, anche quando aveva avuto ben chiaro che gli sarebbe finita male un'altra volta.
Chissà dov'era Kim: si era perfino stufato di chiederselo. Rischiava di non rivederla mai più, ora che Haku e Lillie avevano deciso di comportarsi come sposini novelli: finché quei due passavano tante ore insieme, per loro due non c'era più nemmeno quella rara mezz'ora per rifugiarsi in qualche angolo buio. E poi, ormai non c'era più nemmeno un segnale radio: Kim poteva anche essere ...
Rimase stupito nel vedere tanti tavolini vuoti, e con un sorrisetto amaro pensò che tutti i poveri disgraziati che avevano annegato lì tante notti dovevano essere già passati a miglior vita. «Cristo, smettila!» si rimproverò, piantandosi le unghie nei palmi delle mani «Ti sembrano pensieri da fare, e in un posto come questo?». Qualcosa di lui tirava indietro: sapeva bene che, una volta oltrepassata la porta di legno pesante, non avrebbe più avuto scampo dalle sue malinconie reali o immaginarie che fossero. Troppi ricordi gli tendevano agguati oltre il vetro massiccio che sfocava le sagome falsate dei tavolini, troppi fantasmi di lacrime cadute sul fondo di bicchieri di vino rosso. In un barlume di lucidità, con il freddo metallo della maniglia che gli spiccava sotto le dita, pensò alla sua vita in quel momento: le risate con Girolamo, il trionfo di aver riportato in vita Haku, l'inizio del terzo anno di università ormai prossimo, il suo amore sconfinato e corrisposto per Kim... Kim che era scomparsa di nuovo, e stavolta per sempre. Si infuriò e calciò con tutte le sue forze un bidone stracarico di immondizie, mandandolo a rotolare in un sinistro clangore lungo il vicolo, poi si appoggiò al muro ingollando affannosamente il fondo freddo dell'aria notturna. Se solo fosse stato in grado di piangere! Ma non lo faceva da anni, le lacrime gli si erano prosciugate fino a diventare mattoni di diffidenza e barriere contro il mondo.
Quando riaprì gli occhi intravide in fondo al vicolo una figura femminile avvolta in un lungo abito nero che strisciava sul cemento dando l'impressione di appartenere ad un fantasma. Griša trasalì, mentre qualcosa di molto simile ad un presentimento gli proiettava un brivido gelido lungo la schiena. La figura, con il volto nascosto da capelli neri incredibilmente lunghi, si avvicinava a passi stanchi: ogni metro che scompariva sotto lo strascico nero avvicinava quel passato doloroso che non voleva saperne di arrendersi al suo destino di ricordo.
Estel gli passò accanto, alzando gli occhi azzurrissimi e irrimediabilmente straziati ad agganciare i suoi. «Anche tu qui» disse, apatica. Non era una domanda, ma una semplice affermazione svagata e priva di interesse. «Maksim mi ha lasciata» ripeté per l'ennesima volta: doveva essere veramente devastata. «Lo so» mentì lui, indietreggiando impercettibilmente da quello sguardo spalancato su una disperazione senza fine. Per quanti mesi aveva gufato, sperando che arrivasse quella rivelazione? Scoprì che non importava. Estel e Bugsley si erano lasciati, e l’unica cosa che gli riusciva di fare era cercare uno svincolo da quella maschera di smarrimento.
Cominciava ad avere paura: quella che aveva davanti non era Estel, ma la maschera di un'indicibile sofferenza. «Maksim se n'è andato» la udì cantilenare, monotona, e solo in quel momento capì che il dolore l'aveva resa folle. Fu tentato di risponderle male, facendo il saccente, e già un aspro «Come se non te l'avessimo detto tutti fin da subito!», ma conosceva bene quello stato d'animo. Istintivamente strinse tra le mani la targhetta militare che portava al collo: una piastrina di metallo su cui brillava una stella verde. Gliel'aveva regalata Kim.
Estel continuava a fissarlo, ma aveva gli occhi vuoti. «È finita» mormorò, accarezzando la maniglia della porta «Vieni dentro anche tu a bere qualcosa di forte? Avevi ragione tu: l'assenzio è veramente miracoloso. Beviamone una tazza, andiamo a cantare in qualche karaoke, e poi facciamo l'amore... già, a casa mia dopo aver cantato, ho voglia di sentirti cantare, Maksim non ha mai cantato per me...».
Griša fece voltafaccia e la lasciò sola, a ripetere davanti alla porta ancora chiusa la sua tiritera: «Mi ha lasciata. È finita». Rideva, ogni tanto scoppiava a piangere, e poi fissava la maniglia pregustando l'oblio che si specchiava nei bicchieri. Completamente pazza.
«Io non sono ridotto così» si obbligò a pensare «Estel è ridotta anche peggio di Haku quando si è tolto la vita, perché lui era cosciente del suo gesto, ma lei è già impazzita. Non posso fare la stessa fine: Kim dovrà pur tornare a casa, un giorno!». Ma aveva finito anche di ingannarsi con quella filastrocca.
«Torna alla base» si ordinò, spaventato dal muto portone di legno e dalla visione di Estel simile ad un fantasma. In quei giorni lui e Girolamo avevano iniziato ad istruire Haku sul funzionamento delle navicelle della Stella Verde, come promesso, e l’indomani mattina era stata fissata un’esercitazione all’alba: avrebbe fatto meglio a rincasare e cercare di dormire.

* * *

La vita nella caserma di Lillie riusciva ad essere spassosa anche nei momenti critici delle loro missioni ormai portate a termine in comune: Griša e Girolamo, se presi insieme e nei loro momenti di buonumore, erano la vena comica del quintetto, e ora che anche Haku aveva vinto la soggezione ispirata dall’antico nemico era sempre più difficile restare seri durante i loro numeri a tre. Se prima, in quello strano idillio che ora sembrava un inutile sogno, l’unica coppia di fatto erano Kim e Griša, ogni giorno più innamorati e teneri, ora l’apparentemente insensibile Lillie sembrava determinata a creare una spietata concorrenza: da quando Haku era riapparso in circolazione – la sua mente razionale ancora si rifiutava di considerare il rito magico che l’aveva riportato in vita – non l’aveva lasciato un solo istante. Era cambiata, nessuno ricordava di averla mai vista così affettuosa nei confronti di qualcuno che non fosse suo figlio, anche se spesso riaffiorava la sua storica durezza militare; in quei momenti, allora, perfino i due ribelli incalliti della squadra erano costretti, seppur sbuffando rumorosamente, ad ubbidirle senza controbattere. Soprattutto, Lillie aveva smesso di ingraziarsi gli ambasciatori di altre flotte con moine e frasette carezzevoli, e se qualcuno dei vecchi corteggiatori osava farsi avanti, lei era pronta a rispondere ferocemente: «Ti ho già detto che sono impegnata, e ho intenzione di restarci molto a lungo. Finiscila o ti faccio fuori, quant’è vero Dio!».
Sentendola la prima volta, Haku aveva spalancato gli occhi così tanto da appianare le sottili differenze che potevano falsare il mito secondo cui lui e Girolamo erano fratelli, ma all’ultimo momento si era ricomposto tornando ad appollaiarsi sul pavimento vicino alla sedia di lei e godendosi le leggere carezze che gli piovevano di tanto in tanto tra i capelli.
Una tranquilla sera di fine estate, i cinque erano seduti nella sala di controllo generale a far giocare Dylan con un numero spropositato di palloni di tutti i tipi: Girolamo si lanciava in spettacolari parate, Griša faceva di tutto per sabotarlo quando non era beatamente abbandonato tra le braccia di Kim, mentre Lillie spiegava meticolosamente ad Haku tutte le sottigliezze della Stella Verde che era tenuto ad imparare perfettamente. Improvvisamente suonò una sirena, i lampeggianti rossi invasero tutta la sala e Girolamo inciampò su un pallone rovinando a terra e schiamazzando: «Gli sbirri!».
«È un attacco» realizzò Lillie, fredda «Improvviso e molto vicino. Abbiamo sì e no diciassette minuti per contrattaccare: correte a prepararvi immediatamente, a chiamare le flotte ci penso io!». Kim le fu subito accanto, studiando le coordinate di attacco e di difesa: era molto concentrata, ma non sembrava spaventata. «Servono cinque navette: quattro di attacco e una di retroguardia intorno alla torre di controllo. Mandiamo fuori le nostre due LK e due GHG?».
Haku intervenne, esitante: «Io non me la cavo ancora abbastanza bene con le navette» ammise, agitatissimo, ma Lillie lo rassicurò: «Tu starai di guardia, infatti, in una navetta corazzata. Non è molto maneggevole, ma nemmeno i laser possono scalfirla. Se vedi che i segnalatori luminosi si accendono, atterra sulla torre di controllo e attiva tutti i razzi difensivi come ti ho insegnato. Prima di fare qualunque cosa, però, chiama la navetta che vedi più vicina a te o lancia un sos… hai capito?» «Credo di sì» mormorò lui, chiudendosi la lampo della divisa. Aveva paura, e non capiva come facessero gli altri ad essere così tranquilli anche se pronti alla battaglia. Griša e Kim si stavano baciando sul divano, Girolamo era in piedi davanti al frigorifero a tracannare birra gelata, e Lillie stava controllando il carburante delle navette fischiettando l’inno nazionale irlandese. La vide dare un’ultima occhiata soddisfatta e poi girarsi verso di lui: «Sei bellissimo vestito così» ammiccò, facendolo gonfiare orgoglioso ma sempre molto teso.
Cinque minuti più tardi, simultaneamente, due LK e due GHG si alzarono in volo dirigendosi in quattro direzioni diverse; Haku, a bordo della Defenser, levitava intorno alla torre di controllo senza mai perdere di vista il radar: i quattro punti verdi segnalavano il perfetto funzionamento delle loro navicelle, mentre un fitto sciame di puntini rossi indicava l’attacco in arrivo. «Sono tutti missili di avanguardia» pensò, sgomento, cercando nel computer di bordo le caratteristiche degli eserciti nemici.
Lillie sfrecciava dritta verso la linea d’attacco; giunta a pochi metri dai razzi radiocomandati impennò bruscamente, facendo in modo che le fiammate dei suoi motori li facessero esplodere prima del tempo: in un attimo aveva aperto un varco, e prima che i missili potessero deviare a inseguirla piombò nel mezzo Kim, usando lo stesso metodo.
Giunsero insieme all’astronave madre, caratterizzata da una W d’oro stampigliata sul portellone, ma improvvisamente Lillie non volle più andare avanti: sembrava atterrita, non riusciva più nemmeno a muovere i comandi. «Tenete Haku lontano da qui» ordinò soltanto, rivolgendosi alla sua alleata numero uno «A quanto pare, abbiamo un irriducibile ben organizzato, stavolta».
Le radio di bordo dovevano essere disattivate prima di un attacco, in modo da non poter essere rilevate dai sistemi nemici; Girolamo e Griša, però, avevano scoperto che dall’interno delle loro GHG potevano captare tutte le stazioni del pianeta, e ora erano pacificamente sospesi a mezz’aria ascoltando l’uno un canto popolare calabrese, l’altro gli intramontabili Beatles: si guardavano attraverso il vetro della navicella, ridendo come matti.
L’urlo di Lillie invase il sistema di comunicazione interna talmente forte da lasciarli rintronati per qualche secondo: «Deficienti!!!» rimbombò loro nelle orecchie «Venite verso nord!».
Ben protetta sulla sua LK, Kim non sapeva più come fare a nascondere le risate e sperava che nessuno la chiamasse proprio in quel momento.
Haku, che gestiva il sistema centrale, era nel frattempo riuscito ad identificare la provenienza dell’attacco. Gli occhi gli divennero di colpo grigi e disperati quando lesse sullo schermo: «Proprietà di William N. 1977», e si sentì travolgere dall’onda che già una volta l’aveva distrutto. Dovette stringere i denti e conficcarsi le unghie nei palmi delle mani. «Maledizione» non faceva che ripetere, stordito «Sempre lui, sempre lui, non è finita!». Era sul punto di mollare tutto, tornare alla base e chiudersi nei suoi pensieri: «Lillie mi ha imbrogliato un’altra volta». Poteva registrare le conversazioni, forse anche intervenire, ma a che scopo? Sul monitor aveva una schermata tristemente familiare, da chat, e si costrinse a leggere pur ottenebrato dagli incubi.
W: Ciao bellissima mia…
N: Ciao mio ricordo più dolce…
G: Siamo tornati senza riuscire a dimenticarti…
F: Coalizzati contro di te che ci hai illusi tutti…
D: …e siamo venuti a cercarti tutti insieme!
Erano in cinque, vide Haku, e quello che doveva essere il comandante era la sua croce peggiore Willy. Supplichevole, cercò sul radar qualcuno che gli desse un minimo di coraggio, ma le LK erano impegnate in uno scontro feroce, e le GHG le spalleggiavano sull’altro fronte. «Sono tutti qui, loro» si diceva, fissando il nome dell’astronave madre «Almeno uno di loro riuscirà ad averla vinta anche stavolta… che ne sarà di me, dopo?». Una desolazione senza precedenti lo invase: qualunque cosa fosse successa tra lui e Lillie, era ben altra la verità. Quale grande amore aveva istigato in tutti quegli altri da indurli a confederarsi per riprenderla? Con un gemito chiuse tutte le comunicazioni aperte e si preparò a fuggire.
«Cinquantasette a quarantotto!» segnalò Girolamo, saettando tra i missili che cadevano disintegrati intorno a lui: li colpiva tutti con una precisione agghiacciante, senza mai togliere le dita dai pulsanti sul manubrio della navicella che lasciava partire scariche di raggi laser. Griša, impegnato in un altro settore, scoprendosi in svantaggio pensò bene di rimediare con l’ultima acrobazia che aveva imparato a padroneggiare: inclinò bruscamente il muso affusolato della GHG verso terra, e compì uno spettacolare giro della morte avvitandosi su se stesso, in una pioggia di razzi sbriciolati o comunque abbattuti. Era una manovra difficilissima che gli aveva insegnato Kim, e un attimo dopo infatti vide l’altra navetta compiere esattamente gli stessi gesti. «Vai, briciolina!» esultò, vedendo che tra lei e Lillie avevano lasciato indietro soltanto uno sparuto nugolo di missili «Don Santino, a noi il colpo di grazia!». Attirata l’attenzione di Girolamo, si diressero insieme verso il bersaglio, incuneandosi in una pioggia letale tra quelle armi che nulla potevano contro le tecnologie della Stella Verde.
Lillie fissava l’astronave madre con odio, calcolando mentalmente in quanti dovevano essersi annidati lì dentro, quanto potente avrebbe dovuto essere la detonazione e quanto tempo di fuga doveva dare alle sue flotte, ed era talmente concentrata che sulle prime non vide la piattaforma che scorreva fuori dal portellone con la W d’oro. Sopra c’era proprio lui, Willy, e teneva bene in vista una bandiera bianca: «Discussione!» segnalava freneticamente, forse temendo che qualche navetta potesse distruggerlo.
Vedendo il nemico da lontano, Griša era tutto emozionato: una rapidissima inversione più tardi stava già filando verso Haku, immaginando di caricarlo sulla GHG e dare a lui l’onore di fare a pezzi non solo Willy, ma magari anche tutti gli altri. La comunicazione, però, non voleva saperne di partire. «Che succede?» si chiese, impensierito «Abbiamo già vinto noi, possibile che si sia ritirato nella torre di controllo?».
Fuori, intanto, anche Lillie era approdata alla passatoia. Il nemico le si avvicinò e la abbracciò. Lei non si mosse.
Griša e Girolamo si lasciarono sfuggire una violenta imprecazione nello stesso istante. Kim, immobile, si coprì gli occhi con le mani.
Un secondo dopo Griša aveva oltrepassato il muro del suono ed era sulla rotta della torre di controllo, con il vetro abbassato per respirare l’aria bruciata. «Maledetta schifosa!» ringhiò, reso come idrofobo dall’odio: aveva la schiuma alla bocca e il respiro affannoso «E Haku dove si è cacciato?». Sul suo display lampeggiava furiosamente la chiamata delle altre navette, ma la ignorò.
Tutti avevano visto, sgomenti, il comportamento inspiegabile di Lillie, nessuno era riuscito a distogliere lo sguardo e nessuno l’aveva vista fare alcun movimento; ma quando si spostò da Willy, lui si afflosciò a terra come un sacco di vestiti vuoti e rimase immobile. Una sottile lama le baluginò stretta in pugno, ma niente splendeva più dell’ira nei suoi occhi: «Una lama avvelenata ti lascia sempre qualche ora di vita» spiegò, gettandogli qualcosa «In questa boccetta c’è l’antidoto, che ti lascio per stavolta. Se dovessi ripescarti ancora qui intorno, a far bruciare carburante a noi per le tue cretinate, ti avverto che non sarò così buona» «Ma tu eri innamorata di me!» rantolò lui, mentre sopra la scena tutti ascoltavano con il fiato sospeso.
Lillie non parlò: non era un’ipocrita che nascondeva i fatti. Ma gli sferrò un calcio in piena faccia con tutta la forza che riuscì a imprimere allo stivale chiodato, mandandolo a ruzzolare lontano in uno spruzzo di sangue. Dall’astronave madre si precipitarono fuori anche gli altri, pronti a vendicare il loro capo che era stato pure un rivale, e tutti ripetevano la stessa nenia: «E l’hai fatto credere pure a noi!».
Lei, impassibile, continuava a non rispondere. Con gesti lenti e misurati aveva imbracciato un bazooka, calcolando la potenza del rinculo rispetto alla sua distanza dal vuoto in cui rischiava di precipitare, e lo puntò al ventre dell’astronave madre. «Portatevelo via e sparite» ordinò «Sono pronta a fare fuoco». Kim si abbassò di quota e la chiamò: «Capo! Spara senza paura, nel caso dovessi perdere l’equilibrio sarò qui dietro di te».
Griša, a bordo di una navicella velocissima, non ebbe difficoltà a intercettare Haku sulla rotta di ritorno. «Lo sapevo!» sibilò, amareggiato «A quella basta vederne uno…». Dovette virare di colpo per evitare che l’amico lo speronasse, urlando con la voce ingozzata dalle lacrime: «Non ti permettere più di parlare così di lei! A quanto pare lui o qualcuno di quelli le piace ancora, può farla stare bene, ma io l’avevo preventivato e sono pronto a ritirarmi. Lasciami solo!».
Una detonazione mostruosa fece vacillare la leggera GHG, mentre la Defenser rimase stabile in quota: l’astronave madre era scomparsa dal radar, la LK di Lillie era stata ancorata al sicuro da Girolamo, e quella di Kim si stava avvicinando rapidamente.
Guardando fuori videro Lillie saldamente aggrappata agli alettoni della LK, con una cinghia di proiettili intorno al torace, il bazooka ancora fumante sulla schiena e una sigaretta tra le labbra inarcate a ghigno soddisfatto. Girolamo esultava, trainando la sua navetta: «Gioia, sei stata grandiosa! Abbiamo vinto anche stavolta! Come l’hai colpito, quello scemo… io stesso non avrei potuto fare di meglio!». Lei sorrise, felice: «Quel porco, vorrai dire! Lui e tutti gli altri sono saltati per aria, e io non vedo l’ora di raccontarlo ad Haku… e festeggiare», aggiunse maliziosamente.
Kim atterrò sulla piattaforma della torre di controllo, ma lei era già saltata giù atterrando in piedi con un’agilità felina. «Amore, sei già rientrato?» chiamò, tornando in sala comandi.
Haku e Griša erano seduti sul divano, l’uno con un’espressione disperata e l’altro schifato e furibondo. Con addosso la divisa della Stella Verde e nella penombra della sera erano assolutamente identici. «Vai, fratellino» sussurrò Griša «L’hai vista abbracciata a Willy, ora reagisci!».
«Abbracciata a Willy?!» trasalì Haku, mentre il suo dolore dilagava tutto d’un tratto «Ma io… io me ne sono andato appena ho visto chi c’era su quell’astronave!». Era così pallido da sembrare moribondo. «Si sono abbracciati…» ripeté piano, mentre tutti i suoi buoni propositi di non crollare una seconda volta finivano nel dimenticatoio.
Lillie li guardò entrambi, ma poi il suo sguardo si inchiodò in quello di rubino che la guardava con tanta sfida: «Sentiamo, cretino» ringhiò, arrotando minacciosamente le erre «Lui era troppo distante per vedere il combattimento, ma tu dovevi essere lì in zona e probabilmente appiccicato o a Kim o a Girolamo. Si può sapere perché gli hai raccontato questa porcheria? Non hai visto come sono andate le cose?». Tremava di nervoso dalla testa ai piedi, avrebbe potuto in quel momento sparargli con gioia in piena faccia e non avere né esitazioni né rimorsi. Kim la conosceva troppo bene, e prima che succedesse qualche catastrofe si fece avanti e prese per mano Griša, tirandolo verso di sé: «Tu vieni con me che ti spiego tutto» ordinò, trascinandolo fuori dalla sala.
Di nuovo come una volta, loro tre. Haku era distrutto e impaurito, ma aveva ancora la forza di guardarli implorante. Ora non assomigliava più a Girolamo, con quegli occhi grigi arrossati dalle lacrime, e Lillie avrebbe voluto solo correre da lui e stringerlo forte fino a sentirlo completamente rilassato: era dolcissimo quando faceva così. Invece riusciva solo a pensare a come dovevano essere andate le cose: Haku che capiva chi aveva di fronte e fuggiva, Griša che la vedeva tendere le braccia verso Willy e mollava la battaglia per salvare l’amico, e poi entrambi chiusi in sala comandi che parlavano e riparlavano degli spezzoni di fatto a cui avevano assistito.
Girolamo cercò di spiegarsi: «L’ha attirato in una trappola, in modo da avere lui senza difese e i portelloni dell’astronave spalancati per poter sparare col bazooka. A Willy ha tagliato la gola con una lama avvelenata, non in profondità ma abbastanza da intossicarlo, poi gli ha dato la boccetta di antidoto in modo che anche gli altri corressero a soccorrerlo. Una volta distratti, ha fatto partire una bomba incendiaria col bazooka e di quell’astronave sono rimasti solo i pezzi di lamiera. È vero, ha abbracciato Willy, ma l’ha fatto solo per un istante e solo con lo scopo di accoltellarlo». Haku lo fissava, diffidente, ma una parte di lui voleva credergli. «Sai come sono fatto io» continuò Girolamo, stavolta con un velo di malinconia «Sono molto geloso di Lillie. Ho sempre cercato di farti capire che tra tutto il mondo tollero solo te al mio posto: credi davvero che avrei potuto stare lì con le mani in mano a guardarla con un altro, e perdipiù con il tuo assassino indiretto? Se Willy o qualcuno di quelli dovesse essersi salvato, andrei io a stritolarli con le mie stesse mani».
Lillie evitava il suo sguardo, più istintivamente che con un reale rimorso, e lo spinse via borbottando: «Non torneranno. Perché non vai un po’ a giocare con Dylan? Siamo fuori da tre ore, ci starà cercando; io parlo un momento con Haku e arrivo». Al solo nome di suo figlio, lui scattò sull’attenti e corse verso la cameretta.
C’era un gran silenzio, ora. L’unica luce proveniva dallo schermo del radar, e segnalava una situazione tranquillissima in cui spiccavano solo i detriti dell’astronave distrutta.
Haku si aspettava una lite sfrenata, ma Lillie sembrava molto calma. «Hai creduto al tuo migliore amico, vero?» mormorò, leggendogli la nuova ferita nelle pupille «E questo perché sei ancora convinto che sia tutto come prima. Te l’ho sempre detto, abbiamo unito in quel periodo le due cose peggiori: le loro paroline affettuose e la tua dote innata di essere paranoico e pensare al peggio in ogni circostanza. Quando ti ho perso, il mondo mi è caduto addosso e avrei voluto raggiungerti subito, se non avessi avuto Dylan. Sono stata due mesi senza di te, davvero non volevo più vivere, e in quel periodo molte cose sono cambiate». In un vago tentativo di farlo sorridere scherzò sul nuovo stato di cose: «Griša è tornato qui, si è trovato una ragazza davvero speciale, ha vinto un glorioso scontro con Estel – che nel frattempo è rimasta sola –, ha sconfitto i Larvoniani e si è fatto amico Girolamo. Soprattutto, è riuscito a riportarti qui».
Lui ricalcò automaticamente il suo tono spiritoso, come sempre faceva verso la sua fine, produsse una discreta imitazione di sorriso divertito e depositò la debole battuta: «Oh, sì. Griša è molto cambiato. L’ho sentito parlare con Kim e Girolamo, non ho capito una sola parola, e l’altro giorno quei tre sono tornati dal supermercato con uno scontrino da sette rubli e una spesa da almeno venti». Grata per quel diversivo, lei confermò: «Sì, ha imparato tutto in un attimo. A sentirlo parlare o a vederlo sgraffignare qualcosa, quando si mette d’impegno con loro, sembra proprio uno zingaro. Però ha imparato anche cose utili: hai visto come guida quelle navicelle?». Pensando a Griša si innervosì di nuovo e sbottò: «È anche diventato veramente odioso. A che scopo raccontarti quella bestialità su Willy? È corso via subito, evidentemente non vedeva l’ora di raccontartelo, ma non capisco il motivo di tanta gratuita cattiveria!».
«Griša è per natura cattivello» rispose Haku, leggero «Però ha una dote: è sincero, onesto e leale, almeno con chi ha la sua fiducia. Lillie, quando sono tornato avevo già preventivato di prendermi ancora molte batoste: non devi giustificarti con me o indurre altri a reggerti il gioco. Tu sei libera di andare con chi ritieni ti possa rendere più felice!».
Lillie non era una ragazza paziente, e già prima aveva esaurito tutte le sue scorte di sopportazione. La delusione di vedere che colui che amava non le credeva, che la reputava una dea di dominio pubblico, le fece perdere il controllo. «Tu, invece, non cambierai mai» sibilò, infuocata «Preferisci credere a tutte le bugie che senti sul mio conto piuttosto che fidarti di me!» «E come faccio a fidarmi di te» esplose lui, prima di potersi frenare «Se per mesi mi hai trattato peggio del tuo cane per non perdere nemmeno una parola dei tuoi innamorati? Sono tornato da pochi giorni, non ho mai smesso di amarti e tu sei riuscita a farmi sentire in un attimo il prediletto del club degli spasimanti: e se fosse solo un’altra illusione? Ho calcolato che mi avresti fatto passare ancora tanti dispiaceri con loro, ma ho trovato la forza di andare avanti con un pensiero: l’autoconvincimento di non aver mai significato nulla per te».
Lei si bloccò, addolorata e furibonda allo stesso tempo. Avrebbe voluto prenderlo a sberle per tante crudeltà, e anche zittirlo con un bacio. Anche lei era cambiata in quei due mesi, e molto. Alla luce dei ricordi si rendeva conto di avergli fatto un male d’inferno, lo sapeva e al solo pensiero soffriva; ma perché rivangare ossessivamente quel passato? Tutto ciò che desiderava era recuperare il tempo perduto senza pensarci su. «Sei tu l’unico in grado di farmi stare bene» mormorò, ferita, voltandogli le spalle e uscendo «Anche se forse non lo capirai mai».
Fino all’ora di cena non si videro più, fissi nelle due stanze più distanti della casa. Girolamo era riuscito a convincere Griša di come si erano svolti i fatti, ma Haku era irraggiungibile chiuso in sala comandi a studiare le mappe dell’universo, e non si fece vedere nemmeno per mangiare.
Lillie salì da lui dopo cena, portandogli un piatto di carne e verdure, e glielo posò davanti dandogli un bacio sulla fronte. «Ti è passata?» stava per chiedergli, ma le parole le rimasero congelate in gola, troppo tenere per il suo carattere. Haku, ancora molto giù di corda, le appoggiò impercettibilmente la testa sul petto e socchiuse gli occhi sotto una carezza: aveva uno sguardo di una tristezza infinita, ma si sforzava di rimanere concentrato sulle carte stellari.
«Qui c’è un errore» indicò lei, sporgendosi in avanti a digitare la correzione sulla tastiera. Aveva ancora la giacca da guerra addosso, abbottonata fino in fondo, ma si era tolta la bandana: dalla scollatura le scivolò un ciondolo, che luccicò brevemente proprio davanti agli occhi mesti che osservavano la revisione. Era una specie di sole, nel cui centro era incastonata una pietruzza verdeazzurra: il simbolo celtico per “amore”. E gliel’aveva regalata lui, ormai un anno prima.
Cogliendo la direzione dei suoi occhi, Lillie si rimise a posto frettolosamente la collana, ma un commento le sfuggì dalle labbra: «Non l’ho mai tolta, da quando tu me l’hai messa».
Al diavolo il computer! Haku si alzò in piedi, spostandola dallo schermo, e la abbracciò senza dire una parola: tanto, non sarebbe servito. Ora capiva cosa intendeva Griša dicendo di non essere in grado di descrivere i suoi sentimenti per Kim.
Indugiò per un po’ sul lucido metallo dei bottoni, prima di slacciarle la giacca mimetica: lui la sua l’aveva appesa allo schienale della sedia, e sotto entrambi avevano una maglietta aderente nera. Sul nero, il ciondolo celtico spiccava nitido.
Lillie sgusciò fuori dalla giacca e si lasciò circondare da un caldo e timido abbraccio. Entrambi ascoltavano il reciproco silenzio, avrebbero potuto rimanere così per chissà quanto, ma poi Haku si lasciò sprofondare sul divano tirandola con sé in un bacio ancora un po’ incerto.
«Scusa» dissero nello stesso istante, rompendo il silenzio. Ecco un altro di quei momenti in cui le parole apparivano banali.
Poi non ci fu più nient’altro che un dolcissimo silenzio.

* * *

La Stella Verde ormai era però solo un ricordo. Troppe tensioni al suo interno, la vita si stava facendo sempre più complicata, e negli ultimi giorni Lillie e Kim avevano messo a punto una sofferta strategia per evitare le battaglie sempre più frequenti e pericolose: scomparire. Andare via, per sempre. Kim era tra loro sempre più di rado, sempre occupata nella ricerca di un avamposto affidabile su cui stabilirsi, e parlare con Lillie si rivelava un’impresa impossibile: poche parole, e poi qualsiasi discorso sfociava in nevrotici battibecchi. Nessuno potava più fare nulla, e sembrava che ogni cosa avesse perso il suo senso.
La squadra scelta dell'esercito di Lillie, che sembrava la quintessenza della perfezione disegnata nel modo più spiritoso possibile, si era disgregata dopo la conferma della notizia spaventosa secondo la quale Lillie e Kim sarebbero presto partite per sempre senza mai più fare ritorno. Gli altri tre, combattuti tra una rabbia impotente e una feroce disperazione, avevano reagito in modi diversi ma in fondo simili: Griša era diventato spietato nel suo sarcasmo, Haku vagava come un fantasma sfinito dalle lacrime e in un attimo il nome di Girolamo aveva ricominciato ad affiorare nei discorsi timorosi della gente del Bronx. Era finito anche il tempo di organizzare le loro missioni ridendo e scherzando: tutti portavano a termine i loro ultimi compiti da soli e senza nemmeno aprire bocca.
Haku non era mai stato capace di mascherare il dolore, e non era raro vederlo appollaiato da qualche parte con gli occhi spalancati e un rigagnolo di lacrime fino al mento. Non faceva più nemmeno lo sforzo di asciugarsi le guance, tant'è che quel pomeriggio, quando Kim entrò tutta seria nella sala comune, soltanto vedendolo in quelle condizioni dovette guardare altrove. Anche Griša aveva distolto lo sguardo: era un'inutile tortura vedere Kim così demoralizzata e sapere che ogni giorno poteva essere l'ultimo. Una storia con finale programmato, stare insieme con una data di scadenza: che schifo. Un nodo amaro gli troncò il respiro per un attimo, ma fu abbastanza rapido da ingoiarlo senza farsi notare. Girolamo, sprofondato con aria assente sul divano, teneva gli occhi inchiodati allo schermo della televisione senza seguire il film. Mosse solo una mano, distrattamente, per pulirsi le narici da eventuali residui bianchi.
Era tutto talmente stanco e deprimente che anche l'amore non trovava più posto tra loro. Kim accese il computer e Griša non si spostò dal suo cantuccio: non ricordava nemmeno più quando si erano dati l'ultimo bacio, e non era il caso di chiederlo in quella situazione.
Improvvisamente, nel cupo silenzio scandito dalla musica stupidamente allegra della pubblicità in televisione, Haku si alzò rovesciando una bottiglia vuota; una reazione così era stranissima da parte sua, e tutti lo guardarono con aria interrogativa. «La fermerò a qualunque costo» promise, con uno sguardo pazzo che non piacque a nessuno. «Auguri» fecero Griša e Girolamo ad una voce sola: sembrava che a loro non importasse più niente.
Kim gli tagliò la strada, facendolo trasalire: «Non servirebbe a niente. Ha tutte le ragioni per andare via da qui, e per quanto straziante è una decisione ben pensata» «Ma non può lasciarmi di nuovo!» riuscì solo a gemere lui. «Non può sabotare la nostra storia, briciolina» ringhiò Griša «Anche se l'ha già fatto». Anche Girolamo volle dire la sua: «Non può portare via nostro figlio» biascicò, per quanto poco potesse sembrare paterno in quelle condizioni.
Vedendo quel fronte unico reso forte soltanto da equivoci, Kim non poté fare altro che zittirli tutti con un cenno. «Vi spiegherò tutto» sussurrò «Haku, vai a sederti con loro: più che convincere Lillie a restare qui, ora come ora potresti solo indurla a partire subito pur di non vederti stare così male». Aveva cercato di asciugargli le lacrime, ma lui si era ritratto imbarazzato: la sua fama di intoccabile paranoico non era stata smentita.
Quando finì le spiegazioni, tra i tre nemmeno uno trovò le parole adatte a controbattere. Nella sala c'era un triste silenzio da funerale. Griša fu sul punto di tendere le braccia verso di lei e annegare le lacrime in un abbraccio: si rese conto di colpo che non sarebbe servito a nulla.
Fuori dalla porta, Lillie si accasciò contro il muro con un unico singhiozzo doloroso: se prima la decisione era ardua, ora le appariva ancora più pesante. Immaginò la caserma vuota, loro tre allo sbando dopo essere stati veramente bene, e stava ancora pensando quando udì qualcuno gridare di dolore: un attimo dopo aveva spalancato la porta, e la scena apocalittica che le si presentò davanti come su un palcoscenico ebbe il potere di colpirla fino in fondo.
Haku, livido di rabbia disperata e indistinguibile da Girolamo in quella prospettiva, si stava pulendo una bava di sangue dalla bocca ma sembrava pronto ad attaccare con tutta la sua potenza. Griša aveva le nocche della mano sinistra macchiate di rosso, aveva ancora il pugno proteso e gli occhi sfavillanti di ira senza speranza. Kim, in mezzo a loro, li aveva divisi con l'aiuto svogliato di Girolamo. «Tu non vai da nessuna parte!» soffiò Griša, immobile solo perché Kim gli teneva una mano sul braccio «Se ne andrà comunque, e andando a singhiozzarle davanti non sarai certo tu a cambiare il destino... stupido!». Haku era bloccato da Girolamo, ma si dimenava come in preda ad una crisi epilettica, e ruggiva: «Sì, invece! Siete voi che non l'avete mai capita! Tu in particolare sei sempre stato crudele con lei: cosa vuoi saperne?».
C'era una gran confusione, ma l'urlo di Lillie riuscì a sovrastare la zuffa: «BASTA!», echeggiò per tutta la caserma. Si fiondò come una scheggia su Haku e lo colpì con tutte le sue forze, mandandolo a sbattere contro il muro: «Cosa vuoi capire, tu? Tu non sai fare altro che supplicarmi di rimanere qui pensando ai tuoi interessi!».
Attonito, Haku non reagì più: rannicchiato su se stesso, troppo stupefatto, si limitava a proteggersi la testa da quella furia. Perdeva sangue da un labbro, ma la goccia calda che gli piovve sulla mano era trasparente. Lillie stava forse piangendo? Impossibile dirlo, dietro il sipario dei lisci capelli rossi. «Lo capisci» sibilò lei impercettibilmente «Lo capisci che con queste scenate mi fai stare solo peggio?». Senza dargli il tempo di rispondere fece voltafaccia e corse via: nessuno cercò di fermarla, e perfino Kim aspettò qualche lungo secondo prima di seguirla.
Girolamo soccorse il ferito, ancora allucinato dopo lo spettacolo a cui aveva assistito: Haku, con la testa abbandonata contro una sua spalla, si asciugò il sangue dalla bocca e non guardò in faccia nessuno, come se non li vedesse. Pensieroso, Griša si leccò via le tracce dalla mano: le sue meditazioni erano impenetrabili. Era rimasto scioccato dal comportamento di Lillie: davvero stava così male? La sua solida convinzione che lei non amasse veramente Haku vacillò: forse gli voleva bene sul serio, e soffriva quasi quanto loro per l'imminente partenza.
Fino a sera rimasero lì in silenzio, ciascuno concentrato sulle sue occupazioni: le parole non sarebbero comunque servite a nulla, erano già ridotti a tristi pagliacci inutili. Griša si avvicinò furtivamente a Kim e le fece una lunga carezza sulla nuca; lei, anche se solo per un istante, gli sfiorò la mano con gli occhi lucidi di rimpianti... ma non commentò. Girolamo, altrettanto circospetto, stringeva in mano una foto di Dylan: era ben consapevole di non essere in grado di occuparsi di lui, non ne avrebbe avuto i mezzi in ogni caso, e Lillie era una mamma modello. La cosa migliore che lui come padre poteva fare era lasciarli andare, se era proprio così necessario.
Soltanto Haku, contrariamente al suo stile, non voleva saperne di arrendersi: macinava la stanza ad ampi passi, scervellandosi su un qualsiasi modo di uscirne. Lillie aveva bisogno di un lavoro redditizio, le spese militari erano davvero enormi, e al contempo non poteva rischiare che qualcuno la identificasse: era una terrorista che non aveva mai fallito un solo colpo, nessuno conosceva il suo nome ma qualcuno avrebbe potuto riconoscerla e schedarla. La Stella Verde, se ancora resisteva, era ugualmente in pericolo.
All'ora della passeggiata col cane uscì e andò spedito verso la stanza di Lillie, come aveva sempre fatto: non nominò nemmeno lo spiacevole momento da incubo della giornata e si lanciò in una debole imitazione delle battute irresistibili di Griša. Erano sorrisi tristi i suoi, velati dalla paura di quello che la sua amata poteva fare, ma per la prima volta in vita sua non si sentiva una vittima e non voleva arrendersi: se Lillie, spronandoli nel corso di un attacco, aveva sempre gridato: «Lottate fino alla fine!», lui aveva assimilato perfettamente l'ordine ed era pronto ad eseguirlo.
Era sul punto di iniziare un monologo, quando Lillie lo prese per mano intrecciando forte le dita e la parola gli morì in gola, soffocata dallo stupore: ricordava solo altre tre occasioni del genere, tutte estremamente remote. «Ho preso la mia decisione» esordì lei, guardando verso la fine del lungo viale illuminato a tratti dai lampioni «È una scelta di vita quella che ho fatto oggi, una scelta definitiva sulla quale non intendo ponderare oltre». Haku deglutì, contraendo involontariamente le dita nell'attesa della scudisciata... che non arrivò: «Dylan non può stare senza di me». «Ma allora che differenza fa?» gli sfuggì, aggrappandosi al contatto delle dita di Lillie tra le sue «Lo porteresti comunque con te, dovunque tu voglia andare. Spezzeresti il cuore soltanto a noi che rimarremo qui senza sapere più niente». Non stava criticando: era soltanto molto, molto avvilito.
Lei continuò come se nemmeno l'avesse sentito: «Se lo lasciassi qui, con mia madre, lui inizierebbe a chiederle dove sono io, e questo non lo sopporterei: amo troppo mio figlio per fargli questo e per stare senza di lui. E poi, hai visto quanto si è affezionato anche a tutti voi? Sarebbe un trauma, per lui, andare così allo sbaraglio. Non posso andare via, ecco tutto, e da domani inizierò a cercare un lavoro tranquillo qui in zona».
Haku non ci credeva. Aveva capito male, ecco tutto, desiderava così tanto frasi del genere da essersele immaginate. Nel suo temporale privato non c'erano spazi per i raggi di sole, ne era sicuro. Annuì malinconicamente. Lillie osservò a lungo Dylan, che mangiava un ghiacciolo rannicchiato sul suo passeggino prima di addormentarsi, e poi ancorò gli occhi nei due cristalli verdi che la studiavano feriti. «Resto qui per lui» sorrise «Ma resto qui anche per te».
Lui scosse la testa, incredulo: se era un'allucinazione non voleva più tornare in sé. Era rarissimo vederla serena, ancora più difficile conoscere la sua insospettabile dolcezza, e invece ora ne aveva una prova lampante. Temeva di irritarla e rovinare tutto cercando di abbracciarla, ma si convinse che tutta la sua paura era solo un'illusione malata: e così, quando la ebbe così vicina, le diede un tenero bacio mormorando soltanto una sola parola commossa: «Grazie».
Di ritorno alla loro base si tenevano abbracciati, e risero delle occhiate perplesse di tutti. Anche in quel caso non sarebbero servite le parole: bastava vedere gli occhi adoranti e sfavillanti di gioia che aveva Haku. «Tutti lì ad ammuffire sul divano?» esclamò Lillie con una ritrovata vivacità «A letto, subito! Domattina dobbiamo lavare e tirare a lucido le navette, tutte quante, e ne avremo per un bel po'! Anzi, Griša e Girolamo, voi due avrete più lavoro di noi perché la vostra ridicola Starship 17 è inutilmente grande e pesante!».
Kim le corse incontro e la abbracciò, raggiante, seguita a ruota anche da Girolamo: in quel quadruplo abbraccio di alleanza ma soprattutto di incrollabile amicizia, soltanto Griša ebbe qualche esitazione, ma ormai era fatta: aveva in un colpo rivalutato Lillie da zero. Con qualche passo cauto la raggiunse, le fu di nuovo vicino come nella strana notte del funerale di Haku, e si rannicchiò tra tutti gli altri bisbigliandole all'orecchio, troppo orgoglioso per farsi sentire dai compagni: «Sono veramente fiero di averti come comandante». Lei gli scompigliò rudemente i capelli, ma le brillavano ancora gli occhi.

* * *

Le ore di solitudine che Griša sempre più spesso trascorreva a Domland stavano cominciando, però, a far vedere il loro effetto. Il pensiero di Kim, ogni giorno più lontana, a volte lo aggrediva con una violenza inusitata, spesso trascinandolo con sé in deliri concreti come allucinazioni. Aveva il suo rimedio, anche se dubitava che avrebbe potuto servirgli ancora per molto: scrivere racconti. E fu proprio in un lungo giorno solitario e nebbioso che, con Haku e Lillie fuori insieme (non certo come due fidanzati, ormai) e Girolamo a zonzo con i suoi amici, lui decise di rimanere a casa e si mise a scrivere.
Dopo la torrida estate appena trascorsa, la prima brezza dell’autunno cominciava a farsi sentire già prima del tramonto, spazzando gli alberi che cominciavano ad ingiallire e facendo crepitare le spighe tagliate nei campi. I raccolti erano già quasi finiti, le ultime casse di mele sobbalzavano a bordo dei camion che le avrebbero portate a vendere, e tra i filari che anche per quella stagione avevano dato tutto già veleggiava la nebbiolina dei fossi. Era venerdì, l’ultimo venerdì di lavoro in campagna prima della morsa dell’inverno russo, era già tempo di esami all’università…
…eppure Griša ancora indugiava, protetto dai rami dei meli, accovacciato su una cassetta di legno. Guardava senza vederli i campi seminascosti dalla nebbia, i covoni di fieno allineati simili a lapidi, i frutti acerbi che erano caduti e marciti sull’orlo del fosso. Aveva il trattore lì vicino, poteva in qualsiasi momento salire e guidarlo fino alla casa del padrone, e anzi avrebbe dovuto farlo dato che gli altri dovevano essere già lì che lo aspettavano, eppure indugiava ancora. L’umidità della sera gli faceva bruciare i sottili tagli che si era procurato staccando la frutta, aveva ancora al collo la bandana per fermare il sudore e le ginocchia incrostate di terriccio e pezzi di corteccia, ma non se la sentiva nemmeno di alzarsi per una lunga doccia ristoratrice. La stanchezza che gli faceva tremare le gambe era l’unico rimedio che conosceva per allontanare quell’atroce dolore al quale già sapeva di non poter resistere: quale altra soluzione c’era di fronte all’incubo che l’aveva devastato? Perfino lo zoccolo duro dei suoi nemici da sempre, ora guidati da Estel che sembrava essersi ripresa grazie alla cerchia dei vecchi tempi, si era impietosito comprendendo la profondità della sua disgrazia: era stata Estel stessa, una sera, a raggiungerlo a Domland per offrirgli una fetta di torta fatta in casa. Non aveva secondi fini: non voleva né godere della sua sofferenza, né trascinarlo tra le lenzuola, né iniziare una nuova lite approfittando del suo dolore. Sincera, ammutolita davanti a quella catastrofe, era stata in grado solo di lasciargli in mano il sacchetto con la torta e mormorare goffamente: «Non ti fa bene stare qui a pensare. Se e quando vorrai uscire con tutti noi come una volta, siamo tutti qui, anche se ora non ti fidi o non te la senti».
Ma lui, niente: voleva stare da solo, lavorando dall’alba al tramonto nei campi, e tollerava unicamente la compagnia della sola persona che poteva capirlo. Paradossalmente, proprio Girolamo si era ritrovato di colpo nella sua stessa situazione, e avevano trovato una reciproca consolazione nel vedersi capiti l’un l’altro.
Da quando Lillie e Kim se ne erano andate senza lasciare alcuna traccia, entrambi si erano ritrovati come sospesi nel vuoto, mentre qualcosa di gelido e infinito mandava in frantumi tutto il loro mondo. Girolamo era rimasto ubriaco e pieno di droga per una settimana, girando per Pietroburgo ululando il suo male e fracassando a pugni tutto quello che incontrava, e solo l’intervento di uno squadrone di poliziotti era riuscito a bloccarlo e portarlo dietro le sbarre. Griša, invece, dopo una notte folle della quale ricordava solo di aver bevuto e inghiottito tutto ciò che gli capitava a tiro, si era chiuso nel mutismo e stava sotto il sole della campagna fino a cadere privo di sensi sul ferro arroventato del carro della frutta. Erano inavvicinabili, e solo per un fortuito caso si erano incrociati lungo i binari del treno, in un’umida notte di nebbia, con chissà quali intenzioni in mente. Era bastato uno sguardo per rivelarsi tutto, e con un ringhio strozzato erano crollati sui ciottoli aguzzi delle rotaie, ricacciando indietro le lacrime senza però riuscirci.
Da allora non avevano parlato molto dell’accaduto: stavano insieme anche per notti intere, a girovagare senza meta per i luoghi più carichi di ricordi, e non avevano bisogno di additarseli per farsi riemergere dalla memoria le immagini dei momenti trascorsi con loro. La battaglia contro gli zombie, le passeggiate alla sera con qualsiasi tempo chiacchierando di tutto e di niente, la discarica in cui avevano costruito la Starship 17, il primo e ultimo volo con quella navicella, gli spiazzi dietro i supermercati in cui avevano imparato a pilotare le prestigiose LK dell’esercito di Lillie…
E ora non avevano più niente. Girolamo era grande e forte, abituato a soffrire e sfogare la sua sofferenza, e prima o poi sarebbe riuscito a cavarsela ancora una volta, ma Griša no. Si era creato qualcosa di troppo speciale tra lui e Kim per potersi rassegnare ad andare avanti sperando in un suo impossibile ritorno. Haku, il povero Haku, era stato più fortunato di lui: Lillie era stata sul punto di partire già un’altra volta, prima, ma lui era in chissà che modo riuscito a fermarla; ora però non era più lì, e la situazione era finita fuori controllo senza incontrare alcun ostacolo.
«Kim» sussurrò, appoggiando la fronte sul bordo freddo del trattore, ma non ebbe la forza di dire altro. Con la stanca rassegnazione determinata con cui si sforzava di tirare avanti sperando in fondo che qualcosa cambiasse, salì sul trattore e lo mise in moto. Non stava piangendo, eppure a ogni sobbalzo del terreno gli sfuggiva un singhiozzo, e lacrime calde e incessanti gli scorrevano come rigagnoli lungo le guance bruciate dal sole. Gemette quando attraversò il lungo filare di pere: aveva lavorato lì con Kim, quell’estate, e proprio in mezzo a quelle frasche l’aveva colta di sorpresa con un bacio. Il ricordo sembrava ancora così vivido da farlo sorridere tra le lacrime: lei che lo abbracciava stretto, tirandolo nell’oblio dei suoi baci incredibili, e lui che – sempre con quella costante inquietudine di ritrovarsi solo – si rannicchiava con la testa su una sua spalla e mormorava: «Non mi abbandonare mai». Quella sera si erano addormentati insieme, e svegliandosi nel cuore della notte avevano fatto silenziosamente l’amore, ed era stato tutto dolcissimo: non era possibile, ora, avere perso tutto così all’improvviso!
Girolamo lo aspettava in macchina, e il commento «Pensavo fossi tornato a Domland a piedi» gli morì in gola solo guardandolo negli occhi. «Sali» si limitò a dirgli, burbero «Stasera dobbiamo suonare come se loro fossero ancora qui». Griša fece un sorriso mesto, ma non gli uscì alcuna risposta e tornò ad accasciarsi contro il sedile, con l’ampio cappello di paglia che gli copriva gli occhi; niente però poteva nascondere i due solchi paralleli che le lacrime avevano tracciato sulla pelle impolverata.
Un mese intero senza notizie, senza un saluto, privo di tutto: doveva essere successo qualcosa di terribile per indurre Lillie a sparire così e Kim a non dare nemmeno un segno, e l’angoscia delle ipotesi era una tortura senza risposte.
Quando la paura, la disperazione e la nostalgia picchiavano più forte, Griša correva fuori da Domland e si addentrava nei boschi della Neva urlando e chiedendo aiuto al vuoto: sembrava pazzo in quei momenti, e forse lo stava diventando, ma era meglio vederlo così piuttosto che con quello sguardo lontano e il corpo inerte come se fosse già morto, perché assomigliava spaventosamente ad Haku alla fine dei suoi giorni. Non era tipo da uccidersi, lui, ma si stava lentamente lasciando andare.
Quando salì sul palco, con il logo dei Sintonia che splendeva proiettato dietro di loro, non udì nemmeno il boato del pubblico: a cosa gli servivano la fama, i concerti e tutto il resto senza Kim? Soltanto due giorni prima di perderla le aveva chiesto, rapito nei suoi occhi: «Come si può provare qualcosa di simile per una persona? È troppo poco dire “amore”! Tu sei il mio indescrivibile infinito che rende nullo il significato di quella parola: come può esistere questo sentimento che non può nemmeno essere descritto?». Lei era ammutolita, e solo con un bacio aveva saputo rispondergli.
Già, i loro baci interminabili, quando lui le si abbandonava senza fiato con la testa sul petto, e lei gli accarezzava i capelli rassicurandolo come si fa con un bambino che ha avuto un incubo: «Non devi pensare mai alla parola “fine”, perché per noi non esisterà mai». Solo al pensiero Griša si sentì venir meno, abbagliato dalle luci del palcoscenico. Muoveva istintivamente le dita sulle corde della chitarra, seguendo senza rendersi conto della musica il ritmo che Dimitri scandiva con la batteria spalleggiato dalla chitarra di Andrej. Di fianco a lui Girolamo lasciava vibrare l’eco del suo basso come se dovesse far giungere le note oltre l’atmosfera terrestre, su qualche pianeta senza nome o dal nome pittoresco come Stella Verde…
Stavano cantando a due voci, e simultaneamente improvvisarono sulla musica un testo dolcissimo fatto di strofe alternate e un ritornello triste come l’ululato di un randagio in una notte invernale. E cantavano ad occhi chiusi, con minuscole perle salate che oscillavano sulle ciglia ma la voce perfettamente stabile. «Ti aspetterò, amore mio…».
I Sintonia erano famosi, l’antica compagnia di Griša ne gestiva addirittura una sorta di fan club, e quasi tutti nel pubblico erano a conoscenza della disavventura capitata a due dei componenti del gruppo: di fronte a quella palese improvvisazione, tanto genuina quanto straziante, molti si nascosero il viso tra le mani commentando tra loro: «È troppo, è troppo, è bellissimo e atroce nello stesso tempo».
Girolamo aprì gli occhi e guardò la piazza gremita di gente, i riflettori colorati, qualche occhiata adorante rivolta anche a lui: a lui, che fino a qualche anno prima veniva squadrato con paura e sospetto, il cui solo nome bastava a intimidire chiunque; eccolo lì ora, sul palco, con una band impeccabile e tanta strada ancora da fare insieme. Non avrebbe mai dimenticato Lillie, mai, ma… la vita per lui continuava.
Anche Griša guardava nella stessa direzione, ma per lui il palcoscenico e la musica erano stati da sempre la normalità: sapeva benissimo che la fama e il denaro non contavano niente senza Kim. Nulla importava, nulla aveva senso, se non quanto lei gli mancava e quanto male si sentiva sempre. Avrebbe voluto lasciare cadere tutto e scappare via, non importa dove, via per sempre da quei ricordi e quella nostalgia insopportabile. Mai in vita sua aveva provato un amore così grande.
Alla fine del brano impugnò il microfono e, sordo agli applausi, vi gridò dentro con quanto fiato aveva in gola: «Ti amerò per sempre, zingarella, dovunque tu sia… buona fortuna, amore mio!». Ora sì che aveva la voce rotta, e non per aver cantato per ore. Passò con naturalezza e con una certa aria di sfida a quell’altra lingua, ben più anonima dell’inglese e del russo, e urlò rivolto al cielo: «Non mi dimenticare mai, perché sono certo che un giorno in qualche altro luogo riusciremo a ritrovarci! Non voglio credere che tu mi abbia abbandonato così, non può essere vero, aspettami e prima o poi torneremo insieme!». Rauco, senza fiato, con le dita che tremavano intorno al microfono, crollò in ginocchio con una sorda imprecazione e per quella che parve un’eternità non si mosse. Soltanto i Sintonia, intorno a lui, capivano la parola che ripeteva di continuo come un mantra: «Ritorna… ritorna… ritorna…».
A chi può dire di esserci stato questa scena sembrerà descritta in modo anonimo e banale, ma quali parole possono descrivere appieno quanto successe in quel momento?
Quando Griša rialzò la testa il pubblico era strappato in due metà. E in mezzo correva Kim, con la lunga gonna a fiori e i capelli che le svolazzavano nell’aria di settembre, una riga bagnata lungo le guance e un sorriso strano che lasciava trapelare lo stesso dolore che Griša stava provando.
La vide aggrapparsi al bordo del palco, lei così piccola e magra che aveva sfondato il cordone di stupefatte guardie del corpo, e come in un sogno le strinse le mani aiutandola ad arrampicarsi. Era svenuto di nuovo? Stava sognando? Era morto e quello era un insolito paradiso non tradizionale?
Kim era di nuovo di fronte a lui, come se non se ne fosse mai andata, e sulla piazza era caduto un silenzio più forte della musica e delle ovazioni che c’erano state prima. Griša la fissava negli occhi, incantato, tremando al contatto di quelle dita sottili che gli accarezzavano i capelli, le guance scavate, le labbra. Aveva paura di sfiorarla e vederla scomparire. «Sono qui» le lesse sulle labbra sempre più vicine «Basta, adesso, non dire niente: sono qui».
Quel corpo esile accostato al suo gli fece mancare il respiro per un momento. La abbracciò cautamente, senza riuscire a recuperare la lucidità: stava peggio di prima, era terrorizzato all’idea di svegliarsi all’improvviso tragicamente solo, e nello stesso tempo rimaneva immobile con gli occhi sbarrati senza cercare di svegliarsi.
Vide Lillie in fondo alla folla, con un’espressione un po’ sarcastica e un po’ commossa. Teneva Dylan in braccio ed era appoggiata alla macchina carica di valigie. «Casa» disse nitidamente Dylan nell’innaturale silenzio.
Girolamo si sentì piegare le ginocchia, e come per la supplica silenziosa di Griša solo i Sintonia lo udirono gemere: «Mio figlio». Voleva bene a Lillie, un bene sconfinato, ma realizzò di non essere più innamorato di lei per non doverla costringere a stare con lui per forza. «Sono cambiato, gioia, te lo voglio dimostrare» disse con un filo di voce. Il suo amore era lì in fondo, Dylan che tendeva le braccine verso di lui, e Lillie lo mise a terra incoraggiandolo con una carezza sui corti capelli dritti in testa: «Corri da papà».
Girolamo non diede tempo a suo figlio di percorrere i primi metri: si gettò giù dal palco e lo strinse forte tra le braccia, affondandogli il viso nella morbida tutina che profumava ancora di bucato e di casa. «Casa» ripeté Dylan, frastornato dalla folla e dalle luci.
«Siamo a casa» sussurrò Kim «Non siamo riuscite a stare distanti. Senza di te, io non ce la faccio».
Ancora muto, Griša non voleva saperne di muovere un solo muscolo: la teneva abbracciata, con la testa su una sua spalla, respirando il profumo familiare dei soffici capelli che come fili di seta gli scivolavano sulle dita. Lei gli accarezzava la schiena, bisbigliandogli sul collo tutte le parole incoraggianti che le venivano in mente, ascoltando il suo respiro rantolante di disillusione e di emozione. «Sono stata malissimo anch’io» confessò, parlando ancora più piano «E ora ho bisogno solo di te». Le parole non volevano saperne di sgelarglisi in gola, e lui non riuscì a risponderle. Sembrava un cieco che cerca di capire i lineamenti di una persona sfiorandole il volto con la punta delle dita, e non appena le loro labbra si sfiorarono si sentì mancare. Kim lo sorresse, scivolando a terra con lui, e finirono appoggiati all’amplificatore. Forse fu quel contatto a svegliare Griša dal suo torpore incredulo: le mise una mano incerta sulla nuca, e balbettò: «Resta qui ora, ti prego».
Come quell’altra volta in cui le parole non sarebbero servite a niente, lei annullò l’ultima distanza che ancora c’era tra di loro, sprofondando e trascinandolo in un lentissimo bacio che voleva riscoprire tutto della loro storia.
Il pubblico esplose in uno scroscio di applausi. Ora tutti avevano gli occhi lucidi, i più sventolavano fazzolettini di carta dappertutto: erano partiti per sentire i Sintonia e si erano trovati di fronte ad un avvenimento che poco aveva da invidiare ad un miracolo. Certe cose non possono succedere nella realtà… tranne nei casi eccezionali in cui la realtà appare sfaccettata e colorata dalle lenti policrome del caleidoscopio della fantasia.

* * *

Griša si era addormentato con la testa sulla scrivania, come un bambino che ha studiato fino a tarda notte. Tra le dita della mano sinistra aveva ancora la penna, ma aveva già finito di scrivere quando il sonno l’aveva preso con sé. Il foglio su cui aveva scritto, una normale pagina di quaderno a quadretti, era sciupato e spiegazzato in fondo, come se qualche lacrima fosse caduta sulla carta… ma Griša non piangeva mai, nessuno da dopo Estel poteva raccontare di averlo visto in lacrime.
Haku gli appoggiò una mano sulla schiena curvata sul tavolo per svegliarlo, ma all’ultimo momento la curiosità ebbe la meglio: gli sfilò le pagine da sotto il viso e lesse attentamente tutto il racconto.
Innegabilmente, Griša aveva più talento di lui come scrittore, ma Haku non se ne ebbe a male. In tanti anni aveva imparato a leggere tra le righe del suo amico scrittore, interpretando quasi tutti i reali significati di ogni frase, e la prima cosa che notò fu il diffuso senso di disilluso malessere che pervadeva tutti i fogli. «Io sono stato più fortunato, secondo lui» pensò, spaventato «Non è tipo da fare atti estremi come togliersi la vita, ma sta arrivando al punto di invidiarmi per quello che è successo. Sta rapidamente perdendo le speranze, e io sono certo di non averlo mai visto così».
In punta di piedi, per non disturbarlo, si sedette al computer sull’altra scrivania: Griša era andato avanti a scrivere il suo libro abbandonato, Il castello di sabbia, e da allora avevano proseguito insieme, scrivendo capitoli alla rinfusa che poi assemblavano, dando al racconto l’aspetto ormai evidente di un vero libro. Nessuno dei due aveva mai scritto tanto a lungo.
Haku sorrise, di fronte allo spropositato numero di pagine che scorrevano sul monitor, e stava per mettersi a scrivere un po’ quando scoprì di non avere la minima ispirazione. Era demoralizzato, erano passate ormai tre settimane da quando Lillie gli aveva concesso l’ultimo bacio, e a inasprire ulteriormente la difficoltà del loro rapporto si era aggiunto anche un altro problema, che aveva tutta l’aria di essere insormontabile.
Il problema si chiamava Mary ed era una loro comune amica dei tempi delle superiori: per tutto un anno era stata lontana da San Pietroburgo, frequentando l’università di Mosca, e ora che aveva completato il ciclo di studi era tornata a casa. Per Haku e Lillie i momenti appartati erano crudelmente rari in quell’ultimo periodo: c’erano i corsi all’università, lei aveva trovato lavoro in un’anonima e insospettabile ditta di pulizie, e l’unica mezz’ora in cui lui poteva sperare di strapparle almeno un abbraccio era la passeggiata serale col cane. Mezz’ora che ormai si era estesa, a volte erano anche due ore… ma Mary era sempre con loro, onnipresente, e in sua presenza lui, in un tragicomico capovolgimento di ruoli, doveva fingere di essere Griša: Mary non sapeva nulla degli avvenimenti estivi, e come se non bastasse poteva diventare estremamente pericolosa. Più di un anno fa, agli albori della storia di Haku e Lillie, lei e Moonlight si erano coalizzati per cercare di dividerli in qualsiasi modo possibile… e c’erano quasi riusciti. Meglio non rischiare una seconda volta.
Con un gran sospiro, Haku si strofinò gli occhi. Mary e Lillie erano ancora in giro a chiacchierare, quella sera, e lui non aveva più resistito: adducendo a valido pretesto una lezione alla prima ora l’indomani era sgattaiolato via, incapace di sopportare i loro infiniti discorsi. «Ho conosciuto un ragazzo», «Mi ha telefonato con un numero che non conosco», «Ti ricordi quando andavamo in discoteca?»… tutti gli echi di quei discorsi che a lui sembravano straordinariamente inutili se non irritanti parvero per un attimo levitare davanti al computer, a tagliargli ogni possibile velleità di scrittura. Aveva provato a ribellarsi, a inchiodare Lillie con un disperato: «Ti rendi conto che per la nostra storia non è rimasto più niente, adesso?», ma lei non aveva voluto sentire ragioni, e ogni rivolta gli costava qualche litigio sempre più violento.
Se si fosse lasciato andare a quelle elucubrazioni sarebbe impazzito, ben lo sapeva: doveva assolutamente trovare qualcosa per distrarsi. Era la sua unica via di fuga.
Sulla scrivania era appoggiata una cornice contenente una loro foto ai tempi d’oro della Stella Verde: Lillie era al centro, con lo stendardo della squadra stretto in mano. Lui le stava accoccolato ai piedi, vicino a Girolamo, e mezzo passo più indietro Griša e Kim si tenevano abbracciati. Lo sguardo gli scivolò involontariamente da lui a Girolamo: colti così, sorridenti e con la medesima uniforme, si assomigliavano davvero molto. Anche Griša poteva far parte della famiglia, se non altro per i lineamenti molto simili.
Aveva trovato la sua distrazione: poteva cercare di scoprire qualcosa di più sulle loro famiglie.
Edward Gregory Delacroix, figlio di Jean e Samara Delacroix. Suo padre era stato un delinquente della Louisiana, così come il suo nonno e il suo bisnonno, e quando il bimbo aveva compiuto un paio di mesi lui, in un raptus di follia indotto forse dall’effetto combinato di alcol e droga, aveva ucciso la moglie proprio mentre lo stava allattando. Si era costituito ed era stato condannato alla pena capitale sulla sedia elettrica, come tutti i suoi antenati attenendosi agli annali. Il piccolo Gregory, solo al mondo, era stato portato da una zia troppo anziana per occuparsi di lui all’orfanotrofio di Liverpool. Griša, dunque, era l’unico ad avere la storia certa della sua famiglia, e si poteva partire da lì per dimostrare o smentire la loro parentela.
Haku non si perse d’animo, e cominciò pazientemente a cercare su internet qualunque notizia potesse servirgli. Scoprì il nome del nonno di Griša, Joseph, il quale aveva praticato le sue scorribande insieme al fratello gemello Lucien. Qui si accorse di essere arrivato su una pista davvero promettente: sapeva che suo nonno, effettivamente, si chiamava Lucien Delacroix. Ormai il pensiero di Lillie era un sordo dolore lontano, l’indagine stava conquistando totalmente la sua attenzione. Lui, da bambino, aveva perso entrambi i genitori in un incidente, e prima di essere mandato in orfanotrofio era rimasto con nonno Lucien fino alla sua morte: per questo conosceva solo il suo nome.
Nella lista delle scorrerie dei Delacroix doveva esserci per forza anche qualche notizia biografica: e infatti, pochi minuti dopo, lesse in un sussurro il nome dei suoi genitori: «…Lucien Delacroix è stato ucciso stanotte da tre uomini la cui identità resta per il momento ignota. Lascia un figlio e una figlia, James e Frances…». Più avanti c’era un altro articolo in cui suo padre e sua madre erano citati insieme: «Stamattina, all’alba, i coniugi James ed Emily Delacroix sono stati assassinati nel corso di uno scontro con la squadra antimafia locale. I due stavano fuggendo dopo la rapina alla banca di San Pietroburgo, quando gli agenti hanno aperto il fuoco colpendo il guidatore, morto sul colpo: la loro auto è uscita di strada, rovesciandosi nel vicino fosso, mentre il loro figlio Haku, di due anni, è rimasto miracolosamente illeso sul sedile posteriore».
«Non è stato un incidente!» gemette Haku, sbalordito. Il filo di luce sulla sua famiglia stava diventando un riflettore da palcoscenico. Impugnata una matita cominciò a tracciare su un foglio l’abbozzo del loro albero genealogico, scoprendo di aver convalidato in pieno l’ipotesi che lui e Griša fossero effettivamente imparentati. Lo chiamò concitato, ormai incapace di tacere, e gli mise davanti il foglio spiegazzato balbettando: «Guarda! I nostri padri erano cugini!».
Improvvisamente lucido nonostante il sonno, Griša spalancò gli occhi e lesse gli appunti, incredulo: «Cugini?» ripeté «Questo spiega molte cose… ma come diamine hai fatto a scoprire tanti dettagli? Vai avanti, ora sono curioso di sapere tutto il possibile».
I due si sedettero insieme al computer, scorrendo tutte le pagine di giornale che riuscivano a trovare. I Delacroix erano famosi un po’ dappertutto come una pericolosa famiglia di malviventi, questo l’avevano sempre saputo, un po’ come la fama nera della famiglia Di Santo.
Stavano giusto pensando a Girolamo quando Haku scovò un trafiletto, che Griša scandì nel silenzio della notte: «Si sposa Frances Delacroix. Il marito, del quale non si conoscono che pseudonimi, appartiene al clan italiano dei Di Santo».
Ora la notte non sembrava più così silenziosa. Già, Girolamo l’aveva detto: sua madre effettivamente si chiamava proprio Frances, anche se non aveva mai nominato il suo cognome. Come avevano fatto a non pensarci prima? «Girolamo è mio diretto cugino» realizzò Haku, mentre un pensiero ancora più grosso lo travolgeva: «Lillie, in fondo, detesta Girolamo per tutto quello che le ha fatto passare quando erano insieme» mormorò «Mi ha sempre pungolato sul fatto che io e lui ci assomigliamo. Ora: come reagirebbe se lo sapesse? Non dobbiamo dirglielo, mai, assolutamente: potrebbe decidere di non avere più niente a che fare con me!» «Certo» sbottò Griša, esasperato «Come se cambiasse qualcosa rispetto ad ora». Per lui Girolamo non era affatto come Lillie e Haku l’avevano descritto, anzi: avevano dimostrato di aver fondato un impensabile sodalizio. «Tuo cugino sarà ben felice di scoprirsi tale» ammiccò «Fidati. È molto attaccato alla famiglia, e scoprire che il fidanzato della madre di suo figlio è comunque un Di Santo lo renderà felicissimo» «No!» tuonò Haku «Io ho il tuo stesso cognome!», ma si rendeva conto benissimo della verità. Soprattutto, non voleva tenere nascosto nulla a Lillie.
Fu una notte molto lunga: Girolamo era sveglio quando Griša lo chiamò a Domland, e arrivò subito a bordo della sua GHG. Come previsto, fu ben contento di scoprire quel fitto intreccio di parentele, e fu così convincente da indurre Haku a rilassarsi: era giusto che anche Lillie lo sapesse, e non avrebbe avuto motivo di prendersela. «Lei si è innamorata di te prima di saperlo» lo rassicurò, con una punta di rimpianto «E ti ama per quello che sei, Haku e basta, non contano niente le famiglie di appartenenza in questo caso. Delacroix, Di Santo… avremmo dovuto aspettarcelo: due cognomi troppo famosi per essere indipendenti!».
Nel coro di risate che seguì, soltanto Griša parve per un momento distratto: si sentiva vagamente escluso, pur avendo appurato di essere effettivamente imparentato con entrambi anche se di grado più lontano. Forse, dedusse, era solo un’altra sfaccettatura degli effetti della lontananza assurda di Kim. Si sforzò di non pensarci, come sempre, e scoprì che almeno a livello conscio stava imparando a chiudersi al ricordo, convinto ogni giorno di più di un’amara realtà.
Guardò Haku: era guardingo in presenza del terribile cugino che temeva tuttora, ma sorrideva. Per quanto male gli andassero le cose con Lillie, ormai ci aveva fatto l’abitudine, e comunque riusciva a vederla tutti i giorni e in un angolo del cuore a sperare che lei gli rivolgesse ancora qualche gesto tenero.
Ma a lui cos’era rimasto? Improvvisamente ebbe freddo, si sentì solo e smarrito, con una gran voglia di piangere. Kim poteva essersene andata per sempre, poteva averlo lasciato, per quanto ne sapevano tutti poteva anche essersi sacrificata in qualche terribile missione. «No, questo no» si impose «Basta così».
L’indomani, quando tutti e tre andarono da Lillie a raccontarle le incredibili scoperte di quella notte intensa, Griša era di nuovo quello di sempre… appena un po’ più taciturno.

* * *

C’erano voluti anni di lavoro sotterraneo per portare la Stella Verde ai suoi altissimi livelli, ed erano bastati pochi giorni per mandare tutto in rovina dall’interno: la storica squadra che dava il nome all’esercito, le cinque punte di diamante, era solo un amaro ricordo.
In tutta quella degenerazione, Griša era l’unico apparentemente estraneo al clima di generale disfacimento, ma forse proprio la sua tranquillità doveva far presagire qualcosa di ben peggiore. Haku stava con lui tutto il giorno, e poteva vederlo durante i corsi all’università, ma non notava nulla di rilevante: seguiva le lezioni prendendo appunti, scherzava con i compagni, a volte faceva pure il buffone, e sempre nei momenti liberi si ritirava nell’aula sotterranea di informatica a giocare davanti al computer.
Solo quella sera sembrava diverso dal solito: era il 10, e mentre Haku si stava preparando per uscire con Lillie, sperando (non troppo convinto) di racimolare almeno una carezza per festeggiare i sedici mesi insieme, Griša si sedette sul divano in pantofole con una bottiglia di birra in mano. Anche per lui era una dolce ricorrenza… ma di Kim non si era saputo più niente. Quattro mesi insieme, si diceva, e avevano festeggiato solo il primo: poi, tra missioni assurde e ancora più assurdi impedimenti, non avevano avuto più niente se non il ricordo di un amore tanto intenso quanto fugace.
«Rimani?» domandò Haku, titubante, e lui rispose vago: «Aspetto Girolamo per una partita a carte». Come non notare quello sguardo assente che fissava lo schermo del televisore spento? L’idea di stare con Lillie, però, era più forte di qualunque altra cosa: non gli passò nemmeno per la mente che l’apatia dell’uno e il nervosismo dell’altra potessero in qualche modo essere correlati.
Rimasto solo, Griša staccò il telefono e salì a bordo della sua nuova navetta BAT. La lucida carrozzeria nera, gli alettoni simili a membrane da pipistrello, la forma feroce di una LK e l’ormai consolidato sistema di invisibilità ai radar erano solo il complemento perfetto del collegamento universale: qualsiasi forma di vita e qualsiasi oggetto spaziale potevano essere captati senza margine di errore dal radiolocalizzatore della Stella Verde. Il monitor non segnalava la presenza di satelliti e navicelle alleate se non era richiesto, ma i dati venivano schedati nella memoria illimitata del computer madre.
Tutto era pronto per la partenza, mancava solo un fondamentale dettaglio: il foulard. L’aveva dimenticato Kim sul letto, ormai due mesi addietro, prima di partire per quella che sembrava sempre più la sua ultima missione. E da allora era diventato il suo talismano. Quando la nostalgia si faceva troppo pesante, quando anche l’orgoglio non poteva più tenere alte le sue barriere, era confortante stringere la lieve fascia di seta tra le dita e respirare l’ombra del suo profumo come se si fossero appena salutati. Lo prese, avvolgendoselo intorno alla mano, e si diresse verso la navicella già equipaggiata per un viaggio forse infinito: non gli serviva altro.
Lillie era seduta sul divano con Dylan in braccio quando il radar segnalò il movimento della BAT. Haku, rannicchiato su una sedia ormai certo che il loro mesiversario sarebbe stato un giorno come tutti gli altri, lesse a voce alta le coordinate che comparivano via via sullo schermo: «Ha fatto un decollo verticale ma è ancora nell’orbita terrestre, anche se pare che si stia dirigendo all’esterno. I serbatoi della BAT sono pieni e ha con sé un peso considerevole, comunque inferiore a quello di un essere umano, penso che si tratti di cibo. Ha attivato il sistema antigravitazionale, ha acceso il computer e… ehi!». Fu quell’esclamazione finale a convincerla a voltarsi, dopo che per tutto il tempo non l’aveva considerato. Senza nemmeno accorgersi di averla fatta innervosire, più preoccupato dalle molteplici possibilità che si aprivano da quella novità, lui cominciò ad armeggiare con il radar borbottando: «L’ho perso! È come se avesse disattivato tutti i sistemi, ma se così fosse almeno il nostro segnalatore sarebbe rimasto attivo, giusto?».
Lillie, perplessa, lo raggiunse davanti allo schermo e digitò rapidamente qualcosa sulla tastiera, ma l’unico risultato fu una scritta rossa di «Errore» che lampeggiava a tutto campo. «Non capisco» ammise «Se avesse disattivato tutto volontariamente perché accendere il computer prima? E se fosse stato colpito da un nemico automaticamente sarebbe partita la richiesta di supporti». Non voleva che Haku si angustiasse, ma tutto portava alla stessa conclusione: quella di Griša era una missione suicida, e non sarebbe tornato se non con Kim; ma anche i contatti con lei erano scomparsi da ormai otto settimane, e poteva essere successa qualunque cosa. La sua preoccupazione, sempre così ben nascosta dietro la maschera da comandante impassibile, divampò come un incendio: «Ora la tensione è raddoppiata» gemette, coprendosi gli occhi «Non ce la faccio più. Avrei dovuto aspettarmelo: uno come lui non poteva arrendersi così. Come abbiamo potuto non notare che stava tramando qualcosa?» «Perché Griša è un attore» mormorò Haku, mesto «Nessuno avrebbe saputo capirlo, forse nemmeno Kim».
Per qualche minuto tacquero, e l’unico rumore fu quello delle macchinine con cui Dylan stava giocando; quando il silenzio divenne insopportabile fu Lillie a spezzarlo, incapace di tenersi dentro tanti pensieri un solo minuto di più. «Kim era… è la mia più grande amica: come se fossimo sorelle. Non sono riuscita ad impedire che succedesse quel che è successo tra me e te quest’estate, è arrivato Griša ed è riuscito a riportare tutto come prima. Adesso non ho saputo evitare quella pericolosissima missione, non avrei dovuto mandare avanti Kim per conquistare qualche avamposto, e come se non bastasse anche Griša rischia di fare la stessa fine! Si è dimostrato abilissimo, intelligente e a volte addirittura geniale, come quando con Girolamo è riuscito a costruire la Starship 17, eppure stavolta sono sicura che sarà un compito impossibile. Perché scomparire così? È l’orgoglio che lo rovinerà: sono certa che si sia reso invisibile per cavarsela completamente da solo, e noi non possiamo già più fare assolutamente nulla!». C’erano ancora tante cose non dette nel suo discorso, e tali sarebbero rimaste. Aveva voglia di piangere, di distruggere tutto, di fare qualunque cosa fosse diversa da quell’orribile starsene immobili davanti allo schermo, e nello stesso tempo non poteva salvare nessuno dei due. Esitante, già stravolto dall’angoscia, Haku cercò quasi senza rendersene conto di abbracciarla, nel tentativo di trovare un minimo di conforto per entrambi: si trattenne all’ultimo momento, come sempre. In fondo, rifletté, la sua storia con Lillie era così: fredda, spinosa, ma qualche rara volta capace di momenti di straordinaria intensità. Non era lo stesso per Griša e Kim, però, e forse alla fine erano loro a vivere il peggio. Anzi, giudicò sorpreso da tanta lucidità, doveva essere indubbiamente così.
Lo schermo continuava a non registrare alcun segnale, per quanto tutti i radar fossero in funzione. Completamente solo a bordo della BAT, Griša sfrecciava per gli universi, cercando di neutralizzare il silenzio siderale con una radiolina. Seguiva la parole della canzone con un filo di voce, quasi senza rendersene conto, e di tanto in tanto gli si incrinava la voce sui versi più romantici. Intorno a lui, fuori dal vetro infrangibile, le stelle e i pianeti schizzavano via come tagli nel nero perfetto dell’universo: era già arrivato in una zona in cui il tempo terrestre non era in grado di scandire gli istanti, un po’ come trovarsi ai confini dell’infinito.
Nei mesi trascorsi con la squadra Uno della Stella Verde aveva imparato a memoria tutto ciò che era riuscito a intercettare: codici, coordinate, nomi di pianeti e colonie, tecniche di costruzione di una navicella e strategie planetarie. Soltanto grazie alla sua alta capacità di memorizzazione aveva concepito l’idea di costruire la Starship 17, e mentre osservava Girolamo durante i lavori aveva messo a punto il sistema delle nuove BAT di ultima generazione: Best Air Team, nome nato dopo una giornata passata a collaudarle tra spericolate esibizioni… quando ancora Kim era con loro. Con lui. «Dove sei?» mormorò, frantumando il silenzio.
Ora oltre il vetro si intravedeva una fascia di asteroidi, pericolosa da attraversare con i sistemi spenti, ma al di là c’erano le colonie e gli avamposti della Stella Verde… dove poteva forse carpire qualche informazione su Kim. Fu tentato di riattivare i contatti, nell’ingenua speranza che quel terribile silenzio fosse causato solo da qualche immensa distanza, ma si trattenne all’ultimo momento: temeva che Lillie potesse rintracciarlo e costringerlo a tornare indietro. Era completamente ignaro di quanto anche lei fosse in pensiero: se mai si era fidato di lei, arrivando al punto di stimarla come comandante, ora era rapidamente tornato alle sue ostili idee iniziali.
Pianetini, asteroidi e piattaforme: intorno a lui non si vedeva altro, e soprattutto non c’era traccia di vita. Tutto era elettronico, le miniere di materie ancora sconosciute sulla Terra venivano controllate direttamente dal Quartier Generale, e solo in casi di necessità qualche flotta veniva inviata a risolvere eventuali problemi: era Kim a capo di quelle operazioni.
D’un tratto Griša si sentì debole e stanchissimo: probabilmente era entrato in quella fascia di universo che sulle loro mappe era segnata col nome Speed. Lì il tempo terrestre era quadruplicato, i giorni scorrevano via ad una velocità frastornante, e pur essendo protetto all’interno della BAT sapeva di non poter resistere per molto. Quella, inoltre, era la zona più pericolosa, in quanto molti comandanti nemici cercavano di stabilire lì i loro imperi per svilupparli più rapidamente. Effettivamente, l’ultima battaglia in cui aveva combattuto Kim si era svolta proprio lì: si vedevano ancora i detriti galleggiare miseramente tra gli asteroidi.
Detriti metallici, bruciacchiati ma dal colore ancora riconoscibile: verdi. Verdi come la navicella di Kim, la gloriosa LK gemella di quella verde più scuro di Lillie.
Griša li fissava, esterrefatto e incapace perfino di invertire la rotta e tornare a casa. Stava guardando i relitti della LK di Kim, ne era sicuro. Un gemito gli strozzò la gola, dovette stringere gli occhi fino a sentirsi i crampi, mentre altre fitte dolorose gli percorrevano tutto il corpo; era l’effetto della zona Speed, miscelato al naufragio che si sentiva in fondo al cuore.
A tentoni trovò il timone e invertì la rotta. Non sapeva nemmeno lui cosa fare: d’istinto riattivò tutti i sistemi della BAT e cercò di contattare la base. «Lillie» chiamò, stremato. Non aveva più nemmeno il fiato di finire il discorso. «Kim è… credo che… nella zona Speed».
A terra, Haku si era assopito: erano già passati cinque giorni da quando Griša era partito, e da allora lui, Girolamo e Lillie avevano organizzato turni di controllo davanti al computer madre. Il segnale era debole e disturbato, ma percepibile: si svegliò di soprassalto e corse nella sala di comando.
«Torna indietro!» ordinò Lillie «Sei il solito incosciente: la zona Speed va solo attraversata con i motori al massimo, non bisogna mai fermarsi lì! Il tuo computer segnala sì e no una dozzina di ore di viaggio, ma sei stato via cinque giorni: è come se non dormissi, non mangiassi e non bevessi da un centinaio di ore!».
Griša intercettò il messaggio, ma era troppo stanco per tentare qualsiasi cosa: quelle condizioni erano peggiori anche del disastroso primo volo della Starship 17, quando lui e Girolamo avevano rischiato di perdere la vita. Qualcun altro, a quanto sembrava, era già morto nella buia immensità. Abilitò il pilota automatico, incapace anche di alzarsi per recuperare le provviste, e lasciò che fosse Lillie a impostare da terra le coordinate di rientro. Quand’anche si fosse salvato, non gli importava più niente.

* * *

Era ormai sera tarda quando la BAT entrò nell’atmosfera terrestre.
Girolamo era di vedetta sul tetto del palazzo rosa, con la rimodernata Starship 17 già pronta sulla rampa di lancio: teneva acceso il computer di bordo, in attesa di eventuali ordini, e quando captò il segnale proveniente dalla navicella di Griša liberò un sospiro sollevato ma molto triste.
Dylan risentiva della crescente tensione: quella sera aveva faticato molto a prendere sonno, non voleva assolutamente dormire da solo e faceva capricci per qualsiasi sciocchezza. Haku entrò in punta di piedi nella cameretta, stando ben attento a non inciampare su qualche giocattolo, e si accovacciò vicino al letto sussurrando: «Tra una decina di minuti sarà qui». Lillie si alzò senza fare il minimo rumore per non rischiare di svegliare Dylan, e bisbigliò in risposta: «Resta tu con lui». Gli lasciò il posto, ma solo quando la luce notturna gli illuminò il viso si rese conto di quanto anche lui fosse teso: gli occhi da verdi gli erano diventati quasi grigi, aveva due profonde occhiaie e lo sguardo sfuggente. Non poté trattenere una fugace carezza prima di scendere negli hangar.
La BAT era già atterrata, il trimotore fumigava ancora, e il suo pilota sembrava immerso in un profondo sonno sul sedile; ma non era difficile accorgersi che in realtà fosse svenuto. Gli rinfrescò la fronte e le labbra riarse e screpolate con dell’acqua fresca, e prima ancora di svegliarlo gli iniettò nelle vene dell’avambraccio una forte dose di ricostituente sintetizzato da materiali raccolti su altri pianeti. Poi, quando il medicinale cominciò a fare il suo effetto, lo aiutò a trascinarsi a terra, sedendosi su una sedia per sostenergli la testa sulle ginocchia. Ne era certa: tutta quella devastazione non poteva essere causata soltanto dal dislivello temporale della zona Speed, e tutti i suoi innominabili timori divennero certezze… o meglio, si confermarono come tali.
Griša aprì a malapena gli occhi, rendendosi conto dell’insolita situazione: Lillie lo teneva quasi abbracciato, lisciandogli i capelli arruffati con leggere carezze. Cercò di alzare la testa, e una calda goccia gli piovve su una guancia, mescolandosi alla traccia di un rigagnolo altrettanto salato. Rimasero per un po’ così, incapaci di trovare le parole giuste per la mostruosità che entrambi avevano capito ma non sapevano descrivere, e finirono per iniziare contemporaneamente il discorso: «Kim è…».
Si resero conto che quella stessa parola tremava loro sulle labbra, ma nessuno dei due aveva il coraggio di pronunciarla. «Amica mia» balbettò Lillie, strozzata, e poi non seppe più aggiungere altro: abbracciò forte Griša, sentendolo tremare tanto quanto lei. Gli scostò i capelli dalla fronte febbricitante, tenendogli il volto tra le mani, e cercò nella penombra di catturare i suoi occhi: erano arrossati e assenti. «Cosa farò adesso?» lo udì rantolare, come parlando in un sogno. Le parole non avevano senso, e anche la Stella Verde non aveva senso senza una delle sue punte.
Le venne spontaneo rispondere prima ancora di averci riflettuto: «Vai via da qui» disse «Torna a Southampton. Prendi la Starship 17 che ha anche la stiva, se vuoi, vai a Domland, recupera tutte le tue cose e scappa da qui». Non sapeva nemmeno lei perché gli stesse dando quel consiglio assurdo, ma sentiva che era la cosa migliore che lui potesse fare in quel momento. Gli accarezzò il viso, sfiorandogli le palpebre: aveva le ciglia perfettamente asciutte, le labbra serrate, eppure continuava a rabbrividire. Per un attimo furono vicini, molto vicini, quasi come lo erano stati quella famosa notte. Griša si rannicchiò tra le braccia di Lillie, come se cercasse chissà quale protezione, e lei appoggiò il viso su quegli ispidi capelli scompigliati, continuando a passarvi le dita quasi meccanicamente, ma non lo sentiva affatto rilassato. Tremò lei stessa.
Fu questione di un solo istante: Griša alzò la testa di scatto, come se un invisibile pugnale l’avesse trafitto alle spalle, e non si rese conto nemmeno di averle inavvertitamente sfiorato le labbra. «Addio, Lillie» mormorò, strozzato, alzandosi sulle gambe malferme. Camminava piegato in due da quel folle dolore, sbattendo e strisciando contro le grigie pareti dell’hangar. C’erano i fantasmi lì sotto, i loro fantasmi, tutti e due ora potevano vederli. Due ombre grigiastre, appena più chiare della penombra che li avvolgeva, che si baciavano contro quelle stesse pareti.
Lillie corse su per le scale, sconvolta, e si precipitò a letto dove anche Haku era crollato, sfinito dalla tensione. «Tu ci sei» fu sul punto di dirgli, rinfrancata, ma le parole le morirono in un singhiozzo aspro: riuscì a riprendere un minimo di controllo solo quando gli si fu sdraiata accanto, con Dylan stretto al petto.
Anche Griša era fuggito dalle nebbiose visioni dell’hangar, da tutti quei ricordi, dal suo amore così tragico e ignoto: aveva sofferto molto anche prima, ma quello andava ben oltre la sua più cupa immaginazione. Correva lungo le vie vicino al porto, correva alla cieca diretto verso Domland, ancora debole e sfibrato, usando la forza della disperazione. Teneva ancora legato alla mano il foulard di Kim, che per un attimo svolazzò nella notte come la scia di un fantasma, e lo fece guaire di paura. Pioveva forte, era già madido, i capelli gli sfioravano gli occhi e grosse gocce fredde e calde gli scorrevano lungo il viso. Dovette accucciarsi in un angolo per vomitare, ma forse era solo tensione.
Meno di un’ora dopo era raggomitolato su una panchina all’aeroporto, a fissare il cielo vuoto e nero. Come sembravano lenti gli aerei in confronto alle loro navette! Non c’erano voli in partenza, poteva partire con la BAT già carica in qualsiasi momento, e aspettare non avrebbe avuto senso.
La navicella era posteggiata in un vicolo buio: Griša accese il trimotore con una fiammata azzurrognola e partì in verticale, rovesciando un bidone in un fragoroso clangore.
Sotto di lui, due fantasmi abbracciati forte parvero additare la sua scia come quella della più romantica stella cadente…


* Erica Apolloni nasce a Zevio (VR) il 17 luglio del 1987, e attualmente risiede a Terranegra di Legnago (VR)

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