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domenica 22 novembre 2009

Artigli di realtà - Brandelli di illusione (di Erica APOLLONI *)











Grigorij "John" Delacroix

Prologo


«Dunque tuo figlio è tornato!». La voce degli uomini riuniti nel vasto salone di Villa Oldfield risuonava chiara tra le spesse pareti straripanti di decorazioni in stucco e legno dorato, in un marcato stile a metà strada tra il barocco e il rococò. I trofei di caccia appesi lungo i muri color avorio proiettavano le loro ombre allungate da tre immensi lampadari in oro bianco e cristallo, la cui luce sfavillante si rifletteva in una mezza dozzina di specchi abilmente disposti. Il pavimento di marmo colorato era coperto da ampi tappeti che ovattavano anche i passi più pesanti, mentre l’area centrale del salone era lasciata libera come pista da ballo per le numerose feste che vi si tenevano. «Quanto è stato via? Due anni?». «Quattro anni a San Pietroburgo» rispose Norbert, il padrone di casa, incredulo lui stesso «E Dio solo sa, a quell’età, quante cose si possono fare in quattro anni. John ha imparato alla perfezione il russo, ha fondato dal nulla un gruppo musicale che si è fatto un ottimo nome in tutta la zona, e la cosa più stupefacente è che ha passato l’esame di maturità del liceo classico con un voto invidiabile. Pensate: ha dato un esame in una lingua straniera della quale non aveva frequentato mai nemmeno un corso, e il suo tema è stato tra i migliori! Io non ho fatto altro che mandargli mensilmente i soldi necessari per pagare l’affitto di un dignitoso appartamento, ma ben presto ha saputo arrangiarsi anche su questo: lui e quell’altro ragazzo che ha conosciuto, Clyde, sono andati a vivere insieme in un attico modesto ma accogliente, e con i soldi guadagnati lavorando uniti a quelli che provvedevo a mandare io l’hanno addirittura comperato. Al numero 17 di Via dei Fiori Bianchi, per l’esattezza: una zona tranquilla, di poco fuori dal centro, sull’argine del fiume che attraversa Pietroburgo, la Neva. Lavoravano entrambi: John nel tempo libero faceva da corriere per parecchi negozianti del posto, mentre Clyde era croupier in un locale, il Jolly, anche se poi è passato a quello più prestigioso, il Blackjack. John stesso lo aiutava qualche volta: è diventato abilissimo con le carte, i dadi e la roulette! Per non parlare dei soldi che hanno guadagnato suonando. Loro due formano un duetto, gli Shining Night, al quale spesso e volentieri si aggiungono musicisti di ogni risma, in modo da poter spaziare in qualsiasi genere: dal folk delle loro composizioni, al rock, al metal, senza per questo escludere i canti da chiesa che, frequentando il coro parrocchiale di una campagna poco distante da loro, hanno imparato. Credo, anzi, che entro la fine del mese organizzerò una serata qui a Villa Oldfield tutta per loro». Aveva l’espressione di un padre orgoglioso del figlio prodigio, ma nel suo caso i figli erano due. «Per i gemelli» lo corresse infatti uno dei presenti, un medico «Non sei stato forse tu a definirli così quando sono arrivati qua, la scorsa settimana?» «È vero» sorrise Norbert «Quei due si sono proprio trovati: non ho mai visto ragazzi così simili! Stessi interessi, stesso passato, stesso modo di dire e di fare; giurerei che, vivendo in simbiosi per quattro anni, abbiano anche incominciato ad assomigliarsi fisicamente! Guardateli: stessa pettinatura – anche se John ha i capelli un po’ più lunghi e mossi – e stessi abiti. Quel codino di capelli che entrambi hanno sulla nuca e che il più delle volte tengono raccolto a treccia, poi, sembra quasi confermare il fatto che siano fratelli: chiunque lo penserebbe, e loro non fanno niente per negarlo. Si divertono!».
Seguì una lunga pausa di silenzio, appena scalfito dal tintinnio del ghiaccio nei bicchieri di liquore che tutti tenevano in mano. Soltanto qualche minuto dopo uno dei presenti, un avvocato, osò domandare: «Se John e Clyde stavano così bene in Russia… perché sono tornati qui? Che cos’è successo?». Un’ombra passò negli occhi di Norbert, che si riempirono di lacrime ripensando a quella sera della scorsa settimana, quando aveva aperto il cancello di casa e se li era trovati davanti, esausti dopo il lungo viaggio senza soste. John stava malissimo, e per un paio di giorni aveva temuto per la sua vita, così come anche Clyde sembrava allo stremo delle forze. Erano riusciti ad arrivare, comunque, era quello l’importante; e lui aveva bisogno di parlare con qualcuno del terribile spavento che aveva preso vedendo suo figlio ormai allo stremo e sentendo quello che gli era capitato. «John aveva trovato una ragazza» esordì, sapendo in partenza che mai nessuna parola avrebbe potuto spiegare l’accaduto «Estel, si chiamava. È impossibile dire quanto lui l’amasse, ma lo si capiva da come parlava di lei nelle lettere che mi spediva regolarmente ogni due settimane. Sembrava che finalmente, dopo tante brutte avventure, avesse trovato il pezzo mancante del mosaico della sua vita; invece, un anno dopo – tempo ridicolmente breve se si pensa a tutti i progetti che avevano in mente –, John ha avuto la fatale idea di presentare a Estel un suo amico conosciuto da poco, tale Lestadt. E, pochi giorni dopo…». Qui si fermò, incapace di proseguire, e cercò di aggirare il nodo del discorso: «Lestadt sembrava a tutti gli effetti uno di loro, come scriveva John nelle lettere. Si fidava di quel nuovo arrivato, di due anni più giovane di lui, anche perché pensava ai quattro anni di differenza tra lui ed Estel. Come avrebbe potuto prevedere, nella sua vita finalmente luminosa, che Estel e Lestadt… se ne sarebbero andati insieme?». Tutti i presenti emisero mormorii allibiti: conoscevano John come un romantico sognatore, di carattere dolce e mite nonostante la sua infanzia di ragazzaccio di strada fuggito dall’orfanotrofio, eppure riuscivano solo lontanamente a capire quello che poteva aver provato John. «È caduto in uno stato di depressione abissale» stava dicendo Norbert «Non mangiava, e almeno per i primi giorni non dormiva: appena si distendeva sul letto veniva assalito dalle convulsioni, e si svegliava urlando tutte le notti. Di giorno, poi, era terrorizzato dall’idea di vederli insieme, ed evitava in tutti i modi di uscire. È stata un’idea di Clyde quella di tornare qui: era il posto più sicuro dove andare, in fondo. È fantastico vedere quanto quei due si vogliano bene: Clyde è stato pronto a lasciare tutto per aiutare John, e la cosa è reciproca. Ho avuto notizia, tempo fa, di un loro brutto litigio, questo è vero; ma so che la cosa si è risolta nel migliore dei modi in un paio di settimane. Adesso, comunque, quei due sono qui al sicuro: appena John si sarà ripreso correrà sicuramente da tutti i suoi amici di qui, e tornerà quello di un tempo. Quei ragazzi sono i componenti della sua prima band, gli Smoky Beetles: Sono certo che presto ricominceranno a suonare insieme!».
Erano tutti sogni, lo sapeva: John stava ancora troppo male per potersi ristabilire in così breve tempo; ma lì erano tutti grandi sognatori. Antirealisti, come dicevano i due gemelli. Un signore di mezza età, il più anziano del gruppo, domandò a proposito: «Ci avevi parlato dell’Antirealismo: Non dire che i sogni sono inutili perché inutile è la vita di chi non sa sognare, credo che tutti noi lo ricordiamo ancora. John lo ripeteva di continuo… e adesso?» «Adesso gli Antirealisti sono un esercito!» esclamò Norbert compiaciuto, ma subito si rabbuiò e riprese: «O perlomeno lo erano. John e Clyde erano i generali, Estel il colonnello e un altro loro amico, Moonlight, il capitano; a loro si aggiungeva un nutrito gruppo di altri amici e simpatizzanti, che loro definivano cadetti, e negli ultimi tempi c’era anche un secondo colonnello: proprio Lestadt. Adesso che lui ed Estel se ne sono andati insieme, credo che non ci sia più molto in cui credere per tutti loro. Era bello, però: avevano organizzato delle autentiche battaglie campali, e si divertivano così per giornate intere. “I Realisti sono violenti e cercano sempre di ferirci” mi raccontava John qualche mese fa “Ma noi siamo i maestri della fuga e della guerra psicologica: finora li abbiamo sempre battuti, cavandocela al massimo con qualche sporadica sassaiola”. Già… chi mai avrebbe potuto dire che il disastro sarebbe partito dall’interno? Pensate: è stato proprio John a far incontrare i suoi due traditori! È sempre stato quello il suo difetto: tanto diffidente con chiunque quanto fiducioso nell’amore, e mai una volta che gli sia andata bene! Forse Clyde aveva ragione quando parlava dell’AA: quei due, all’inizio, avevano fondato una sorta di club chiamato Anti-Amore, convinti che l’amore potesse solo far male. Sulle prime John ci credeva, ma poi è arrivata Estel… ed ecco crollate tutte le sue barriere. Se perfino Clyde, notoriamente cinico e indifferente ai sentimenti, è rimasto impressionato da quanto stesse male il suo fratellino… vi lascio immaginare cosa deve aver passato, e per questo vi chiedo, nel caso doveste vederlo qui in giro, di non parlargli assolutamente di Pietroburgo e di tutto ciò ad essa correlato».
«John e Clyde si sono sempre fatti chiamare così?» interloquì la silenziosa sorella di Norbert nel tentativo di dissipare la tensione «Le lettere sono sempre firmate con due nomi diversi». Norbert, lieto di poter cambiare argomento, si affrettò a spiegare: «Sì, in effetti per vivere in Russia hanno adottato nomi russi: John si fa chiamare Griša, il diminutivo di Grigorij, mentre Clyde si è sempre firmato Dralbij. Io li ho sempre chiamati con i loro nomi inglesi, ma credo di essere l’unico ormai: loro stessi si sono abituati a quei soprannomi».
In quel momento si udirono passi leggeri lungo il corridoio, e un attimo dopo Dralbij fece capolino nel salone. «Buonasera» mormorò con un sorriso stanco, ravviandosi i capelli che gli erano caduti sulla fronte «Griša sta dormendo abbastanza tranquillo, di sopra, così ne ho approfittato per venire quaggiù a chiacchierare qualche minuto. C’è del brandy anche per me per caso?» «Sicuro» gli rispose con dolcezza Norbert «E in cucina c’è anche tutto quello che ti serve per prepararti una buona cena, anche se è tardi».
Dralbij era appena tornato in salotto, venti minuti più tardi, quando dal piano di sopra giunsero delle urla rauche e angosciate, screzi di incubo nella tranquilla sera estiva: «No, no… no! Li ho fatti incontrare io, io ho causato tutto questo!». Ci fu un attimo di silenzio grondante di tensione, e poi un grido lacerante che fece scattare Dralbij in una corsa forsennata verso la camera da letto: «Estel, non puoi uccidermi così!».

Artigli di Realtà – Brandelli di Illusione

Griša, seduto sul letto tra le lenzuola aggrovigliate, fissava il vuoto scosso da un tremito violento. Aveva la fronte imperlata di un sudore gelido e gli occhi colmi di lacrime arroventate che gli scorrevano lungo le guance pallide e scavate dal digiuno e dal dolore. Indossava un leggero pigiama troppo largo che lo faceva apparire, nella penombra, molto simile ad un bambino smarrito dopo un brutto sogno. Solo che lui era alle prese con una realtà peggiore di qualsiasi incubo.
Dralbij si sedette vicino a lui e gli passò un braccio attorno alle spalle: «L’hai sognata ancora?» sussurrò «Guardati intorno: siamo a centinaia di chilometri da lei, al sicuro se vuoi dirla così». Griša si pulì il volto con un panno umido e rantolò: «Lei era qui con Lestadt, lei era qui…». Discostandosi dal fratello sospirò e si lasciò ricadere sul letto. «Estel…» mormorò, chiudendo gli occhi per evocare la sua immagine perduta. Anche così non poté nascondere un lacrimone enorme che gli sfuggì. «Sai, quella sera di febbraio» cominciò «Eravamo andati in giro tutto il giorno con Moonlight e una sua amica. Il 3 febbraio, per la precisione. Abbiamo fatto merenda al bar e passeggiato per Pietroburgo fino a quando l’aria si è fatta troppo fredda per girare ancora, e per tutto il giorno Estel ed io abbiamo camminato tenendoci per mano, entrambi un po’ intimiditi ma – allora – felici. Quando poi siamo saliti sulla macchina di Moonlight per tornare a casa, lei si è seduta vicino a me… e un attimo dopo eravamo abbracciati sui sedili posteriori. È stata quella sera a segnare l’inizio della nostra storia. Se penso che è successa una cosa molto simile con Lestadt…». Improvvisamente parve riaversi: «No, non subito» si corresse «Prima ci siamo trovati tutti e tre a casa mia, una sera. E nel buio della mia camera si sono abbracciati, sul mio letto, mentre io me ne stavo lì in disparte, sapendo che per me ormai era finita… così all’improvviso. Qualche sera dopo sono usciti insieme, e allora sì che c’è stata una scena simile alla mia in una macchina…». Dralbij si alzò e prese la sua chitarra, appoggiata nell’angolo della musica. In quelle stanze enormi l’acustica era perfetta, lo ricordavano da quella vacanza che avevano fatto lì due anni addietro. «Te la senti di provare qualcosa?» domandò, porgendola a Griša «È da un mese che non suoni né canti, sicuramente ti farà bene». Ma lui scosse la testa: «No… credo che dormirò ancora un po’…» sbadigliò debolmente, riavvolgendosi nel lenzuolo. Era nel sonno che tutti i suoi incubi potevano raggiungerlo e distruggerlo, eppure non li temeva più.
Dralbij stava per andarsene, quando Griša lo richiamò: «Fratellone? Secondo te, Bettina e Morgana saranno sorprese di rivedermi dopo quattro anni? E Alex, e tutte le altre della vecchia compagnia? Perché forse, se riuscissi a dormire, sarebbe bello uscire ancora con loro, non trovi?» «Ho capito male» pensò Dralbij, atterrito, nello stesso momento in cui rispondeva: «Bettina e Morgana? Dopo tutto quello che è successo, vorresti ancora tornare da loro? Sono le Regine Realista così come io e te siamo i generali Antirealisti! Chi credi abbia diffuso il Realismo a Pietroburgo? Hanno abbastanza contatti in ogni angolo del mondo per poterlo rifare in qualsiasi momento! Se sapessero che tu sei qui, a meno di tre chilometri da casa loro e perdipiù malato, non credi che ci attaccherebbero senza la minima esitazione? Il loro esercito è molto più numeroso del nostro, mi sono informato: hanno Elettra come colonnello a Pietroburgo, mentre qui hanno nientemeno che la tua antica fiamma Tresy. E la sua degna amica Chantal è capitano! Credimi, uscire con quella cerchia sarebbe come entrare nell’arena dei leoni completamente disarmati. Forse solo Alex si salva: sebbene sia stata con loro, non l’ho più sentita nominare. Potrebbe essersi trasferita altrove così come potrebbe essere in agguato o semplicemente neutrale. E poi… non credo sia conveniente per te vedere ancora Bettina, no?». L’ultima frase l’aveva detta con un tono più basso e imbarazzato, ma Griša rimase tranquillo: «Forse hai ragione» sospirò «Due anni insieme a Bettina… il primo vero amore della mia vita… e il triplo per dimenticarla: sei anni, senza mai riuscirci veramente. A volte la sogno di notte, e quando mi sveglio sembra tutto così credibile… come se la guerra non ci fosse mai stata. Ma Estel… lei sono sicuro che non la dimenticherò mai…». Soffocò le ultime parole nel cuscino, e Dralbij lasciò la stanza in punta di piedi.
Rimasto solo, Griša si alzò a sedere sul letto sfatto. Non mangiava da due giorni ed era piuttosto debole, ma riuscì ad andare in bagno e ad infilarsi sotto la doccia. L’acqua tiepida che gli scorreva sul corpo smagrito sciolse nodi che lui non sapeva di avere… ma c’era sempre quel dolore sordo e pesantissimo che sembrava riempirlo tutto dentro, insostenibile nelle sue pulsazioni. Sentiva ondate di ricordi che gli fluivano nel cuore e nella mente, simili all’infinita risacca di una spiaggia, ma l’acqua lo stava rilassando. Sapeva di avere sul comodino una tisana calda: forse sarebbe riuscito a fare un buon sonno mandando giù anche qualche goccia di sonnifero, per quanto detestasse ogni medicina.
Così fece: e, un quarto d’ora dopo, dormiva così profondamente da non udire Dralbij che entrava nella camera e andava a dormire. Il suo fu un sonno senza sogni, per nulla ristoratore, ma servì perlomeno a fargli perdere conoscenza fino alla tarda mattinata seguente: non avrebbe pensato a Estel né l’avrebbe sognata, con un minimo di fortuna. Che la dea bendata gli fosse avversa era ovvio, ma forse per una volta…
Quando si svegliò vide il letto di Dralbij già rifatto e una lunga striscia di sole entrare da una delle imposte socchiuse: c’era riuscito, aveva dormito parecchie ore e si sentiva meglio, almeno fisicamente. Sul comodino trovò un bricco di latte e una fetta di torta, che mangiò senza troppi sforzi: se fosse riuscito a non restituirla al mondo come per tutta la settimana gli era successo ogniqualvolta ingurgitava cibo solido, magari nel pomeriggio sarebbe riuscito ad uscire in giardino. Nel frattempo, dopo un giro di prova nella grande stanza da letto che gli servì a ristabilire l’equilibrio e ad aprire tutte le finestre, prese la chitarra impolverata, la accordò e cominciò a strimpellare, recuperando in pochi minuti la scioltezza delle dita. Stava improvvisando; e quando Norbert e Dralbij salirono a vedere da dove provenisse quella melodia, lo trovarono seduto sul tappeto che campeggiava in mezzo alla camera, intento a lasciar scorrere le dita sulle sei corde con gli occhi chiusi seminascosti da ciuffi di capelli ancora bagnati dopo la doccia. Era talmente concentrato sulla musica da non accorgersi di essere ascoltato, e quando gli accordi maggiori scivolarono sulle vibranti tonalità minori del blues, Griša incominciò a cantare con una strana voce rauca e pensosa. Erano parole molto belle e molto tristi: la storia di un gabbiano abituato a volare sopra il temporale, rapito da ragazzi senza cuore che gli avevano mozzato le ali e ora condannato a razzolare tra i rifiuti della spiaggia.
Senza fare rumore, Dralbij si avvicinò alla scrivania e trascrisse rapidamente sul foglio quanto il fratello stava cantando: non ci si poteva permettere di dimenticare una canzone come quella, e già aveva deciso che gli Shining Night l’avrebbero tenuta come una delle migliori, e che Griša l’avrebbe cantata completamente da solo. Chitarra e voce, non c’era bisogno di altro.
Rimasero lì ancora qualche minuto ad ascoltarlo, sedendosi sul letto, e Griša non si accorse di niente: continuò a cantare la sua storia, scorrendo le dita sui tasti, fino a quando scivolò su un greve, malinconico Mi minore e riaprì gli occhi solo dopo aver spento l’eco di quell’appassionato accordo con la mano. «Oh!» esclamò, sorpreso «Da quanto tempo siete qui?». Aveva ancora gli occhi allucinati, ma sembrava molto più tranquillo ora che aveva suonato con tutta l’anima. La luce folle del suo sguardo non era più così spaventosa, e Dralbij rispose in un sospiro sollevato: «Da quando ci siamo resi conto che eri tu a suonare. Era molto bella quella canzone, e l’ho scritta qui. Che ne dici di rimetterti in contatto con i tuoi vecchi Smoky Beetles? Anche loro sono abili in parecchi generi musicali, se non sbaglio, vero?».
«Smoky Night? Shining Beetles?» disse Griša, scherzando per la prima volta in quei terribili giorni, ma prima che il sorriso gli salisse agli occhi sfiduciati tornò serio e concluse: «Sarebbe molto bello. Ci troveremmo in sei musicisti, senza contare tutti i tecnici che gli Smoky hanno al loro seguito, e anche… papà?». Norbert trasalì e sorrise: era uno dei più famosi compositori d’Inghilterra, e proprio per questo Griša non aveva mai osato domandargli niente, troppo orgoglioso e troppo legato al suo stile da chitarrista di strada. «Sicuramente sarò dei vostri» promise «Basta solo che tu, ora, ti rimetta un po’ in sesto. Per quanto difficile possa essere, cerca di pensare il meno possibile a Estel e concentrati esclusivamente sulla tua nuova vita qui a Southampton. Quattro anni a Pietroburgo? Come se nemmeno fossero mai esistiti, è stato tutto un brutto sogno! Non ti chiedo di dimenticare quello che provi per quella ragazza – è impossibile – né di covare pensieri di vendetta contro chi te l’ha portata via. Ti posso però dare un consiglio: sei sempre stato un abilissimo scrittore… perché non scrivi un racconto dell’accaduto? Riuscirai ad esorcizzare i demoni che ti porti dentro, se non addirittura a scacciarli. Poi dovrai solo chiudere quelle pagine in un cassetto e non pensarci più: vuoi provare?» «Lo faccio sempre anch’io quando ho qualche brutto pensiero» intervenne Dralbij «Coraggio, prendi carta e penna e mettiti a scrivere! Anzi, mi è venuta un’idea: tu mettiti tranquillo a scrivere, io farò una corsa fino in paese a comperare qualche numero dei nostri fumetti preferiti. Hai ancora quella mezza sterlina nel portafogli?».
Griša gli porse le monete e si sedette alla scrivania. Davanti aveva una risma di fogli bianchi e tutto ciò che gli serviva per scrivere i suoi racconti: calamaio con un delicato inchiostro color seppia e una lunga penna d’oca appuntita, come sia lui che il fratello amavano fare. Dralbij corse fuori verso l’edicola, e Norbert si ritirò in veranda a leggere il giornale.
Si era creata una tale serenità, così all’improvviso, che a Griša riuscì semplicissimo cominciare a scrivere: quello che ne venne fuori, vergato nella sua fitta scrittura ottocentesca riservata esclusivamente ai brevi componimenti, era un perfetto incrocio di realtà e immaginazione. Era partito, come sempre faceva, da un fatto concreto; e da lì la sua fantasia aveva preso un sentiero autonomo, improvvisando sui fatti senza mai per questo discostarsi completamente dalla traccia originaria. E quello che risultò, alla fine, sembrava parte di un romanzo ancora da scrivere ma già ben formato nella sua mente. «Ho deciso anche il titolo» dichiarò al sole pomeridiano «Quando tutte le illusioni vengono lacerate dai colpi della realtà… Artigli di Realtà, Brandelli di Illusione».

Griša non si era mai sentito tanto solo, nemmeno negli anni trascorsi a vagabondare per Liverpool lottando per vivere, solo contro tutti. Dralbij era scomparso, Estel e Lestadt se n’erano andati via insieme, perfino Moonlight si era trasferito altrove con la donna che amava. A lui erano rimasti i ricordi e la possibilità di tornare nella sua cara, ospitale Inghilterra. Villa Oldfield: perché mai l’aveva lasciata? Era stato adottato da un miliardario, aveva tutto ciò che potesse desiderare e anche di più… che cosa poteva mai averlo spinto ad andare fino alla gelida Pietroburgo? Che cosa si aspettava di trovare, se non ciò che aveva lasciato?
Così pensava osservando il suo riflesso sul finestrino opaco della corriera, mentre l’ombra delle gocce di pioggia gli disegnava sul viso lacrime asciutte. Un’ombra più scura gli nascondeva gli occhi, disillusi e ormai privi di qualsiasi scintilla di sogno. E dire che l’aveva sempre saputo: da bravo veggente, fin da subito aveva saputo come sarebbe andata la sua vita. Ma allora perché ci aveva creduto? Quella notte gli scavava ancora solchi arroventati nel cuore: un cantiere abbandonato, un’amicizia che stava per diventare autentica fratellanza (e Dio solo sa quanto ne aveva bisogno, perso Dralbij), un velo di sospetto… e poi il buio, un abbraccio tradito e traditore, la sconfitta. «Dralbij aveva ragione» ricordava di aver pensato «Ha sempre avuto ragione su tutto». Quello stesso giorno, poche ore prima della catastrofe, aveva scritto un racconto nel quale lui stesso figurava come un musicista esperto, felicemente insieme ad un gruppo superlativo, e soprattutto dimentico di tutto ciò che potesse riguardare l’ex fratello maggiore. Peccato che quello stesso racconto fosse stato ambientato quattro anni più avanti: forse, nel 1980 le ferite si sarebbero rimarginate… ma non prima.
E certo non l’avrebbe aiutato a dimenticare la strada che stava percorrendo. Sentiva dentro di sé la voce della memoria, che guidava sadicamente quel tour disperato: «A sinistra, l’abitazione di Estel, e trecento metri più avanti ecco quella di Lestadt! La serata proseguirà con l’incontro, nella chiesa di campagna, con Dralbij!» «Zitta!» ringhiò Griša, prendendosi la testa tra le mani «Stai zitta! È giorni e giorni che mi perseguiti!». La luce malata, giallognola, dell’interno della corriera gli feriva crudelmente gli occhi arrossati. Di notte era ipersensibile alla luce, avrebbe desiderato sfondare il finestrino e fuggire fuori, nella notte, sparire nel buio… ma sapeva che sarebbe inevitabilmente finito nel posto che più voleva evitare. E non aveva più nessuno a dargli manforte!
Passando davanti a casa di Estel strinse gli occhi, ma non riuscì a impedirsi di vedere, ben riparato sotto la tettoia, il motorino nero di Lestadt. Fu un’ennesima, sferzante coltellata.
Pochi minuti più tardi la fermata della corriera si profilò nella pioggia grigia e, subito dopo, la chiesa. Soltanto le prove del coro parrocchiale ancora lo costringevano a prendere in mano la chitarra… e, almeno per un’ora e mezza a settimana, poteva concedersi il lusso di non essere solo con i suoi lugubri pensieri. Peccato che, quella sera, avrebbe rivisto Dralbij: come se non avesse abbastanza meditazioni per conto suo.
Finalmente, al riparo dentro la chiesa, Griša si appollaiò su una sedia e cominciò a suonare distrattamente la chitarra: erano gli stessi accordi che aveva strappato dalle corde quella terribile notte, mentre Estel e Lestadt… sul suo letto… e lui lì nel buio, perfetto reggimoccolo, incredulo e sempre più disperato, che cercava inutilmente di…
«Ciao, Griša!». Era il capocoro che lo chiamava «Sei riuscito ad arrivare fin qui sotto l’acqua!? Ti serve un passaggio a casa, dopo, o più tardi verrà anche tuo fratello?» «Accetto volentieri il passaggio» mormorò lui «Non mi sento molto bene… devo aver preso l’influenza». Quanto pietosa era quella bugia!
Dopo mezz’ora di prove la pesante porta di legno della chiesa si aprì e Dralbij fece capolino, i capelli imperlati di pioggia e un’espressione sorpresa nel vedere Griša. I due si scambiarono un cenno imbarazzato, e si dedicarono con la massima attenzione alle loro attività; ma il coro, quella sera, era in difficoltà con uno dei nuovi canti: non si trovavano né il ritmo né le note giuste, e il povero capocoro, che aveva assunto da poco il comando, non sapeva più come fare.
Finché Dralbij si alzò e, afferrato il microfono, ordinò a Griša: «Prova a fare il giro di accordi iniziale, e poi vedi se ti riesce di cantare la seconda voce». Griša aggrottò le sopracciglia, ma evitò di rispondere e ubbidì.
Gli Shining Night erano all’opera: il difficile canto riuscì perfettamente al secondo tentativo, con i due musicisti che dirigevano e guidavano il coro… sorridendosi.
«Ti porto a casa io, dopo» sussurrò Dralbij alla fine della prova «Credo che noi due abbiamo parecchie cose da dirci… generale» «Io non sono più un generale» rispose Griša mestamente «Ho… ho lasciato l’esercito a…» «Non parlare di loro» fu la gelida e al contempo affettuosa risposta «Fino a prova contraria, io sono ancora generale. E tu sei mio fratello: senza me e te l’Antirealismo non esiste, quindi smettila di pensare a cos’è successo» «Tu sai…?» Griša stava per dire qualcosa, quando il pensiero degli infallibili tarocchi del fratello lo fulminò. «Vai al tuo posto» borbottò «E non farmi ridere mentre suono!».
A qualche chilometro di distanza, dove due anonime figure giacevano abbracciate su un ampio divano rosso, scoppiò una lampadina.
Griša e Dralbij, i gemelli, erano di nuovo tali… e ora chi più li avrebbe fermati? Vendicativi e perversamente geniali nei loro intenti… erano tornati.
A prove concluse si avvolsero nei giubbotti – quel giugno russo era particolarmente freddo – e uscirono nella notte ancora gocciolante di pioggia; il loro respiro si condensava in sottili nuvolette bianche. Salirono in macchina, e Dralbij accese subito l’autoradio per evitare un imbarazzante silenzio: dopo la loro terribile litigata, chi sarebbe stato il primo ad aprire bocca?
Certo non Griša, che teneva la fronte appoggiata al finestrino e gli occhi serrati. «Molto bello l’assolo di chitarra che hai inventato per il canto di comunione» esordì Dralbij, deglutendo «Cos’era? Un Re minore?». Aveva parlato troppo piano per essere udito nella musica (il loro disco preferito, tra l’altro), ma fu qualcos’altro a indurlo a fermare la macchina: Griša aveva le ciglia imperlate di lacrime. «Ok, è andata malissimo» disse nel suo miglior tono da fratello maggiore «Peggio di così non sarebbe potuta andare. Ti ha messo le corna sotto il tuo naso, ma sono certo che ora ne parlerete e si risistemerà tutto. Non vedrai più Lestadt, e la tua storia con lei continuerà bella quanto prima, se non di più». Mentiva, stava spudoratamente mentendo: ciò che i tarocchi gli avevano rivelato era esattamente il contrario. Eppure… Griša credeva nella forza dell’amore… forse c’era ancora una speranza! «Andiamo da lei. Subito» disse, ingranando le marce una dopo l’altra. Solo allora Griša parve riscuotersi, gridando terrorizzato: «No! Da Estel no! Ti prego, non mi portare da lei! Non voglio vedere, non voglio sapere, lasciatemi almeno l’ultimo brandello di illusione!». La situazione, capì Dralbij, era molto più grave del previsto: cosa mai poteva essere successo che le sue carte non gli avevano detto? Vedendo il fratello abbandonato sul sedile con gli occhi chiusi e il respiro corto, però, non si arrese: «Ti porterò da lei, invece, oh se ti ci porterò!» sussurrò.
Qualche minuto dopo erano fermi in Via del Bosco, e Dralbij stava suonando con decisione il campanello, con Griša dietro simile ad un condannato a morte… nei cui occhi, però, scintillava una strana luce folle che nessuno notò.
Estel venne ad aprire loro avvolta in una vestaglia, e Griša sibilò cogliendo tutti impreparati con quel suo tono crudele: «Come mai così discinta? Cosa ne penserebbe tuo m… Lestadt?» «No!» pensò Dralbij, atterrito «”Tuo moroso”? È quello che stavi per dire? No, ti sei fregato da solo!». Infatti Estel ribatté: «Puoi anche dirlo adesso…».
In quel momento fu come se il tempo si fosse cristallizzato in una miriade di schegge dolorosissime. «Dire cosa?» balbettò Griša, ferito a morte; ma sapeva già la risposta, lo leggeva in quegli occhi dei quali un tempo aveva cantato lo sguardo innamorato… «Io e Lestadt» affermò Estel, solo vagamente colpita da ciò che aveva letto negli occhi dei due fratelli «Siamo insieme da ieri sera».
Griša scosse la testa come per allontanare un insetto, incredulo, avvolto in un’aura irreale di sogno. Respirava male, mai e poi mai sarebbe riuscito ad articolare una sola sillaba, e quel che era peggio sentiva la lucidità mentale calare a picco. Udì Dralbij dire qualcosa, incredibilmente lontano, e un attimo dopo erano in macchina, un attimo dopo sul ponte della Neva, un attimo dopo al sicuro in Via dei Fiori Bianchi. Al sicuro? No… c’era il cantiere abbandonato proprio lì davanti… quel cantiere in cui quella sera e quella notte…
«Adesso andiamo a casa e ci facciamo una camomilla tutti e due» andava dicendo Dralbij, e quelle parole riuscirono a scalfire il castello in cui Griša si era rinchiuso: «Tu non abiti più qui» mormorò come se fosse la cosa più importante del mondo. «Ricordi? Io vivo solo, da… da quanto tempo?». Improvvisamente i suoi occhi scuri si dilatarono all’inverosimile, la pupilla nera invase tutta l’iride, dandogli un’aria più che mai allucinata. «Dove abiti tu? Cosa ci fai a casa mia?». Ormai delirava, e Dralbij se ne rendeva conto; lui stesso era sconvolto, e ciononostante si sforzava di mantenere un minimo di calma che lo aiutasse a prendere le redini della situazione. Anche lui sentiva, sempre più vicina, un’ondata di dolore per la perdita di due amici tanto cari e per l’immeritata sofferenza del fratello, ma ancora riusciva a ragionare.
Entrò in quella che era stata la sua casa per dieci mesi e si affrettò a mettere sul fuoco un bollitore per la camomilla; Griša si trascinò fino al letto e vi si raggomitolò in posizione fetale, acutamente consapevole dei ricordi che quel letto scatenava. Estel e Lestadt abbracciati lì… e lui chiuso fuori… rantolò un debolissimo: «No…».
Quando Dralbij arrivò con le due tazze su un vassoio, trovò il fratello semisvenuto. A nulla servì chiamarlo, scuoterlo, gridare: preso dal panico, si precipitò in salotto e afferrò la cornetta del telefono per chiamare il pronto soccorso con tanta violenza che gli scivolò di mano e si schiantò sul pavimento. Quel rumore parve riportare in sé Griša, che si alzò sulle gambe malferme e lo raggiunse, scrutandolo perplesso aggrappato allo stipite della porta. «I boschi in primavera» lo udì gracchiare con una voce irriconoscibile «E la notte infinita… chi sei tu? Perché sei qui? E io… io chi sono?». Il panico si stava impossessando di lui, mentre ripeteva come una cantilena: «Chi sono io? Dove sono? Di chi è questa casa? Tu chi sei? Ci conosciamo? Abiti qui?».
Dralbij non raccolse il telefono, impietrito dall’orrore. «Stai scherzando?» farfugliò con una risatina isterica «Ehi! Sono tuo fratello, no? Caspita, eri di là svenuto e mi hai fatto spaventare… stai bene adesso?».
Griša lo fissava con gli occhi vacui, senza capire: era impazzito, sprofondato in se stesso, un automa senz’anima e soprattutto senza sentimenti.
«Non può finire così!» ululò Dralbij, coprendosi il volto con le mani «Griša, no! Torna in te, ti prego! Se qualcosa arde ancora sotto la cenere… oh, forza, dimmi che mi riconosci! Generale!». Si bloccò sull’ultima parola: generale… generale sconfitto sulla tomba del sogno. Quello però non era un sogno, ma l’amara realtà dalla quale non si poteva fuggire. Era la realtà di un gabbiano abituato a volare sopra il temporale, rapito da ragazzi senza cuore che gli avevano mozzato le ali e ora condannato a razzolare tra i rifiuti della spiaggia.
Dralbij fece per avvicinarsi, ma Griša gli si rivoltò contro con un ringhio ammonitore, più animalesco che umano, grondante di follia. «Non credere che ti abbandoni qui, solo e in queste condizioni» disse Dralbij, indietreggiando «Starò qui fino alla fine». E così fece, sebbene sentisse lui stesso un mare che gli dilagava dentro, un mare di onde spumeggianti di pazzia e disillusione. Rimase accanto al fratello impazzito per tutta la notte, cercando inutilmente di parlargli, di avvicinarlo, di calmarlo. Ogni volta, però, Griša si ribellava e scopriva i terribili canini aguzzi: anche se pazzo, rimaneva pur sempre un vampiro. Un vampiro immortale, che aveva sacrificato la sua vita per avere l’eternità da trascorrere insieme a Estel… ma che forse in un modo o nell’altro poteva ancora porre fine alle sue sofferenze. La forza dell’amore e del dolore era più forte di qualsiasi altra cosa.
Verso l’alba tornò a rannicchiarsi sul letto, in preda ai brividi nonostante le coperte che Dralbij continuava a rimboccargli. A poco a poco iniziò a calmarsi, a rilassare ogni singolo muscolo, e per un istante sorrise vedendo chi gli era seduto accanto. «Fratellone» sussurrò senza forza e con una dolcezza infinita «Adesso è meglio se ci salutiamo, e confermiamo la nostra rinnovata fratellanza… perché non c’è più molto tempo. Tu non dimenticherai mai le nostre canzoni, vero? Anche… dopo, continuerai a cantare e suonare… me lo prometti?» «Che discorsi stupidi stai facendo?» sbottò Dralbij, ormai vinto dai singhiozzi «È chiaro! Ora dormi, e appena ti sarai svegliato proveremo tutte le nostre canzoni!» «Promettimelo» insistette Griša, con una nota di urgenza nella voce «Promettimi che gli Shining Night non moriranno con me…». Stava per aggiungere qualcos’altro, ma la voce gli mancò del tutto e ricadde immobile sul cuscino, con gli occhi sbarrati fissi al cielo… vedeva qualcosa oltre il confine della realtà. «Arrivo!» furono le sue ultime parole «Adesso posso andare!».
Non udì mai l’urlo disperato di Dralbij.
Quella sera la polizia fece irruzione nella soffitta al numero 17 di Via dei Fiori Bianchi, mobilitata da una mezza dozzina di sollecitazioni; trovarono Dralbij seduto ai piedi del letto, vicino al fratellino morto, con una chitarra tra le braccia, che cantava come in trance: «Si va verso la guerra, si va verso l’amore…». Pazzo. Impazzito pure lui, in un gesto estremo di fratellanza.
In breve la storia fu dimenticata: fece scalpore per i primi tre, quattro giorni… poi nel giro di pochissimo cadde nel dimenticatoio.
Poco distante da lì, in un boschetto sulla riva della Neva, la bandiera Antirealista cadde nell’acqua verdastra di un laghetto e sprofondò.
Due gabbiani avevano ricominciato a volare.

«Tremendo» commentò Dralbij, asciugandosi gli occhi «Solo tu sei in grado di commuovermi con questo genere di racconti!». Anche Norbert era profondamente scosso, mentre passava le dita sulle pagine fitte di parole color seppia: «Conosco il tuo stile» dichiarò, con la voce flebile «Ma questo… questo va ben oltre ciò che ricordavo. Perché non provi a pubblicare le tue novelle? C’è un giornale, il Reader’s & Writer’s, che dedica spesso anche metà delle sue pagine a racconti spediti dai lettori. Alcuni sono stabili, e vengono anche pagati: tu hai tutte le capacità che ti servono, e in fondo non è proprio ciò di cui hai bisogno? Un hobby!» «Sarebbe un’indagine sulla realtà» osservò Griša, esitante «Forse ci penserei fin troppo, a loro, ma se credi… d’accordo, proverò a mandare qualcosa». Dralbij, che per distrarsi da quanto aveva letto si era messo a sfogliare un fumetto, intervenne a suggerire: «Ti converrebbe però evitare le allusioni all’altro libro che hai scritto, Oltre il confine: la storia sui vampiri… il nostro litigio…». Prevenendo lo sguardo interrogativo del padre, Griša si affrettò a spiegare: «Estel era una grandissima appassionata di quegli argomenti. Vampiri, elfi… io stesso mi sono fatto una cultura durante i mesi trascorsi insieme a lei. Uno dei nostri discorsi ricorrenti era una scena che avevamo perfino recitato su un palcoscenico, non ricordo più in quale occasione: dunque, si sa che se un vampiro mordesse un uomo non con l’intento di ucciderlo, lo trasformerebbe in un vampiro a sua volta. Un essere immortale. E, nella recita, io sacrificavo la mia vita sull’altare dell’amore: l’immortalità e l’eternità da trascorrere con Estel – regina dei vampiri di notte, degli elfi di giorno in due nature contrapposte eppure complementari – in cambio di un’estrema prova di fiducia. Lasciarmi mordere da lei, di notte, morire… e poi rinascere immortale a nuova vita. Era bella quella storia, ci piaceva… ci dava l’illusione, quando i nostri giorni avevano sempre un domani, che non sarebbe mai finita». I suoi profondi occhi color caffè si incupirono, mentre con la voce soffocata concludeva: «Era bravissima a recitare. Così brava da potermi ingannare fino all’ultimo istante… fino a quando l’ho vista tra le braccia di Lestadt. Che notte terribile ho passato! Eppure continuavo ancora a ripetermi che fosse solo un’allucinazione. E pochi giorni dopo se ne sono andati insieme».
«Leggi il numero 115 di questo fumetto» si precipitò Dralbij, in uno slancio così impetuoso da risultare quasi comico.
I due fratelli finirono per sedersi al fresco del salotto, rannicchiati su una grande poltrona, con il fumetto aperto davanti in modo da poterlo leggere insieme. Norbert si soffermò a guardare gli ordinati capelli biondi di Dralbij quasi appoggiati a quelli di Griša, castani, mossi ed eternamente scompigliati: se non fosse stato per quel dettaglio e per gli occhi azzurro scuro del primo, sarebbero davvero potuti passare per gemelli. Certo il loro rapporto era ben più che semplicemente fraterno: non essendoci tra loro alcun legame di sangue, un’incrollabile amicizia giocava il suo ruolo fondamentale.
Griša e Dralbij, stretti sulle pagine in bianco e nero, assumevano addirittura le stesse espressioni man mano che procedevano con la lettura: divertiti in alcuni punti, inorriditi e al contempo deliziati – si trattava di un fumetto splatter – in altri. «Che razza di gusti» commentò Norbert, osservando disgustato le immagini «Cervella spappolate, pezzi di corpi che volano, mostri, fantasmi e demoni… possibile che non abbiate altro di meglio da leggere?» «Potrei sempre farmi venire un’idea per fare gli auguri di Natale a Lestadt» ribatté Griša, così serio che Dralbij si preoccupò: «Che ti abbia portato via la ragazza che amavi è vero, ed è vero anche che la vendetta è un piatto da servire freddo. Ma non concentrare tutto il tuo odio su di lui: ricordati che, per mettere le corna a qualcuno, e sempre necessario essere in due a partecipare».
Griša voltò pagina del fumetto, e solo qualche minuto dopo rispose in un soffio: «Speravo di non dover mai pensare una cosa del genere. Sapere di quanta dolcezza era capace Estel… e sapere che adesso quel paradiso è riservato a qualcun altro…». Si prese la testa tra le mani, e per qualche tempo rimase immobile prima di riuscire a dire: «Dov’eravamo rimasti? Alla strega del sabba?».
Andarono avanti a leggere per tutto il pomeriggio: faceva troppo caldo per uscire, specialmente per loro abituati al fresco dell’estate russa, ma nel salone si stava benissimo. Venne soltanto una delle cameriere della villa, alle cinque, a portar loro una bibita fresca e del pane con la marmellata per merenda.
Griša sembrava già migliorato rispetto alla notte precedente; aveva preso un’espressione triste che mai più sarebbe riuscito ad abbandonare, ma perlomeno stava ricominciando a scherzare. E, cosa più importante, aveva ripreso in mano la chitarra: se gli Smoky Beetles si fossero uniti agli Shining Night, c’erano ottime probabilità che tutto tornasse molto simile a com’era stato prima della parentesi pietroburghese.
Per la prima volta, quella sera, Griša si sedette a tavola con Norbert e Dralbij, pur limitandosi a sbocconcellare qualcosa. E la sera, approfittando di una piacevole brezza fresca che proveniva dal mare, si sedette in veranda ad osservare il tramonto.
Dralbij, dopo tutta la tensione dei giorni precedenti, aveva soltanto bisogno di rilassarsi. Così, mentre padre e figlio chiacchieravano al fresco, lui si recò verso le stalle e sellò il suo cavallo, identico a quello del fratello: uno stallone nero. «È strano come sia riuscito subito ad ambientarmi qui» pensava, osservando l’immensa villa simile ad un castello «Norbert è una persona straordinaria, ormai considera me e Griša davvero suoi figli, sebbene ci abbia adottati entrambi e perdipiù in tempi completamente diversi. Beh, più che adottati direi ospitati: chi mai riuscirebbe ad imbrigliare uno spirito libero come mio fratello? È cresciuto per strada, un famiglia sarebbe più un peso che altro per lui. E io, incredibile, lo seguo! Ora che ho conosciuto il suo genere di libertà…».
Spronò il cavallo e partì al galoppo sul pendio di una collina coperto di fiori multicolori. L’aria fresca della sera gli scompigliava i capelli resi quasi fulvi dal riflesso del sole ormai scomparso sul mare, e mentre nel cielo già si accendeva la prima stella della sera, lui sorrise: non si era mai sentito tanto libero e sereno. Lontano, parallelo al prato che aveva attraversato, si stendeva il frutteto: nella luce del tramonto distinse pesche, albicocche e ciliegie, e decise sul momento che l’indomani avrebbe dato una mano a raccoglierle.
Dralbij rimase fuori fino a tardi, e quando tornò a Villa Oldfield Griša stava uscendo di casa fischiettando tra i denti qualche suo motivetto. «Ancora sveglio, fratellino?» gli chiese «Sono andato a fare un giro qui intorno, ma non sono riuscito a fare tutto il giro della proprietà. È enorme… davvero appartiene tutto a tuo padre?» «Sì, Villa Oldfield è in realtà un’antica cittadella medievale, a quanto mi ha detto Norbert» disse Griša, avviandosi verso le scuderie «C’è la casa, un piccolo castello, e poi tutto intorno ci sono i prati, i boschi, la spiaggia. A me c’è voluta un’intera giornata per fare tutto il giro a cavallo! Potremmo farlo, magari dopodomani: domani pensavo quasi di andare nel frutteto prima che tutto il bendiddio che c’è là vada a male. Credo che la mamma di Norbert voglia preparare delle torte, con quella frutta». Dralbij ridacchiò: «Giuro, è esattamente quello che stavo pensando io. La nostra telepatia fraterna funziona sempre!».
Griša non sorrise – era ancora troppo vivo il dolore di quei giorni – ma un lampo divertito distese per un istante il suo volto rigido. «Vado a fare una cavalcata fino alla spiaggia» annunciò «Non aspettarmi alzato, se non vuoi venire anche tu». Senza aspettare risposta entrò nella scuderia e sellò il suo Fulke, che sbuffava a fianco del cavallo di Dralbij, Kuja. «Ti va una corsa?» sussurrò, sfiorandogli il caldo muso di velluto nero «Andiamo! La notte è il nostro regno!».
Uscì al galoppo, lasciando che fosse Fulke a scegliere la strada più breve per la spiaggia, e dieci minuti dopo erano alla meta.

La scogliera sembrava un mondo spettrale e a sé stante, in tutte le gradazioni del viola e del blu: la luce bianco latte della luna piena creava strani scintillii sulle rocce bagnate dal mare, e rendeva quasi abbaglianti nella notte le creste di schiuma bianca che screziavano il mare color dell’inchiostro. Si distingueva nel rumore dell’acqua il leggero ticchettio dei granchi. La sabbia, di giorno dorata, era ora grigia e fredda. Griša si tolse le scarpe, che appese alla sella di Fulke, e si arrampicò sulla scogliera: sapeva bene dove aggrapparsi e dove appoggiare i piedi, e in un attimo raggiunse un grosso scoglio più chiaro degli altri, proprio sulla vetta. Era lassù che aveva scritto il suo primo libro, quel diario in terza persona – era pressoché impossibile che lui scrivesse di sé – che aveva raccolto due anni della sua vita al fianco di Bettina. Story X. Sorrise, pensando a quell’estate lontana bruciata sui tetti della campagna di Portsmouth, quando dopo un pomeriggio d’amore e di giochi con gli amici Bettina aveva proposto: «Sei ormai arrivato al tuo decimo quaderno di racconti della nostra vita. Perché non riunisci tutto in un unico libro, intitolato semplicemente Story?». Lui aveva finto di pensarci su – in realtà l’aveva già deciso – e aveva risposto: «Story X, Storia Decima, perché in fondo è il decimo il quaderno in cui sto scrivendo di quest’estate indimenticabile». Da allora era stata Story X per tutti, l’avventura più bella e tragica di tutta la sua vita, che talvolta ancora si ritrovava a rimpiangere ora che l’aveva persa per sempre. Griša sospirò: «A Pietroburgo avrei rimpianto Estel vedendo il suo fantasma ad ogni angolo di strada… ma qui la rimpiangerò nel regno di Story X, con tutto ciò che questi luoghi mi riportano alla mente. Bettina…». Non che provasse ancora molto per lei, semplicemente gli dispiaceva che fosse andata a finire così male: in fondo la loro poteva benissimo rimanere una stabile amicizia, ora che era passata tanta acqua sotto i ponti. «Lasciamo perdere» sbuffò, sdraiandosi sullo scoglio ancora tiepido di sole. In quegli ultimi tempi nulla più aveva attrattiva per lui. «Lascia perdere» si diceva «Ora che hai perso Estel…». Era terribilmente pessimista, ma anche le accuse di Dralbij («Lei non merita quello che provi per lei: guarda cosa ti ha fatto!») lo lasciavano indifferente. Per lui esisteva solo quell’incubo, il ricordo di tutte le tenerezze perdute e ora riservate a quello che credeva suo amico. Così amico, pensò amaramente, che l’aveva considerato quasi un fratello minore: quant’era stato stupido a non accorgersi – a non volersi accorgere – di quanto stava accadendo! Il tempo e quella sua storia gli stavano sfuggendo sempre più velocemente, e lui che non voleva ammetterlo! Intorno allo scoglio c’era un sottile strato di sabbia soffice: Griša vi affondò le mani, lasciandola scorrere via immutata tra le dita. Così se n’era andata Estel. E forse proprio in quel momento lei e Lestadt se ne stavano abbracciati sotto le stelle…
«Basta!» urlò Griša alla luna, contorcendosi disperato sul suo scoglio in preda ai brividi. Fulke drizzò le orecchie allarmato, statuario nella luce argentata, osservando il padroncino che ora si era rannicchiato abbracciandosi le ginocchia e sembrava immobile, sebbene vedesse la sua pelle increspata da un tremito incontrollabile.
Quando si fu calmato, ascoltando le parole del vento e del mare, si trascinò fino ad un piccolo rigagnolo di acqua dolce che ricordava pochi metri più in basso e si rinfrescò la fronte sudata e la gola secca. Rimase qualche minuto incantato a guardare quell’acqua quasi fredda, resa luminosa dalla luna ormai alta nel cielo, poi ne bevve qualche altro piccolo sorso, aspettando che il cuore rallentasse il suo battito frenetico.
Solo quando fu ben sicuro che la crisi fosse passata si rialzò, il volto umido di acqua e di lacrime, e cominciò a camminare sul bagnasciuga a passi lenti, affondando fino alle caviglie nella sabbia morbida. Le onde gli lambivano i piedi scalzi, deliziosamente tiepide, ma lui ne era consapevole solo lontanamente. Fulke lo seguiva docilmente, in silenzio, abituato a quelle passeggiate notturne, ma quando giunsero al limitare del boschetto se ne andò poco distante a brucare l’erba già imperlata di rugiada, pronto ad accorrere al primo fischio del padroncino.
Griša, però, non sembrava per il momento intenzionato a tornare: era ormai arrivato a Portsmouth, e distingueva benissimo nel buio le luci della città. Contò rapidamente i tetti a partire dalla grigia cupola del campanile, e individuò quasi subito la grande villa rosa in cui Bettina e la sua sorella gemella Morgana vivevano. Quanti giorni aveva trascorso, anno dopo anno, in quella casa! Il rimpianto arrivò puntuale, ma il dolore fu tenue, soffocato da quella mostruosa ferita che Estel e Lestadt gli avevano inferto, e lui fu quasi tentato di mettersi a correre in quella direzione, suonare il campanello e sorridere: «Sono tornato!». Certo non sarebbe stato ben accetto in quella casa, si disse poi, e a malincuore ritornò sui suoi passi cancellati dalle onde. Udì l’orologio del campanile di Portsmouth battere un plumbeo rintocco nella notte chiara silenziosa: mezzanotte e mezza, o forse l’una o addirittura l’una e mezza. Era tardi, sì, ma non aveva sonno: non voleva aprire la mente all’incubo che aspettava solo il suo sonno per aggredirlo.
Fischiò, e dal buio del bosco arrivò Fulke. Griša gli montò in groppa al volo, ma non lo spinse al galoppo: si limitò a lasciarlo trottare sulla riva, contemplando quel mare, quei prati, e lasciandosi andare alla marea dei ricordi. Tresy, Alex… già, ma di loro conservava nel cuore due cicatrici appena più profonde di tante altre. Perfino le cicatrici lasciategli da Bettina si erano ormai rimarginate: tutto si sottometteva allo squarcio che aveva distrutto il suo cuore e i suoi sentimenti.
Stavano attraversando il lungo viale alberato che dalle mura che circondavano Villa Oldfield attraversava il parco, interrotto soltanto dall’alto cancello scuro che recava tra le sbarre finemente decorate lo stemma gentilizio rifinito in oro. Per anni aveva varcato quel cancello nei più diversi stati d’animo: stanco dopo la scuola, orgoglioso dopo un concerto, agitato per qualche scappatella notturna, annoiato nei lunghi pomeriggi estivi. Ora era lì di nuovo, quattro anni dopo averlo lasciato, con il cuore distrutto e nessuna speranza per il futuro.
Fulke andava al passo, le redini abbandonate sul dorso, appena appoggiate tra le dita di Griša. Anche lui approfittava del fresco della sera prima di affrontare un’altra torrida giornata, eppure sentiva che qualcosa non andava: era come se un’indefinibile sensazione di tristezza e di sconfitta gli fosse filtrata nel cuore attraverso il lieve contatto con il padroncino. Forse ne avvertiva la disillusione? Fu lieto di tornare nella scuderia.
Griša salì a passi stanchi la scalinata che portava all’imponente ingresso, aprì la porticina ricavata dal portone principale e si intrufolò dentro, guidato dalla luce della luna che filtrava dai finestroni fino alle camere da letto.
Nella penombra della sua stanza distinse le lancette fosforescenti della sveglia che segnavano le due e un quarto: non si era reso conto di quanto veloce fosse trascorso il tempo. Dralbij, avvolto in un leggero lenzuolo, dormiva già. I capelli, arricciati dal contatto col cuscino, risaltavano biondi in una sottile raggio di luna, e aveva il volto rilassato e il vago sorriso di chi è al cospetto di un sogno bellissimo. Griša si spogliò in silenzio, trovando al buio i pantaloni del pigiama, e si raggomitolò sul suo letto, abbandonandosi alla fresca sensazione che il lenzuolo pulito gli dava sulla schiena nuda. Poco prima di scivolare nel sonno ricordò vagamente quell’altro abbraccio, e si vide strappare via da quel nido d’amore da un’ombra scura che nella luna prese le fisionomie sogghignanti di Lestadt. «Maledetto…» sussurrò.

«Maledetto!» ringhiò Estel, alzandosi di scatto dal divano rosso del suo salotto «Non azzardarti mai più a parlar male di Griša!» «Dimenticalo, tesoro» sbadigliò pigramente Lestadt, cercando la camicia tra i vestiti accatastati alla rinfusa sul tappeto «Non è forse quello che ti ha detto lui quando vi siete lasciati? Devi ubbidire al tuo generale! L’hai più sentito? Vedi, anche lui si è già dimenticato di te. Cos’aveva da darti? Tu cerchi l’avventura, il lato perverso dell’amore, e lui cosa ti dava? Soltanto canzoni e dolcezza: melenso fino alla nausea. Credimi, cara, quel ragazzo poteva essere di due anni più vecchio di me, ma aveva ancora così tanto da imparare che…».
Lo schiaffo lo colpì alla bocca con tale violenza da aprirgli un taglio sulle labbra, che subito si riempì di sangue. «Ripetilo, se ne hai il coraggio!» tuonò Estel, tremante di rabbia «Ripetilo soltanto! Tanto perché tu lo sappia, sei solo un bambino viziato. E Griša, il mio Griša, era la persona più dolce del mondo senza essere opprimente. Tu pretendi di tenermi al guinzaglio, di avermi sempre sotto controllo, di poter venire a casa mia in qualsiasi momento: sei assillante! Griša sapeva quando io avevo bisogno della mia solitudine, e non si sarebbe mai azzardato a tormentarmi così come fai tu. Ricordo che una volta è venuto a trovarmi a sorpresa, e trovandomi addormentata – era piuttosto presto – se n’è andato via senza far rumore, percorrendo tutti i chilometri fino a Via dei Fiori Bianchi a piedi, lasciandomi una rosa sul cuscino. Una rosa dalla quale aveva tolto tutte le spine. A te non passerebbe mai per la mente neanche l’embrione di un’idea così romantica! E pretendi anche di poterlo criticare?». Lestadt impallidì, tamponandosi il labbro con un fazzoletto: «Ma tu…» farfugliò «Quando ti ho abbracciata quella notte sul letto di Griša… e quando due sere dopo ti ho baciata… tu non ti sei tirata indietro! Come puoi ora…». Dovette interrompere in fretta la frase per rattrappirsi sul divano e schivare un secondo schiaffo sibilante più violento del primo. Estel, ormai fuori di sé, urlò: «Tanto per cominciare, non voglio più sentir nominare quei giorni. E non osare mai più a chiamarmi tesoro, o amore, o qualunque altro vezzeggiativo ti venga in mente: c’è una sola persona al mondo che può farlo, e non sei tu!».
La bambina che lei portava in grembo da quattro mesi ormai scelse proprio quel momento per scalciare, e lei ne approfittò per continuare: «Perfino Sissi, la figlia mia e di Griša, è d’accordo con me. Sparisci da qui, subito… sfasciafamiglie! Ora me ne andrò dritta a casa di Griša, e se farai anche un solo passo per cercare di fermarmi, ti do la mia parola di colonnello Antirealista che ti caverò gli occhi a unghiate!» «Anch’io sono colonnello» ribatté lui, meno baldanzoso rispetto a prima, ma Estel sogghignò crudele: «Oh, no, ti sbagli. Il tuo grado, per quanto mi riguarda, è in fondo al cesso e ci resterà per un bel pezzo… sempre che Griša o Dralbij, i generali, non decidano di riammetterti. Ma non avere alcun dubbio, non lo faranno, e se anche qualcuno dovesse avanzare qualche ipotesi, io sarò la prima ad oppormi!».
Lestadt capì solo allora che era finita, che non sarebbe potuta durare. Qualunque cosa ci fosse stata tra loro due in quella misera parentesi era svanita nel nulla, e ora gli conveniva fuggire prima di incappare nelle pericolose ire dei terribili generali, notoriamente vendicativi e accaniti nei loro rancori. Griša doveva essere distrutto dall’aver perso Estel, ma una volta che lei fosse tornata da lui…? Ricordò con un brivido il primo generale intento a studiare polverosi trattati di magia nera: e se gli avesse scatenato contro demoni o spiriti o qualche perfida maledizione? Si rivestì in fretta e furia, già credendo di aver sognato tutto di quella sera di fuoco, corse fuori senza voltarsi indietro e partì sul suo scardinato motorino nero.
Estel si lasciò cadere sul divano e pianse amaramente, singhiozzando: «Griša, amore mio, dove sei? Perché non ti sei ribellato quella terribile sera? Oh, se non fosse mai esistita… nulla di tutto questo sarebbe accaduto! Perché, perché, perché? Ritorna da me… dimmi che va tutto bene, che dopo il temporale ritorna sempre il sereno…».
Piangendo anche lei si era rivestita; afferrata una felpa dall’appendiabiti, se la avvolse ai fianchi per tenere al caldo la vita che le cresceva nel ventre e corse fuori nella fredda notte pietroburghese.
Prese l’ultimo autobus della notte, carico di ubriachi e derelitti, e partì alla volta di Via dei Fiori Bianchi in una notte scura e nuvolosa, agitata da un vento che faceva gemere gli alberi spettrali nella luce della luna, limpidissima in quelle zone di periferia sotto l’argine della Neva. Di tanto in tanto cadeva qualche goccia di pioggia vagabonda, avanguardia di qualche violento temporale estivo. Non c’erano autobus per tornare a casa, ma lei confidava nell’abbraccio protettivo e rassicurante di Griša, nell’umile ma accogliente soffitta in cui abitava con Dralbij. Sorrise tra le lacrime che le striavano il volto teso, immaginando il tepore della notte che la aspettava: l’avrebbe svegliato sicuramente, alle due della notte, l’avrebbe fatto preoccupare… ma gli avrebbe gettato le braccia al collo, l’avrebbe baciato e tutto l’incubo sarebbe finito.
Il grande condominio di Via dei Fiori Bianchi era buio, ma lei non si scoraggiò e si fece aprire la porta da un assonnato portiere notturno. «Cerco Grigorij Delacroix e suo fratello Dralbij» disse trafelata «Anzi, credo ci sia solo Grigorij. Dralbij lavora al Blackjack stanotte, no?»
Il portiere la squadrò con sospetto, poi si decise a rispondere: «Grigorij non abita più qui da ormai tre settimane» bofonchiò con l’alito che puzzava di fumo e di alcol «È partito insieme a Dralbij con zaini, valigie e chitarre. Non hanno detto quando torneranno, ma la cosa non mi riguarda: sono proprietari, non hanno affitto da pagare, possono tornare a loro piacimento. Forse alla fine dell’estate li potrà trovare».
Estel non disse una parola: si trascinò fuori nella notte, frastornata, e si sedette su una panchina. «Sissi» mormorava alla figlia non ancora nata «Tuo padre non c’è più». Detto questo scoppiò in un pianto dirotto, incurante delle gocce di pioggia che cadevano sempre più copiose fino a trasformarsi in un unico, impalpabile acquazzone estivo.
Ora sì che si sentiva sola: anzi, abbandonata. Lei aveva tradito Griša, e ora non aveva nemmeno la possibilità di rimediare perché lui se n’era andato per sempre. E poteva essere ovunque! Forse era tornato al Liverpool, sua città natale, o forse aveva pensato di rivedere Villa Oldfield e di stabilirsi lì; ma già quelle due ipotesi sembravano escludere per lei ogni possibilità di ritrovarlo: come avrebbe fatto a raggiungere Liverpool o Southampton da Pietroburgo, sopportando il timore di aver sbagliato le sue congetture? E se invece fosse andato addirittura dall’altra parte del mondo? Aveva parenti in Louisiana, negli Stati Uniti: perché non andare là, ben lontano da chi gli aveva fatto tanto male?
Estel si riebbe dalle sue meditazioni soltanto quando un ciuffo bagnato di capelli biondi le sfiorò la guancia: non voleva prendersi un’influenza per poi far stare male anche la figlia, era meglio risparmiarle certe tensioni. Povera bambina senza padre. Lentamente si alzò e, camminando alla cieca, arrivò a casa del suo migliore amico Moonlight, non molto distante da Via dei Fiori Bianchi.
C’era la luce della camera da letto illuminata, notò con sollievo, e suonò il campanello. Moonlight si affacciò alla finestra preoccupato, inforcando gli occhiali, e quando vide Estel sconvolta e in balia della pioggia si precipitò giù dalle scale ad aprire la porta. «Cos’hai combinato?» esclamò, sgomento «Dov’è Lestadt? Sei andata da Griša?».
Estel non rispose, avvolgendosi in un ampio asciugamano che Mira, la ragazza di Moonlight le aveva portato. Fissava nel vuoto con gli occhi color mare dilatati dall’angoscia, e solo qualche minuto più tardi riuscì a mormorare: «Lestadt non fa più parte della mia vita. E Griša… sono andata da lui… ma se n’è andato. Griša e Dralbij hanno lasciato la città senza lasciar detta a nessuno la loro meta, e adesso… è finita».
Moonlight le aveva portato una tazza di tisana calda, e ora sedeva meditabondo all’altro capo del tavolo, fissando il vuoto con gli occhi verdi socchiusi. «Griša non c’è più» rimuginava, dispiaciuto: erano diventati molto amici, nonostante i sette anni di differenza che c’erano tra loro «E lui, prima che succedesse tutto questo disastro, stava scrivendo uno dei suoi libri nel quale tu eri costretta a lasciare Pietroburgo e noi ti venivamo a cercare. Dunque, è ormai risaputo che i libri di Griša sono delle profezie così impercettibili da poter essere individuate soltanto quando si sono avverate; ma questa è palese!». Estel e Mira lo guardavano incredule, ma lui non le considerò e concluse, trionfante: «Ora ti porto a casa: voglio che tu ti faccia una buona dormita, se non altro per il bene di vostra figlia. Appena ti sarai svegliata preparati una valigia e chiamami: io adesso vado a fare il pieno, e partiremo noi tre alla volta dell’Inghilterra. Liverpool o Southampton?». Commossa da quel gesto di amicizia gratuita, Estel non poté far altro che rispondere: «Liverpool. Era talmente affezionato alla sua città natale che potrebbe davvero essere là. E poi, anche su Oltre il confine aveva scritto che il loro viaggio sarebbe partito da Liverpool!».
Moonlight si infilò velocemente i jeans sopra i calzoncini del pigiama, e poco dopo era in viaggio verso Via del Bosco, con Estel che già immaginava il momento in cui avrebbe rivisto Griša.

Alle dieci del mattino faceva già caldo. Griša e Dralbij erano nel frutteto a lavorare da due ore, e ne approfittarono per fare una pausa. Avevano nello zaino una bibita ghiacciata che parve alle loro gole aride una sorta di benedizione, e la bevvero seduti all’ombra di un ciliegio. Griša raccolse da terra qualche frutto che avevano fatto cadere e lo mangiò, appoggiando la testa al ruvido tronco. «Ne avremo per tutto il giorno» sospirò, asciugandosi il sudore dalla fronte «Forse faremmo meglio a mangiare frutta per pranzo, senza tornare a casa, perché sarebbe una tortura entrare al fresco e poi tornare qua fuori». Dralbij gli fece eco: «Concordo e sottoscrivo. Su, rimettiamoci al lavoro».
Andavano avanti in silenzio, su due filari diversi, i volti lucidi di sudore, soffermandosi solo di tanto in tanto a bagnarsi la testa in un ruscello. Norbert passò a metà pomeriggio attraverso il frutteto, e scoprì che i due fratelli stavano ancora raccogliendo frutta, ma ridendo e scherzando tra di loro: perché mai turbarli raccontando loro di una strana telefonata giunta da lontano, di una voce a lui sconosciuta che aveva detto qualche parola in inglese con una pesante cadenza… russa? «Venite a casa tra poco» disse soltanto, ben deciso a tener loro nascosta ogni cosa.
«Sembrava agitato» commentò Dralbij quando Norbert se ne fu andato, e Griša aggiunse come parlando tra sé: «Più che agitato direi nervoso. Come se fosse capitato qualcosa. E, del resto, anch’io ho come una strana sensazione. Cerchiamo di sbrigarci con gli ultimi quattro filari e corriamo a casa…».
Si rimisero dunque all’opera, e per le sei del pomeriggio avevano finito. Caricate le casse su un furgoncino che Norbert aveva lasciato loro si avviarono verso casa, Dralbij al volante e Griša sul rimorchio posteriore, entrambi ormai convinti che fosse successo qualcosa di grave.
«Tutto bene?» chiese subito Griša, appena entrato in casa, proprio mentre Dralbij sussurrava: «Lo sai che sono abile come cartomante: se Norbert non dovesse rispondere, possiamo scoprire tutto in poco tempo. Sento i miei tarocchi che mi chiamano, e non è una bella sensazione, anche se mi è sembrato di percepire l’aura di una buona notizia». Griša ribatté in tono amaro: «L’unica notizia buona che tu mi possa dare è quella che nulla di questo sfacelo sia successo. Ossia l’unica cosa impossibile, se si tralascia l’illusione che tra quei due finisca tanto all’improvviso quanto è cominciata».
Norbert sbucò dal salotto, imbarazzato: «Già di ritorno, ragazzi? John, ti senti meglio?» «Non finché non avrò saputo che cosa stai cercando di nascondermi!». Il tono di Griša era perentorio e teso, e qualcosa in quegli occhi – speranza o rabbia o entrambe – lo indusse a confessare: «Qualcuno ha telefonato questa mattina, verso mezzogiorno, ma la linea era molto disturbata e non ho capito nulla. Tanto più che chiunque fosse parlava un inglese talmente impregnato di russo che non sarei comunque riuscito a comprenderlo. Era la voce di un uomo, e…» «Lestadt? Moonlight?». I due fratelli si scambiarono un’occhiata dubbiosa: chi mai poteva aver detto a Pietroburgo dov’erano diretti, visto che loro stessi erano stati ben attenti a non rivelarlo a nessuno? Forse era solo una terribile coincidenza: Norbert era abbastanza famoso anche all’estero come musicista, non poteva essere stato scritturato per qualche spettacolo in Russia?
In quel momento il telefono squillò di nuovo: sul display lampeggiava un numero con il prefisso… di Pietroburgo. «Non rispondete!» urlò Griša in preda al panico «Che nessuno, dico nessuno osi rispondere! Mi hanno trovato, mi hanno trovato!». Dralbij cercò inutilmente di rassicurarlo: «Forse si sono semplicemente accorti della nostra scomparsa e ci stanno cercando nei posti in cui è più probabile rintracciarci, come Liverpool e Southampton. Ci vuol poco a trovare una villa che è una cittadella medievale, e con la fama di cui gode Norbert…».
Ma Griša era ormai terrorizzato: «Mi hanno trovato» ripeteva «E tra pochi giorni saranno qui di nuovo: non si può sfuggire alla morte!». Avrebbe voluto gridare tutta la sua angoscia, ma qualcosa gli stringeva la gola: stava forse per rivedere Estel?
Dopo una doccia rinfrescante si accoccolò sul davanzale interno della finestra della stanza da letto, guardando fuori: c’erano le mura e il cancello a fermare eventuali invasori, e se anche fossero riusciti a passare c’erano sempre i boschi circostanti per fuggire e nascondersi. Villa Oldfield, inoltre, era abbastanza ricca da consentire loro di sopportare un assedio lungo parecchie settimane: non sarebbero morti d’inedia né di noia. Poi si rese conto che tutta quell’inquietudine riguardava solo lui: Dralbij l’aveva seguito per affetto fraterno, non per scappare da qualche situazione critica. E Norbert, per quanto ben informato, non avrebbe mai potuto capire del tutto quanto era successo: avrebbero finito entrambi per considerarlo un pazzo, come stavano già probabilmente facendo. «Devo distrarmi» decise, alzandosi di scatto «Domani comincerò a cercare i vecchi amici e cercherò di ricostruirmi qualche base per riprendere a vivere».
Quella sera si sforzò di essere più naturale e rilassato possibile, e scoprì che recitando quel ruolo vi si stava immedesimando sempre di più. C’erano ancora le ondate di dolore a fargli bruciare il cuore, ma sembravano meno intense dei giorni precedenti; forse era lui che aveva imparato a convivere con esse, ma non gli importava più granché.
Dopo cena lui e Dralbij presero le loro chitarre e andarono a sedersi in soffitta, dove Norbert aveva riposto tutti i suoi vecchi strumenti che non usava più. Era lassù, in quell’aura magica e polverosa, che si sentivano più a loro agio per abbandonarsi nel fiume della musica, e rimasero tra le scure pareti di legno fino a quando la luna tornò a piovere attraverso gli abbaini, cantando le canzoni che avevano composto e ricordando i concerti fatti a Pietroburgo.
Ormai non più molto lontano, anche qualcun altro osservava la luna in attesa del sole per rimettersi in viaggio: Moonlight e Mira dormivano, stanchi nonostante i turni di guida che si erano dati per tutta la giornata, mentre Estel lasciava che la luna giocasse con i riflessi dei suoi capelli. Stava pensando a Griša, a dove potesse essere colui che si rendeva conto di amare tanto solo ora che l’aveva perduto, e tra le ciglia bagnate rivedeva i mesi trascorsi insieme. La sua mente si rifiutava di pensare a Lestadt, eppure la coscienza insisteva: «Non ti sei mai tirata indietro con lui…», in un ritornello ossessivo che rischiava di farla impazzire. Anche il magro conforto che ricavava parlando alla figlia, nel silenzio della notte, sembrava impotente di fronte a quei rimorsi. Di giorno c’erano Moonlight e Mira con cui parlare, quando non sonnecchiava sui sedili nel caldo del primo pomeriggio, ma ora…
Silenziosamente, per non svegliarli, aprì la portiera della macchina e scese nella notte del porto di Le Havre: doveva essere circa mezzanotte, il che voleva dire che mancavano meno di otto ore alla loro partenza in traghetto. Sarebbero approdati a Southampton nel giro di tre giorni, e da lì avrebbero cominciato la loro ricerca. Decisione, questa, che avevano preso dopo che Moonlight aveva telefonato a Villa Oldfield: sebbene fosse caduta subito la linea, lui era convinto di aver notato una nota di tensione nella voce di Norbert, e questo sembrava la prova che lui perlomeno sapesse qualcosa.
Estel non poteva fare altro che aspettare; così tornò in macchina, non prima di aver augurato mentalmente la buonanotte al suo amore lontano: «Sogni d’oro, Griša. Spero che un giorno torneremo felici come siamo stati “prima”».

«Fratellino, vieni a letto?» chiamò Dralbij «Ci conviene dormire, se domani verranno qui gli Smoky Beetles. Ci aspetta un pomeriggio di musica allo stato puro, e se abbiamo fortuna Norbert ci farà scritturare alle Lanterne, il miglior night-club di tutta Southampton!». Griša chiuse le imposte e sbadigliò: «Certo, stavo soltanto dando la buonanotte a Estel». In quegli ultimi giorni sembrava molto cambiato: la disperazione che lo stava uccidendo aveva lasciato il posto ad una sorta di dolce rassegnazione, nella quale lui viveva normalmente, ma avvolto in un’atmosfera elegiaca che lo portava spesso a perdersi tra i sentieri della sua mente. Era ancora innamorato perso di lei, e non si dava la pena di nasconderlo, sebbene fuggisse ogni discorso su quant’era successo. Soltanto a Dralbij confidò, una volta: «In fondo Lestadt le dava ciò che io non sarei mai stato in grado di darle, che guarda caso era anche ciò che lei desiderava. Sono stato un egoista a pretendere che Estel vivesse per sempre con me: in realtà quello che desidero di più è che lei sia felice, e ben venga qualcuno in grado di realizzare questo sogno. Lei ha fatto la sua scelta, e per me logicamente non c’è più posto: ho fatto bene ad andarmene, evitandole l’imbarazzo di avermi ancora tra i piedi» «Forse non è finita così» aveva azzardato timidamente Dralbij, ma Griša l’aveva zittito con un sorriso dolce e disilluso: «Era giusto così». E da quel giorno erano spariti gli incubi e le crisi.
Ciascuno nel suo letto, i gemelli dormivano già pochi minuti dopo essersi augurati la buonanotte, e li svegliò solo il trillo della sveglia la mattina seguente, accompagnato dall’aroma del caffè e delle brioche calde che saliva dalla cucina. La cuoca, una rubiconda e materna signora italiana di mezza età di nome Ida, doveva aver preparato la marmellata con la frutta che loro avevano raccolto quattro giorni addietro, e il profumo che invadeva la casa lasciava indovinare che l’avesse usata per farcire i dolci appena fatti.
Griša e Dralbij si vestirono in fretta, riassettarono i letti e si precipitarono in cucina, già con l’acquolina in bocca, tuffandosi sul tavolo imbandito delle migliori leccornie. Griša si rivolse in italiano alla signora Ida (Norbert aveva voluto farglielo imparare per poi introdurlo alla letteratura medievale della quale era un appassionato): «Mai mangiato così bene» disse «Complimenti, signora!». Dralbij, che non conosceva l’italiano, si limitò all’inglese per commentare: «Credo che nemmeno nei locali più lussuosi possano godere di dolci così squisiti».
Si stavano ancora rimpinzando di brioche e cappuccino quando suonò il campanello, e dal cancello di metalli pregiati lavorati a sbalzo entrò una station wagon blu pilotata dal bassista Paul, l’unico degli Smoky Beetles ad avere la patente. Scesero anche i due chitarristi Arthur e George, e per ultimo il batterista Ritchie, e tutti si voltarono con aria interrogativa verso il portone d’ingresso. «Di nuovo qui» commentò Paul «Ho proprio voglia di rivedere Clyde: quando due anni fa l’ho conosciuto aveva promesso di insegnarmi alcune canzoni che mi ha fatto sentire. E chissà il vecchio Johnnie quante ne ha combinate in questi anni?» «Meglio non parlargliene» suggerì Arthur a mezza voce, lui che aveva parlato con Norbert lo scorso mese «Ha avuto una brutta avventura. Sapete che stava per mettere su famiglia, no? Beh, pare che la sua ragazza se ne sia andata con un suo amico… ma dev’essere stata una cosa atroce, perché credo che sia arrivato qui malato. Non facciamogli domande, intesi?».
Griša fece capolino da dietro il portone; aveva i capelli leggermente più corti di come li ricordavano, e a ciuffi schiariti da qualche esperimento con l’acqua ossigenata. Gli occhi sembravano più grandi nel volto smagrito, e le notti di sonno recuperato non erano riuscite a cancellare due profonde occhiaie… ma sembrava essersi ripreso bene rispetto ai giorni passati. Appena vide gli amici corse loro incontro festoso, ma non si lasciò abbracciare da loro: era un’altra delle caratteristiche che aveva ereditato nel suo cambiamento di vita. Guai ad avvicinarlo, guai a riservargli un gesto gentile: stava erigendosi certe barriere contro qualsiasi emozione diversa dall’odio e dal rancore che preoccupavano perfino Dralbij, colui che per primo gli aveva insegnato a non considerare sentimenti che avrebbero potuto finire per fargli solo del male. Dietro di lui c’era Dralbij, lui con i capelli appena più lunghi di come li aveva avuti al suo primo incontro con gli Smoky Beetles. «Ciao ragazzi!» esclamò «Come vi sono andati gli esami di maturità due anni fa?». Bene, a tutti quanti: Paul per primo, che se l’era cavata con la media più alta tra tutti loro che avevano frequentato un liceo classico; era secondo solo al voto di Dralbij, che però spesso non faceva testo in quanto proveniente da un’altra scuola.
I sei amici entrarono al fresco della casa, scomparendo subito nel seminterrato adibito a sala d’incisione. «Volete subito registrare?» chiese Norbert, incredulo «Ma se non suonate insieme da due anni!». Né gli Shining Night né gli Smoky Beetles vollero però sentire ragioni: e così, dopo una mezz’ora di chiacchiere più per tradizione che per altro, cominciarono a sistemare il loro impianto. «Ci vorrebbe qualcuno al mixer» sbuffò George «Con tutti questi strumenti collegati, è veramente impossibile stare dietro a tutto. Ci di voi conosce qualcuno che potrebbe aiutarci?» «Moonlight» risposero in coro Griša e Dralbij «Un nostro amico di Pietroburgo. Era l’addetto al mixer del suo gruppo musicale, ed era bravissimo: mai sentito fischiare i microfoni, con lui, e i volumi erano sempre perfetti» «Sì, Pietroburgo!» sbuffò Ritchie «Perché non gli diciamo di venire fin qui in bicicletta, allora? Sono solo poche centinaia di chilometri!». George interloquì: «Non in veste ufficiale, magari; eppure credo sarebbe bello che venisse anche lui con noi qualche volta. Abbiamo tutta l’estate davanti, e Villa Oldfield è l’ideale per organizzare grandi feste: invitiamo qui tutti i vostri amici russi!» «Non è il caso» ringhiò Griša in un tono che non ammetteva repliche. Qualcosa di tagliente nella sua voce indusse tutti i presenti a cambiare frettolosamente argomento, e Ritchie sottolineò l’inizio delle prove con un’esplosiva rullata sulla batteria che li fece sobbalzare.
Ci volle mezz’ora per regolare tutti i volumi dal mixer – e se non fosse stato per l’aiuto di Norbert sarebbe andata sprecata tutta la mattina –, ma quando furono sicuri di poter partire si dedicarono anima e corpo alla musica: canzoni scritte da loro, celeberrimi brani di quegli anni, ma soprattutto vivaci improvvisazioni. Avevano ogni ben di Dio di strumenti, che spaziavano dai classici come chitarre e pianoforti fino a quelli più esotici: sitar indiani, launeddas sarde, strani strumenti africani senza nome. E poi ancora un banjo, ottoni, archi, almeno un centinaio di fiati di ogni tipo. Dralbij si era innamorato di un’ocarina, dalla quale stava imparando a trarre certe dolci note modulate, e Griša non voleva togliersi dalla mente l’arpa celtica e la cornamusa che ancora sapeva suonare. «Facciamo un po’ di musica medievale!» supplicava già da una mezz’ora, e Arthur gli si aggiungeva: «Basta che dopo ci buttiamo sull’irlandese!». Ancora non riuscivano a credere di avere davanti anni e anni da trascorrere insieme, ed erano tutti in preda alla frenesia di voler provare tutto e subito. Dal piano di sopra Norbert fu tentato più volte di scendere a ricordarlo loro, ma sempre si trattenne all’ultimo momento, con un filosofico: «Lasciamoli fare!».
I sei non uscirono dalla sala d’incisione nemmeno per il pranzo; soltanto all’ora di cena la signora Ida riuscì a stanarli con la promessa di qualche piatto speciale all’italiana servito al fresco del giardino, tra fiaccole alla citronella per tenere lontane le zanzare. «Dovremmo fare una festa sulla spiaggia» obiettò Arthur «Con musica, cibo, alcolici e soprattutto tante ragazze! Johnnie, quand’è che tuo padre se ne andrà dalla sua donna qualche giorno?». Risero tutti così forte da far risuonare la notte tranquilla: in quanto a ragazze, Arthur era famoso per non averne mai avute molte nonostante le sue idee. Era fedelissimo a Sally, la sua ragazza da ormai otto anni, e a differenza di tutti gli altri della compagnia era pressoché impossibile indurlo in tentazione. C’era stato un periodo in cui lui e Griša erano stati come i due poli opposti… ma quanto lontano era quel tempo!
«Una festa!» Dralbij era estasiato «E io finalmente potrò tornare a fare il croupier! Gestire la serata nelle pause tra una canzone e l’altra… dadi, carte e roulette! Anzi, io e Griša potremmo anche raccontare storie: ci siamo sempre divertiti, la sera prima di addormentarci, a inventarne sempre di nuove… e Dio solo sa quanta fantasia abbia mio fratello» «Me lo ricordo» sorrise Arthur «Quante notti d’estate abbiamo passato sulla spiaggia con tutta la cerchia e le storie di Johnnie…» «Di Griša, a questo punto» obiettò George «Il nostro compositore ufficiale pare ormai essersi talmente abituato al suo nome russo da sentire estraneo quello inglese!». Griša, che si era appena arrampicato su un ciliegio a raccogliere i frutti più alti, fece capolino tra le frasche per ribattere: «Potete chiamarmi come vi va, tanto entrambi i nomi hanno brutti ricordi… Estel e Griša, Bettina e John: sembra quasi di parlare di due persone diverse, peccato che chi si prende la bastonata nei denti sia sempre lo steso povero scemo che crede nell’amore». Aveva parlato seriamente; ma il vederlo comparire così all’improvviso, appeso a testa in giù su un ramo grosso quasi quanto lui, ebbe il potere di far ridere tutti. «State zitti» sbottò lui, cercando di nascondere le risate «E qualcuno venga a prendere il cestino prima che mi cada, non sono esattamente in equilibrio quassù!». Dralbij si precipitò a soccorrerlo, mentre Arthur scherzava: «Figurati! Hai un’agilità quasi gattesca: ricordi quante volte per uscire di notte con Bettina, o con Tresy, o con Chantal, o con Alex…» «Sì, con tutte le ragazze di Southampton adesso?» lo canzonò Paul, inascoltato perché lui continuò imperterrito: «…ti sei calato giù dall’abbaino della soffitta in cui avevi la camera? Camminavi in bilico sui cornicioni, scivolavi dalle grondaie e mai una volta ti sei fatto scoprire da tuo padre! Per non parlare delle autentiche corse sugli alberi che facevi nel bosco o sull’orlo della scogliera…».
Erano sei ragazzi, tutti suppergiù della stessa età, che chiacchieravano allegramente in compagnia: i vecchi fantasmi nel cuore di Griša stavano svanendo lentamente, così come anche l’amore moriva pian piano, sfumando in un dolce ricordo velato di tanta tristezza.

«I Gabbiani in concerto alle Lanterne, stasera» lesse ad alta voce Moonlight «Entrata sette sterline per ogni gruppo familiare, sei per ogni coppia, otto per i solitari. Ragazze, è carissimo questo posto! Capisco che ci sia da festeggiare l’essere arrivati a Southampton, ma questo non vuol dire dilapidare tutto il patrimonio con una birra che costerà almeno tre sterline…» «Qui si gioca anche d’azzardo!» esclamò Mira, leggendo qualche riga più in basso «Due dei componenti della band si occuperanno di regalarvi il brivido della roulette! Le puntate saranno fatte esclusivamente con gettoni che vi verranno consegnati alla cassa…».
Estel, mortalmente pallida, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla locandina. «I Gabbiani» mormorava «Era così che si erano fatti chiamare gli Shining Night e gli Smoky Beetles la prima volta che hanno suonato insieme. E poi, due croupier? Griša e Dralbij! Potremmo averli trovati, me lo sento, e deve averlo capito anche Sissi che scalcia da tutto il giorno. Entriamo!» «Non abbiamo abbastanza soldi per tutti» le ricordò Moonlight «E poi, ho sentito molte voci su questo posto: dicono che siano molto “selettivi” all’ingresso, al punto da far entrare soltanto… insomma… i connazionali. Noi tre siamo russi! Io ho un nome inglese, Mira pure, e tu puoi usare il tuo secondo nome Selene, ma come la metteremmo con l’accento? Nessuno di noi conosce abbastanza inglese per ingannare i portieri. Andiamo via: per ora sappiamo che Griša e Dralbij sono qui in zona, e non dovremo girare tutta l’Inghilterra per cercarli».
Proprio in quel momento un uomo lasciò il locale, esclamando estasiato: «Quei ragazzi sono un fenomeno! Li ho sentiti quando hanno cominciato la loro carriera a Liverpool, ero con loro ai primi concerti di Southampton, e ora che dopo due anni di silenzio sono tornati… mio Dio, devo correre a chiamare i miei figli, qualcuno insomma!».
I tre fermi all’entrata si guardarono l’un l’altro: non avevano capito tutto di quel frettoloso discorso, ma quanto bastava per essere ancora più sicuri di essere arrivati alla meta. «Griša è lì dentro!» supplicò Estel «Perché volete impedirmi di rivederlo?». Moonlight sbuffò: «Se volessimo impedirtelo, secondo te avremmo fatto tutto questo viaggio per portarti qui? Ora mettiti tranquilla, andiamo a bere qualcosa e torniamo alla macchina: domattina, appena ti sveglierai, prometto che ti porterò a Villa Oldfield».
Estel non voleva rassegnarsi, non ora che gli era arrivata tanto vicina, così domandò: «Possiamo almeno fermarci qui fuori? Da quella finestrella sul retro dovrebbe sentirsi la musica». Impossibile non accontentarla: i tre raggiunsero la viuzza dietro il locale e, seduti su una panchina, ascoltavano quelle canzoni che per quattro anni avevano sentito solo da Griša e Dralbij. Risentire le loro voci perfettamente armonizzate su un autentico tappeto musicale era un’emozione… peccato che tutto fosse così triste. Estel ascoltava rapita, gli occhi lucidi, e intanto la sua mente correva a Lestadt, alla sua terribile colpa…
All’interno, i Gabbiani avevano finito. «Ragazzi, che caldo!» sbuffò Dralbij, sedendosi su una cassa a sventagliare uno spartito «Era meglio suonare nei bar di Pietroburgo: là almeno non c’era tutta quest’afa. Avete dell’acqua, per favore?». Gli fu portata una bibita ghiacciata, paradisiaca in quel caldo.
Griša era sceso dal palco a salutare chi conosceva, e proprio in quel momento stava parlando con un entusiasta fan che non lo lasciava in pace un momento: «Ho portato tutta la mia famiglia, e anche tutti gli amici che riuscivo a trovare… per voi. Oh, siete incredibili! Ho letto tutti i racconti che anni fa hai pubblicato sui giornali minori: perché non ti butti sul Reader's & Writer's? Scrivi così bene che avresti un successo mondiale…». Annoiato, Griša non lo ascoltava che a intermittenza, troppo impegnato a salutare tutti i vecchi amici che aveva intorno; ma l’esaltato attirò di colpo la sua attenzione raccontando: «Poco fa ho trovato tre ragazzi, qui fuori, e passando loro accanto ho sentito che non parlavano nemmeno inglese: ho provato a convincerli ad entrare – li avrei fatti entrare io insieme a me –, per fare in modo che la vostra fama raggiunga anche i paesi più lontani».
Griša impallidì appena sotto l’abbronzatura, come sempre gli succedeva quando qualcuno gli nominava “una lingua diversa dall’inglese”: e se fossero stati loro? «Mi può descrivere i tre che ha visto?» chiese, sforzandosi di mantenere la calma.
Dralbij, vedendolo nervoso, gli si avvicinò giusto in tempo per sentire la descrizione dell’uomo: «Sono scesi da una macchina grigio chiaro che non ho mai visto; il guidatore sembrava un ragazzino, piccolo di statura e mingherlino, ma a quanto pare doveva avere la patente da un pezzo perché ha parcheggiato benissimo. Aveva i capelli corti, scuri, e gli occhiali. Vicino a lui c’erano due ragazze: una, più alta e più vecchia di lui, con i capelli neri e un po’ più in carne, e l’altra… non saprei come dire… sembrava quasi una fata, ma aveva una luce strana negli occhi. Sì, quegli occhi color ghiaccio mi hanno proprio colpito, e… Dio del cielo! Ti senti bene?». Griša respirava a fatica, appoggiato ad un tavolino, e senza dare risposta corse sul palco seguito da Dralbij che cercava invano di mentire: «Forse è stata una coincidenza!». Lui non lo ascoltava; presa la chitarra, iniziò a suonare meccanicamente, per scacciare dalla mente il pensiero atroce che l’aveva strozzato. Non potevano averlo già raggiunto! «Pensaci su» gli disse Dralbij, posandogli un braccio sulla schiena tremante «Ha descritto Moonlight, probabilmente la sua ragazza e poi Estel. Non ha parlato di Lestadt! E se lei è qui… se fossero ancora insieme, ti pare che sarebbero così lontani?».
Gli Smoky Beetles, afferrata la situazione, fecero il più in fretta possibile a sbaraccare il palco, caricando gli strumenti sul pulmino di Norbert parcheggiato sul retro. Nessuno di loro osò alzare la testa verso le tre figure sedute sulla panchina, ma erano ben consapevoli dei sei occhi indagatori che chiedevano loro dove fossero i due elementi mancanti dei Gabbiani. Per evitare di farsi capire parlavano tra di loro nel dialetto di Liverpool, a volte incomprensibile dagli stessi abitanti di Southampton.
Griša tremava, nascosto in un camerino: «Sono loro e sono qui. Come faccio ad uscire? Io… io non voglio affrontare Estel! Non voglio sapere di lei e Lestadt… voglio solo dimenticare. Ho voi, adesso, ho una nuova vita: perché loro devono tornare?». Dralbij si offrì: «Sarò con te quando uscirai, te lo giuro…», ma lui fu inflessibile: «No. Se devo affrontare il mio destino lo farò da solo. Tu vai, ora, vai a casa con Norbert e digli che starò fuori forse anche tutta la notte. Lui sa come stanno le cose, capirà…». Gli fremeva la voce, e aveva gli occhi colmi di angoscia, ma sembrava ben determinato nel suo intento.
E così Dralbij uscì dal portone principale, aspettando il furgoncino viola che l’avrebbe portato a casa, tragicamente consapevole dell’agitazione del fratello. Norbert non voleva partire, ma tutti erano concordi: «Se vuole restare da solo, lasciamolo solo».
Dralbij e gli Smoky Beetles sparirono nella notte: l’euforia del concerto e le banconote fruscianti in tasca non contavano niente, pensando a quanto stava per succedere.

Griša non aveva il coraggio di uscire: «Forse» pensava «Se resto qui dentro loro se ne andranno…».
La voce di Moonlight non lo colse impreparato: l’aveva sempre saputo che sarebbe finita così, che l’incubo l’avrebbe perseguitato in eterno. «Ciao, Grigorij. Che ne dici di venire fuori? Credo ci sia qualcuno che ti deve parlare». Griša alzò gli occhi scuri, grandi e afflitti: «Perché siete venuti qui?» domandò, non con rimprovero ma con una tristezza senza fine. Non parlava in russo da quando aveva lasciato Pietroburgo, e gli fece uno strano effetto. Alcuni dei presenti, sorpresi, si soffermarono ad ascoltare.
Moonlight si sedette su uno sgabello e cominciò a parlare: «Estel e Lestadt si sono lasciati cinque giorni dopo essersi messi insieme, e ora è come se tra loro non ci fosse mai stato niente. Nessuno potrà mai dire cosa sia successo né perché, ma questo non importa. Sappi che già il giorno dopo quel sabato sera in cui è successo il fattaccio, Estel ha parlato con me per delle ore: voleva disfarsi di Lestadt al più presto, e i rimorsi le stavano togliendo il sonno. Avrebbe voluto chiamarti già il giorno dopo la sua… serata, ma era convinta che tu non avresti mai più risposto al telefono. Dovevo essere io l’intermediario. Quando ti ho cercato, però, a casa tua non ha risposto nessuno. Giovedì, esattamente cinque giorni dopo, Estel ha lasciato Lestadt ed è corsa da te, a piedi sotto la pioggia, e ha trovato la casa vuota. Il portiere ha detto che ve ne eravate andati per sempre, e quando lei è arrivata da me era distrutta. Non merita quello che ha sofferto, nessuno lo meriterebbe. Ora, per favore, vieni fuori, se non per Estel almeno fallo per tua figlia!».
«No» fu la semplice, categorica risposta «Sono stanco di soffrire, di essere tradito e poi di dover accettare scuse. È sempre successo così! Andatevene, non valeva la pena di cercare uno come me: sono un cuore di pietra, ho seppellito tutti i miei sentimenti, sarei indifferente a tutto».
Gli occhi verdi di Moonlight brillarono per un attimo mentre lui sbottava: «Un cuore di pietra, tu? Suvvia, smettila di fare il bambino imbronciato e vai da colei che ami. È qui fuori che ti aspetta!». Griša andò su tutte le furie: «Se c’è un bambino di mezzo, quello è Lestadt! Aveva quattro anni meno di Estel, e sai quanto sia pesante la differenza alla nostra età! Ora vattene, maledizione, sparisci! Dille che se ne torni pure da colui che ha scelto, o per quanto mi riguarda che si uccida anche!».
D’un tratto si rese conto di quante crudeltà avesse detto e cadde in ginocchio, il volto rigato di lacrime. «Scusa» mormorò «Non sono bravo a recitare questa scena. È che… io non voglio tornare a soffrire ancora…». Già però il suo tono era debole e impacciato, e Moonlight lo guidò fuori, nell’aria fresca di mezzanotte, con un’espressione vittoriosa dipinta in viso, lasciandolo solo sul marciapiede: lui e Mira salirono in macchina e si spostarono nella via a fianco.
La strada era deserta, c’erano solo loro due.
«Buonasera» rantolò Griša, torcendo disperatamente l’orlo della maglietta. Ecco che l’amore rinasceva, divampando come un fuoco e riaprendo ogni singola ferita. Intorno cantavano i grilli.
Estel gli corse incontro con foga, senza dire una parola, e lui un attimo dopo se la trovò stretta tra le braccia. Non ci credeva: stava sognando, e se la vedeva brutta al risveglio quando avrebbe dovuto affrontare di nuovo quell’ingrata realtà. Ma, almeno in sogno, perché non pensare a quel passato così crudelmente perduto? Appoggiò il volto a quei capelli lunghissimi e morbidi, vi passò le dita incerte, e poi fu solo il trionfo del sogno, la vittoria dell’Antirealismo si poteva dire.
Estel, rilassata nel suo abbraccio, non voleva saperne di lasciarlo andare. «Tesoro» sussurrò «È passato tutto, ora, vero che è finita?». Griša non sarebbe mai riuscito a rispondere, era troppo bello, e sarebbe stato atroce poi svegliarsi. Tuttavia si fece forza e la guardò in quegli occhi che di notte sembravano glaciali, perdendosi in quel mare infinito, e mormorò: «Se dovessi morire ora, dormendo, morirei felice per questo sogno così dolce». C’era tanta tristezza in quelle parole che lei ne fu ferita fino in fondo.
Rimasero a lungo così in quel vicolo, riscoprendo quanto calore ci potesse essere in un abbraccio, e nessuno voleva essere il primo a muovere un passo; così, insieme, si presero per mano e andarono verso il centro di Southampton. Moonlight e Mira, in macchina, si baciarono felici: «Ce l’abbiamo fatta!».
Era bellissima quella notte, magica e indimenticabile.
Estel e Griša non tornarono molto tardi alla macchina; non vedevano l’ora di essere a casa, a Villa Oldfield, dove non mancava certo lo spazio per ospitare tutti.
Lestadt non fu mai nominato, come se mai fosse esistito: l’importante era essere insieme ora, e dimenticare l’inferno dei giorni passati. Il delicato contatto delle loro dita intrecciate era la garanzia che l’incubo fosse davvero finito, che ora ci fosse solo l’eterna danza dei giorni davanti a loro.
Norbert, Dralbij e gli Smoky Beetles erano ancora svegli, seduti in giardino, e quando videro arrivare l’auto di Moonlight in fondo al vialetto scattarono in piedi applaudendo: se erano lì, doveva per forza essere andato tutto bene!
Con Dralbij che faceva da interprete, tutti si presentavano: ormai dei cupi giorni passati non era rimasta traccia, contavano solo il presente e il futuro.
Moonlight e Mira ebbero una stanza per loro al piano di sopra, Paul occupò il letto di Griša (e passò tutta la notte ad insegnare nuove canzoni a Dralbij), Arthur, George e Ritchie scelsero la stanza nella quale dormivano sempre quand’erano ospiti a Villa Oldfield, mentre Estel e Griša si sistemarono nell’ala opposta della villa, in soffitta, dove Griša aveva avuto la sua stanza ormai sette anni prima. C’era ancora tutta la mobilia: un largo letto a baldacchino, il comò, il comodino, lo scrittoio, un grande tappeto di canapa a coprire il parquet e, in un angolo, tra scatoloni di vecchi libri, un pianoforte. Griša depositò la chitarra in un angolo e preparò il letto mentre Estel, in fondo al corridoio, si dedicava ad una lunga doccia.
In quell’improvvisa solitudine si infilò il pigiama e si sedette alla scrivania, la testa tra le mani e lo sguardo fisso: stava vivendo davvero quei momenti o era sotto l’effetto di qualche allucinogeno? Era molto concreto come sogno… ma anche i suoi incubi lo erano stati. Nella luce che filtrava da un paralume sul comodino vedeva il letto preparato per due, le valigie di Estel in un angolo: troppi dettagli per essere un sogno. Possibile che lei fosse davvero tornata?
Improvvisamente se la vide davanti e le sorrise: «Sei… vera?» domandò timidamente «Sei la persona che ho amato, perduto… e ora ritrovato?». Per tutta risposta, lei gli sfiorò il viso con una carezza. «Siamo stanchi tutti e due» disse «Andiamo a dormire».
Poco dopo, tra le lenzuola, in quel buio reso totale dalle imposte perfettamente chiuse, Griša si convinse di non aver sognato: era troppo vivo l’abbraccio in cui era avvolto, imbattibile barriera contro tutte le angosce, e lei era così straordinariamente vicina! Perché continuare a imporsi di credere che nulla fosse vero? Nessuno dei due aveva il coraggio di ammetterlo, avevano sofferto troppo per potersi di nuovo fidare reciprocamente: ci sarebbero volute settimane.
Poi, spinto da una forza invincibile, Griša cercò nel buio le labbra di lei e la baciò quasi con paura, sentendo anche dietro le palpebre chiuse gli occhi farsi brucianti di lacrime. Alla sua mente si affacciò l’immagine di Lestadt, e qualcosa gli ricordò che anche lui si era trovato nella medesima situazione… ma riuscì finalmente a scacciarla. Sentiva le dita di Estel affondargli tra i capelli in quel bacio lento e infinito, e per un istante fu certo di non essere più su questa terra, di aver varcato le porte d’oro del paradiso. E credette a quanto stava accadendo, credette che qualche volta i miracoli possono ancora accadere.

L’alba li trovò ancora abbracciati e immersi in un sonno profondo, in una lieve penombra che lasciava intuire appena il biancore delle lenzuola. Griša teneva un braccio intorno alle spalle di Estel, tutta raggomitolata con la testa sul suo petto, e sembrava finalmente sereno dopo tante notti di tensione. Il respiro caldo e tranquillo di colei che amava lo rassicurava, l’aveva cullato per tutta la notte e ora lo stava lentamente svegliando.
Aprì gli occhi con la vaga sensazione di irrealtà che sempre accompagnava il risveglio, e per qualche secondo non riuscì a capire cosa ci facesse nella sua vecchia soffitta; poi, man mano che il sonno lo abbandonava, si rese conto della presenza di Estel e, incapace di trattenersi, le sfiorò la fronte con un bacio, assaporando fino in fondo quell’empireo. Per tutta la notte aveva tenuto una mano sul ventre di lei, in modo da essere vicino anche a sua figlia, e ora quasi gli dispiaceva alzarsi. Sentiva però i primi rumori al piano di sotto, segno che ormai doveva essere mattina, e si convinse pensando che aveva tutta la vita davanti. Così si liberò cautamente dalle coperte e sparì in bagno, per poi raggiungere gli altri al piano di sotto.
Vedendolo arrivare, Dralbij non riuscì a trattenere un sorriso, ma evitò accuratamente qualsiasi allusione agli avvenimenti della sera prima. Se si era risolto tutto, perché continuare a rivangare? Non era forse molto meglio andare avanti come se nulla fosse mai accaduto e lasciare che fosse Griša a parlarne se mai ne avesse sentito il bisogno? Anche tutti gli altri erano d’accordo: avevano ancora tutta l’estate davanti!
I tre nuovi arrivati dovevano essere esausti per il lunghissimo viaggio: dormivano ancora. Così i sei amici si riunirono nel salone e si dedicarono ad avvincenti partite con tutti i giochi in scatola che riuscirono a trovare. Griša e George, poi, avevano iniziato una sfida a dama che attirò Norbert e la signora Ida come concentratissimi spettatori, seguiti a ruota anche da tutti gli altri che, abbandonati il tris, il monopoli e la battaglia navale, si erano riuniti intorno al tavolino.
Vinse George, così Griša lo sfidò a tris, tracciando le quattro linee perpendicolari sul primo foglietto che gli capitò a tiro: anni di esperienza sotto i banchi di scuola li avevano resi imbattibili, e ogni partita sembrava finire senza alcun esito. Ad un certo punto Dralbij tirò fuori il bussolotto dei dadi e sorrise con gli occhi rotondi di innocenza: «Qualcuno ieri sera voleva imparare qualche giochetto tra quelli che ho proposto alle Lanterne?».
Fu così che li trovò Moonlight quando scese in salotto sbadigliando: sei ragazzi e due adulti intorno ad un tavolino rotondo, con Dralbij che gestiva le giocate e Griša che – conoscendo tutti i trucchi del fratello – se ne stava in disparte a giocare a carte con Ritchie. «Sembra la sala ricreativa di un centro per anziani» commentò, in russo. Gli unici due che lo capirono si premurarono di tradurlo agli altri, dopodiché risposero all’unisono: «Stai zitto, tu, che hai sette anni più di noi ed esclusi Norbert e la signora Ida sei il più vecchio di noi!» «E Mira ha tre anni più di me!» ribatté lui in inglese, trionfante, proprio mentre Mira faceva il suo ingresso nel salone, stupefatta da tanto sfarzo.
Visto che Estel dormiva ancora, decisero di non aspettare oltre per fare colazione, tanto più che Griša aveva risposto che si sarebbe occupato lui di portarle un vassoio in camera. Si spostarono quindi tutti in cucina, decidendo i programmi per il pomeriggio, e l’opzione più votata fu una corsa sulla spiaggia con annesso falò serale: era un classico.
«Che vacanza!» commentò Moonlight dopo colazione, osservando i piatti vuoti davanti a loro e tutti i nuovi amici che aveva conosciuto. Riusciva a cavarsela anche con l’inglese, sebbene spesso preferisse ancora ricorrere ai due fratelli come interpreti «Chi l’avrebbe mai detto, nelle condizioni in cui siamo partiti, che saremmo arrivati a tanto?».
Griša nel frattempo si era alzato, con un vassoio colmo in precario equilibrio tra le braccia. Aveva preso focacce, latte, un uovo e una generosa porzione di torta, e davanti agli sguardi perplessi di tutti sbuffò: «Deve mangiare per due, no?». Pensando al fatto che stava per diventare papà – era questione di quattro mesi ormai – si ringalluzzì tutto, e salì le scale a due a due, suscitando anche l’ilarità generale quando, per evitare di rovesciare tutto il vassoio, fece un paio di giri su se stesso come un maggiordomo impazzito.
Arrivò alla soffitta senza aver rovesciato nemmeno una goccia di latte, e aprì la porta entrando in punta di piedi: erano le dieci del mattino, e per quanto gli dispiacesse svegliare Estel si convinse che sarebbe riuscito a farsi perdonare con l’idea del pomeriggio sulla spiaggia.
Appoggiato il vassoio sul comodino aprì uno spiraglio da ciascuna imposta, in modo da lasciar passare solo un raggio di sole, e si sedette sul bordo del letto chiamando Estel a bassa voce: «Buongiorno, amore… su, è ora di alzarsi!». Guardarla dormire così rilassata e tranquilla lo inteneriva, e immaginò il futuro non troppo lontano in cui tra loro ci sarebbe stata anche una bambina. Lui stava per compiere ventidue anni, lei ventiquattro: erano giovani, ma si sentivano veramente pronti ad avere una famiglia.
Estel prima ancora di aprire gli occhi gli prese a tentoni una mano, come per assicurarsi che non fosse tutto un bellissimo sogno, e quando finalmente si decise vide il vassoio stracolmo che lui le aveva portato e sorrise: «Vuoi che nostra figlia sia viziata ancor prima di nascere?» scherzò, e lui rispose, quasi offeso perché non sopportava che lo si prendesse in giro su argomenti dei quali non era particolarmente esperto: «Voglio soltanto che non nasca secca e magra come un chiodo!».
Mentre Estel faceva colazione, lui si sdraiò nella sua metà di letto e disse con noncuranza: «Se nel pomeriggio ci fosse la possibilità di andare a prendere il sole sulla spiaggia, di fare il bagno nel mare o anche un giro in barca e poi la sera di stare tutti insieme intorno al falò, tu ci staresti?». L’entusiastico abbraccio di lei fu una sicura risposta.
Stava per riaccomodarsi sul cuscino quando squillò il telefono dalla sua parte del comodino: qualcuno giù doveva avere risposto e gli stava passando la telefonata al piano di sopra. «Pronto» sbuffò, seccato per essere stato interrotto mentre Estel gli accarezzava i capelli. Dapprincipio rimase immobile con le sopracciglia aggrottate, incredulo, poi strinse la mano intorno alla cornetta del telefono tanto forte da farla scricchiolare e dalla gola la voce gli uscì in un ringhio assassino, in russo: «La tua vita finisce oggi».
Spaventata da tanto odio, Estel gli posò una mano su un braccio e lo sentì teso e fremente: «Chi era? Con chi hai parlato?» «Con il tuo amante Lestadt!» urlò lui, furibondo «Che è a tre chilometri da qui, al molo di Southampton, appena sbarcato dal traghetto… con lo scopo di parlarmi. “Raggiungimi se non hai paura”, mi ha detto: e ora gli dimostrerò quanta paura posso avere di quel pidocchio!».
Estel aveva un’espressione triste e ferita, e lui si rese conto all’improvviso di essersela presa inutilmente con lei. «Ti chiedo scusa» mormorò soffocato, abbracciandola «Sono un po’ scosso. Perdonami. Vado da lui subito, e me la sbrigherò in cinque minuti… promesso».
Stava per alzarsi quando Estel propose: «Riuniamoci tutti noi e andiamo da lui insieme. Con addosso l’uniforme Antirealista. Lui era secondo colonnello, giusto? Ci rimarrà male vedendoci così uniti e compatti anche senza di lui. Va’ a chiamare gli altri, generale, io vi raggiungerò tra un attimo».
Furono tutti d’accordo con lei. E, sebbene le uniformi pietroburghese fossero diverse da quelle inglesi, l’apparenza era quella di un gruppo solido e compatto: Norbert si sentì fiero di loro, di quello che dai loro sogni erano in grado di costruire.
Griša apriva la strada, davanti a tutti; alla sua sinistra c’era Dralbij, e dietro di loro Arthur. Gli altri erano disposti a ventaglio dietro di loro: Estel e Paul paralleli, i due colonnelli, seguiti dai capitani Moonlight e George, e la processione era chiusa da Ritchie che, nel suo umile grado di tenente, era però fiero di quel posto. I cadetti non erano con loro: era stata un’azione troppo improvvisata per potersi organizzare, ma contavano sul fatto che Lestadt fosse solo.

Ed era solo: appoggiato al suo motorino nero, teneva lo sguardo perso sul grigio cemento arroventato. I capelli gli sfioravano le spalle in ciuffi bagnati e disordinati, e appariva distrutto dal viaggio. Estel abbassò gli occhi, e Griša sogghignò con un’aria satanica che la indusse a stringergli una mano in un muto messaggio.
Lestadt si rigirava il casco tra le mani, e incapace di trovare un buon inizio di discorso buttò lì distrattamente: «È stato un viaggio durissimo, con questo caldo» «Te l’ha ordinato il dottore di farlo?» ringhiò Griša, sorprendendo tutti con quel tono demoniaco che lasciava presagire il peggio «Volevi seguire Estel, no? Come se non si fosse capito… ridicolo pidocchio!». Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma l’orribile incertezza che aveva sempre velato i suoi momenti di tenerezza lo convinse a evitare eventuali segnali di debolezza: mai e poi mai avrebbe avuto il coraggio di rivolgerle quella terribile domanda: «È come se non ci fossimo mai lasciati? Siamo ancora insieme?».
Lestadt alzò finalmente gli occhi castani, cerchiati da profonde occhiaie scure. Con il volto incorniciato dai capelli neri, ricciuti e arruffati, sembrava appena uscito dalla peggiore delle prigioni. Peccato che non fosse così. «Voi eravate miei amici» disse lentamente, evitando assolutamente di considerare la presenza di Estel «E io di amici non ne ho mai avuti molti. Non avrei potuto sopportare la solitudine dopo aver trovato voi, per questo sono tornato». Griša sentì le dita di Estel intrecciarsi più strettamente alle sue, ma la sua voce non perse il tono malvagio e tagliente: «E così, povero bambino abbandonato, sei scappato da Pietroburgo per cercare la compagnia della ragazza che…» si fermò in tempo, e cambiò frase: «…la compagnia che hai tradito? Ci hai traditi tutti, me per primo, ma anche tutti coloro che si fidavano di te. E adesso pretenderesti di tornare qui e fare finta di niente? Di rendermi la vita impossibile per doverti sorvegliare, in una costante tensione che mi sfinirebbe?» . Estel intervenne: «Questo vuol dire che tu non ti fidi nemmeno di me!», e lui si chiuse in un doloroso silenzio: no, non si fidava di lei, non con Lestadt nei paraggi. Finché rimaneva a decine di chilometri di distanza poteva illudersi che andasse tutto bene, ma adesso… adesso il bel sogno era finito. Poche ore dopo la sua nascita.
Nell’esercito Antirealista, nessuno riusciva a seguire il dialogo: Dralbij era troppo in tensione per tradurre, e Moonlight non conosceva abbastanza inglese per farlo. Capivano però che la situazione era spinosa, e che il loro generale era a un passo dalla furia. Lestadt era grande e grosso, e dotato di una forza tremenda: sicuramente Griša non l’avrebbe mai affrontato in uno scontro fisico diretto, ma conoscevano fin troppo bene il suo animo vendicativo e perversamente deliziato della sua stessa occasionale malvagità. Tutti loro, inoltre, l’avevano sempre visto alle prese con grossi volumi di magia, e sapevano quanto comodamente sapesse applicare ciò che studiava di volta in volta. Credevano nella magia: non poteva trattarsi sempre di coincidenze!
Dralbij osservava Lestadt con uno sguardo strano: gli voleva bene, in fondo, era suo amico da tanti anni. «Lestadt e Griša si sono incontrati per la prima volta a casa mia» meditava «E fin da subito hanno legato tra loro, chiacchierando mentre io stavo al telefono… oh-oh, con la mia ragazza dell’epoca, prima che decidessi di basarmi sull’Anti-Amore. E poi, esattamente la sera del 17 dicembre 1975, ci siamo trovati tutti insieme alla festa del mio compleanno. Già, quella festa… avremmo dovuto farla il 14, il giorno esatto del mio compleanno: accidenti agli esami dell’università che mi hanno costretto a rimandarla al sabato sera. Quella festa… Griša e Lestadt erano seduti vicini mentre mangiavamo la pizza, e hanno riso e scherzato tutta la sera. Ma Lestadt… lui non ha mai tolto gli occhi di dosso a Estel, che – fatalità della sorte! – sedeva proprio di fronte a Griša, a fianco di Moonlight. Sì, dev’essersi innamorato di lei fin da subito. E forse anche Griša, per quanto sia stato bravo a nasconderlo. E poi c’è stata la messa di Natale: è stato quel mattino che Estel e Griša hanno iniziato a parlare tra di loro, si sono scambiati il numero di telefono e hanno cominciato a uscire insieme. Povero Griša! Ricorderò sempre quant’era indeciso, timido e imbarazzato: gli ci sono voluti due mesi, fino al 5 febbraio dell’anno dopo, per trovare il coraggio di farsi avanti e rinnegare l’AA che comunque non faceva molto per il suo animo inguaribilmente incline all’amore. Una delle poche differenze tra me e lui, se non l’unica».
Griša si girò improvvisamente verso di lui con un sorriso enigmatico: «Guarda che ti sei sbagliato» osservò in tono pacato «Era il 3 febbraio, non il 5 come hai pensato poco fa». Dralbij impallidì: sapeva benissimo che suo fratello fosse in grado di leggergli nel pensiero, ma non fino a quel punto, e certamente non in quella circostanza. Poi capì: Griša stava probabilmente cercando un contatto telepatico con qualcuno, un contatto che lo aiutasse in quella tensione mostruosa.
Ma Lestadt non sembrava più in grado di nuocere: doveva avere alle spalle, oltre ad un viaggio interminabile e per nulla facile, anche parecchie notti di sonno arretrato. Era debole, esausto, allo stremo delle forze. E Griša ci stava crudelmente giocando sopra, divertendosi a farlo soffrire, a stroncarlo fisicamente e soprattutto psicologicamente. Non potendolo ferire fisicamente, usava le parole: in quanto scrittore, le parole erano le sue migliori amiche, e sapeva benissimo come trattare con loro. Le suppliche di Estel («Vacci piano, così lo distruggi!» «Non esagerare, povero Lestadt!») non facevano che acuire il suo odio: era palese che lei si fosse affezionata al suo ex (ma era poi davvero tanto ex?) amante, e Griša si sentiva raggirato, tradito ancora e più dolorosamente di prima, preso in giro, deluso, demoralizzato: un generale sconfitto sulla tomba del sogno. E tutto quel dolore stava escludendo Estel dal suo cuore, trasformando qualsiasi altro sentimento in un odio assassino per Lestadt.
Nessuno, però, sembrava rendersi conto del suo dolore. E non era forse giusto così? Lui stesso voleva stare solo, solo con la sua solitudine e i suoi rancori, a covare la sua vendetta. Avrebbe evocato i demoni dell’inferno, se necessario.
Improvvisamente i suoi pensieri apparvero a Dralbij, nitidi e ben delineati come le insegne dei bar nella notte. «Non è meglio se ve la sbrigate da soli?» suggerì, desideroso di portar via Estel da quella situazione e il fratello da quella tensione «Andate a prendervi qualcosa da bere e parlatene». Senza aspettare risposta prese la bandiera Antirealista, dai margini sbrindellati e rattoppata dopo ogni gloriosa battaglia, e si mise esitante al comando dell’esercito. Estel era riluttante a seguirlo, e Griša pensò amaramente: «Non è la mia rivincita il fatto che lei voglia rimanere, che mi stia tenendo per mano, che sia così affettuosa con me. Vuole fare ingelosire Lestadt, vuole vendicarsi per qualcosa che lui le ha fatto!». Sentendo che ormai quei pensieri stavano per avere la meglio sulla sua barriera di freddezza, cercò dunque di convincerla: «Ieri ho scritto un paio di racconti nuovi: perché non vai a leggerli? Non fa bene né a te né alla piccola stare qui con quest’afa». Estel gli lasciò andare le dita e, prima di andarsene, lanciò a Lestadt uno sguardo glaciale e sibilò: «D’accordo, mi hai trovata. Ma non azzardarti a capitare entro la mia visuale mentre sei qui, altrimenti ti giuro che ti farò piangere il giorno in cui sei nato. L’hai capito bene? Hai già rovinato abbastanza vite». Griša, sorpreso ma ancora diffidente, fece appena un debole sorriso che rese ancora più triste la sua espressione.

Lestadt e Griša si sedettero all’ombra di un parco pubblico, precisamente sulla panchina da cui si intravedeva Villa Oldfield. «Eccoti qui» sbuffò Griša «Di ritorno dal regno dei morti. Allora sentiamo: come ci hai trovati in così poco tempo?» «Fortuna» fu la risposta «Ma ti posso garantire che non è stato un viaggio piacevole: sono arrivato fino a Le Havre compiendo quasi tutto il percorso in motorino, salvo qualche passaggio su vari rimorchi e furgoncini. Sapevo di approdare a Southampton e pensavo davvero di partire da lì per Liverpool, dove pensavo tu ti fossi rifugiato, ma quando ho visto la locandina dei Gabbiani ho capito che potevate essere solo voi. Te l’ho detto già prima e non lo ripeterò mai abbastanza: è solo per amicizia che sono partito, e soltanto a metà percorso mi sono ricordato che anche Estel, Mira e Moonlight dovevano essere sulla stessa strada. Non volevo incontrarli, pensavo che sarei morto ad incrociare di nuovo quello sguardo, e poi mi sono immaginato quanto ci saresti stato male vedendo Moonlight e Mira da una parte… e… io con Estel dall’altra» «Affatto» mentì Griša «Come già ho detto a Estel, io voglio solo la sua felicità prima della mia. E se sei tu l’oggetto della sua felicità… non sarò io ad ostacolarvi. Al massimo vi chiedo di tornare a Pietroburgo, o comunque di stare lontani da me. Il fatto che Estel mi abbia cercato fin qui mi ha veramente stupito, e per qualche ora ho davvero creduto che tra me e lei potesse tornare tutto come prima. Ma adesso che ci sei anche tu devo ricredermi».
Lestadt era indeciso e combattuto tra due forze contrapposte: l’amicizia di Griša e gli altri e l’amore per Estel. Dubbioso, si guardò intorno prima di lasciar cadere lo sguardo sul silenzioso accusatore che gli stava davanti, e rimase colpito dalla loro somiglianza: gli occhi castani, i capelli scuri ma con un taglio diverso, l’espressione stanca e malinconica. Sarebbero potuti passare per fratelli se solo l’avessero detto, e ricordò con nostalgia quando davvero, a Pietroburgo, l’avevano fatto. Nessuno aveva notato l’inganno, e mentre Dralbij sghignazzava nella sciarpa loro due se n’erano andati in giro a dire a tutti: «Siamo fratelli!». Sorrise vagamente a quei pensieri, e in breve gli si riaffacciarono alla memoria altri momenti divertenti: come quella volta, ad esempio, in cui avevano esplorato due enormi condomini in costruzione. Il cantiere era abbandonato e chiuso, ma loro erano riusciti ad entrare scavalcando la rete che Griša aveva divelto con un coltellino. Avevano vagabondato per ore nelle stanze simili a grandi cubi vuoti, e la volta dopo si erano spinti fino all’altro edificio, ancora coperto dalle impalcature, scoprendo una scalinata nascosta che li avrebbe portati fino in cima. «Se l’altro condominio è la sede degli Antirealisti» aveva detto Griša «Questo potrebbe essere quello della sede dei Realisti!». E lui aveva risposto, arrampicandosi sugli scalini polverosi: «È vero! Il “nostro” è un condominio ormai finito ma che non diventerà mai abitabile, quindi un sogno mai realizzato. Questo invece non è che uno scheletro vuoto e privo di qualsiasi prospettiva, quindi… come la mente Realista, no?». Griša era rimasto colpito da quelle parole, e gli aveva proposto di entrare nell’esercito Antirealista come secondo colonnello: due giorni dopo aveva recitato il solenne giuramento, e pochi giorni più tardi… si fermò prima di ricordare, ma non servì a niente. Griša, infallibile nel leggere i pensieri altrui, ringhiò: «Vai avanti! Pochi giorni dopo il Giuramento, tu ed Estel eravate abbracciati al buio, sul mio letto, dopo avermi cacciato fuori dalla mia camera. Tu ti sei reso conto che la situazione mi stava sfuggendo di mano, che avresti potuto approfittare delle circostanze, e così quel sabato sera…» ebbe solo un attimo di esitazione prima di dire, con la voce strozzata: «…vi siete messi insieme. E il giorno dopo Estel me l’ha detto: “Ormai puoi anche definirlo mio moroso”…».
Lestadt fece per sfiorargli una spalla in un gesto amichevole, ma all’ultimo momento si tirò indietro, limitandosi a dire: «Perché ora non la smettiamo, tutti e due? Io sono esausto, ho bisogno solo di trovare un albergo dove stabilirmi, e tu devi ancora riaverti da quello che hai passato. Abbiamo giocato col fuoco e ci siamo scottati tutti e due: ora, cerchiamo solo di risistemare tutto. I Realisti, come tu stesso hai detto, aspettano solo che tra di noi comincino ad esserci divisioni! E poi, questa non è forse la città delle due Regine?» «Appunto!» tuonò Griša, furioso «Stavamo benissimo prima che tu arrivassi! Non c’era pericolo, anzi, avrei potuto anche riallacciare i rapporti con tutti e mettere fine a questo conflitto continuo; invece adesso dovrò sempre tenerti d’occhio e controllare che non si ripeta ancora quello che già è successo».
Lestadt non poté impedire che nei suoi occhi brillasse una luce strana mentre chiedeva: «Non hai fiducia in lei?», e Griša non ci pensò due volte prima di ribattere: «Non con te qui».
Per tutto il resto della mattinata non fecero che azzuffarsi verbalmente, rinfacciandosi i rispettivi errori, ma Griša con le parole era in netto vantaggio: sebbene stesse attento a ogni movimento di Lestadt – l’ultima cosa che desiderava era fare a pugni con un energumeno del genere –, sceglieva accuratamente le parole che più l’avrebbero ferito e le usava al meglio, gioendo ogni volta che sentiva di aver messo a segno un buon punto.
Verso mezzogiorno, infine, lo congedò con aria di sufficienza: «Devo andare a casa, ora, la cuoca avrà quasi finito di preparare il pranzo e voglio mangiare insieme agli altri. Tu, pidocchio, se proprio devi rimanere a Southampton, cercati un buco dove alloggiare e fa’ in modo di non capitarmi tra i piedi».
Si salutarono con un «Ciao» strascicato che non prometteva niente di buono.
Griša si incamminò verso Villa Oldfield, cercando di scacciare l’opprimente senso di angoscia che aveva ripreso a sgocciolargli nel cuore.
Lestadt attese fino all’ultimo che l’amico di un tempo si girasse a chiamarlo, offrendogli un posto nell’immensa villa che aveva visto appena arrivato, ma si rassegnò quando lo vide svoltare l’angolo. Allora, immalinconito e ormai distrutto dalla stanchezza, montò sul motorino e si fermò al primo albergo che trovò: un bugigattolo di periferia, lurido in ogni suo angolo, ma almeno economico. Si trattava più che altro di una stamberga vicino ai moli, affollata di marinai e scaricatori che gli si rivolsero in un pesante dialetto incomprensibile. A fatica, ricordando le poche parole di inglese che conosceva, riuscì a spiegarsi col proprietario, che gli piazzò sul bancone bisunto una chiave arrugginita su cui era stato inciso con un punteruolo il numero 20.
La stanza era, se possibile, ancora peggio dell’ingresso: a terra una sudicia moquette non aveva più nulla del colore originario, i quadri alle pareti erano formati da chiazze grigiastre di umidità e intonaco rappreso, il bagno puzzava di fogna e non veniva lavato da settimane. Lestadt, vincendo la ripugnanza, si lasciò cadere sul letto cigolante sollevando una nuvola di polvere, e cadde addormentato senza rendersi conto delle disgustose macchie che costellavano il cuscino e le lenzuola.
Lo svegliò, la sera, un bussare sconnesso alla porta. Quando aprì, insonnolito, si trovò davanti una donna completamente avvolta in succinti abiti di pelle nera, calze a rete e una mantellina leopardata. «Deve aver sbagliato stanza» balbettò, cercando di chiudere la porta, ma la donna sogghignò mostrando i denti gialli e marci per metà: «No, gioia, questo è il numero 20 e tu devi essere il nuovo arrivato direttamente dalla gelida Russia. Lascia che sia io a scaldarti la notte!». Lestadt rabbrividì e cercò di svicolare: «È meglio di no, stasera non mi sento bene». Spingendo la porta con tutte le sue forze riuscì a chiuderla e decise di uscire da quel buco malsano. Non aveva il coraggio di scendere a mangiare né di farsi una doccia: aveva visto uno scarafaggio uscire dal bagno e altri due dalla sala da pranzo al piano di sotto, e pregò silenziosamente: «Dralbij, Griša, prendetemi con voi! Non posso permettermi altri alberghi, e sono già a corto di soldi!».

Il gruppo di amici, dopo una nuotata in mare, era nella piazza principale di Southampton. Si erano comprati tutti una granita fredda, e ora la stavano gustando in compagnia seduti sugli scalini della chiesa, ridendo e scherzando come al loro solito.
Griša non aveva parlato a Estel dei suoi timori, né sembrava intenzionato a farlo: aveva chiesto ad Alex, una sua amica dei vecchi tempi, di unirsi a loro per una passeggiata. E ora se ne stavano seduti un po’ in disparte, parlando fitto e scoppiando a ridere di tanto in tanto. Griša, provetto imitatore, si stava cimentando nei suoi antichi cavalli di battaglia.
Per anni era stato terrorizzato da Alex, ripensando al periodo in cui erano stati anime gemelle: non avrebbe mai vinto il senso di colpa che lo assillava ogni volta che ricordava ciò che, a suo parere, l’aveva costretta a fare. E a nulla servivano le suppliche di lei: «Ora basta, lo sai che è tutto passato e che soprattutto non è solo colpa tua! Voglio dire, bisogna sempre essere in due per certe cose, giusto? E poi, tu avevi sedici anni e io quattordici: Dio solo sa quanto significano due anni in più o in meno per questi argomenti! Io, comunque, ho dei bei ricordi di quei mesi…». Ma lui, fissato sulle due idee, cercava sempre di evitare il discorso, spaventato.
Era bello ritrovare un’amica e parlare di quanto erano cambiati da allora: lei aveva adesso vent’anni, ma qualcosa ancora ricordava la ragazza di un tempo; per questo Griša a volte rimaneva perplesso e imbarazzato, e senza rendersene conto cercava la presenza di Estel.
Stavano giusto ricordando tutti insieme – eccetto coloro che non erano ancora arrivati, all’epoca – i tempi lontani di Southampton, Portsmouth e la lunga vacanza in America a Cold Mountain, quando Lestadt si materializzò davanti a loro.
Griša si fece improvvisamente cupo e aggressivo, incurante del tocco leggero di Estel sul suo braccio. «Va’ via!» ruggì.
Dralbij, però, lo fermò: «Aspetta, credo ci sia qualcosa che non va!». Lestadt gli si avvicinò, grato, e mormorò: «Non riesco a stare in quell’albergo malsano…» «Quale albergo?» chiese Griša, malignamente interessato, e quando Lestadt citò controvoglia «Sono alloggiato alla Giaguara», scoppiò a ridere come un matto, rischiando di soffocarsi con la granita: «Disgraziato che non sei altro! Ti sei messo nella topaia dei peggiori elementi di Southampton! Ah, voglio proprio vederlo, il bravo bambino che non ha più il suo lettuccio e la lampadina da notte… cos’è, qualche prostituta del luogo a cercato di violentarti? O hai assaggiato la deliziosa zuppa di pesce e scarafaggi della casa? Certo, Mastro Bud non deve aver trattato molto bene il signorino, eh?». Rideva divertito, immaginandosi la scena, e tutti lo osservavano stupiti da tanto cinismo: non era da lui comportarsi così, tranne quando era veramente ferito per qualcosa.
Estel si alzò e lo trascinò lontano dal gruppo, rimproverandolo aspramente: «Ti sembra il caso?», ma ottenne solo un altro scoppio di ilarità: Griša, appoggiato al bordo di una fontana, si sbellicava: «Viene da Pietroburgo a rovinarmi la vita un’altra volta e finisce nel covo della malavita! Lasciami almeno ridere di questo!». Allora Estel capì: «A rovinarti la vita?» ripeté «Credi che possa ancora ottenere qualcosa da me?».
Griša bevve un sorso di granita prima di rispondere, più serio: «No, non lo credo. Ne sono sicuro. Basta vedere come lo difendi, come hai pensato di ospitarlo a Villa Oldfield, come rispondi ai suoi sguardi. Gli brillano gli occhi ogni volta che lo guardi…» «E tu ti fai venire il sangue cattivo di gelosia!» concluse lei «Mi fa piacere vedere quanto la persona che amo tenga a me, ma non sopporto che per gelosia i miei amici debbano rischiare di prendersi il colera in una stamberga come quel postaccio. Non so come fare a spiegartelo, e forse capisco il tuo sospetto, ma ti do la mia parola di colonnello Antirealista – se non credi a quella della madre di tua figlia – che tra me e Lestadt non c’è né mai più ci sarà qualcosa. È un amico così come lo è Dralbij, così come sono diventati miei amici gli Smoky Beetles. Puoi chiedere a Moonlight: lui ti ripeterà queste stesse parole, perché ho parlato molto con lui di quest’argomento. Tu e Lestadt siete – ed è normale – come cane e gatto, ora, ma non dimenticare mai che un tempo siete stati amici e avete anche tanti bei ricordi in comune. Anzi, più che amici: vi trovavate talmente bene assieme che sembravate davvero fratelli. Quindi, vuoi farmi questo favore? Dimentica questi mesi, per quanto difficile potrà essere, e accetta Lestadt come uno di noi: dopo tutto il viaggio che ha fatto nel nome dell’amicizia, è proprio malvagio trattarlo così» «Ma non merita niente!» protestò Griša «Per colpa sua io ti ho persa!». L’acqua della fontana illuminata gli creava strani giochi di luce sul volto ancora segnato dalla malattia: era solo un’illusione ottica il velo lucido che aveva sugli occhi? Estel lo abbracciò stretto, mormorando: «Tu non mi perderai mai, perché anche se morissi rinascerei mille volte per riuscire a ritrovarti». Lui, ben deciso a resistere fino all’ultimo, per qualche secondo rimase rigido e impassibile, ma durò poco: l’incredibile sensazione di averla di nuovo lì era come al solito più forte di ogni altra cosa. Titubante ricambiò l’abbraccio, come temendo di rompere l’incanto, e pensò: «Forse davvero è finito tutto». Le baciò i capelli con circospezione, ma già più sicuro di prima, e poi la sera intorno a loro fu solo il muto teatro di un bacio lunghissimo.
Tra il gruppo seduto sui gradini della chiesa, due persone distolsero lo sguardo con uno strano sorriso: Lestadt voltò le spalle ai due vicino alla fontana, stringendo gli occhi, ma anche Alex cercò di sottrarsi a quanto vedeva. Imbarazzata si sedette più vicina ad Arthur, e commentò: «Sono proprio innamorati quei due, eh?». C’era qualcosa nel suo modo di fare che indusse tutti a voltarsi verso di lei, ma fu solo un attimo.
Poco dopo Estel e Griša tornarono dagli altri, tenendosi per mano, e si sedettero sui gradini, l’una tra le braccia dell’altro.
Griša osservava nervosamente Lestadt, e fingeva di ignorare le sollecitazioni di Estel; ma alla fine, stufo di quei lievi pizzicotti che le unghie lunghe di lei gli stampavano sulle mani, sospirò: «È proprio il posto peggiore in cui alloggiare, La Giaguara. Lercio, pieno di gentaglia dal primo all’ultimo ospite, e soprattutto pericoloso per chi non sa come trattare con quella gente. Detestano gli sconosciuti e gli stranieri: Lestadt, sei stato fortunato ad essere arrivato qui sano e salvo. Ok, avresti lasciato parecchi lividi a quei signori, ma da solo contro almeno una dozzina di omaccioni come loro non avresti avuto speranze, ti avrebbero massacrato. Siccome tu non sei assolutamente portato per la vita di strada…». Qui si fermò: come avrebbe potuto concludere il discorso, dire quella frase terribile che avrebbe trasformato i suoi giorni in una tensione continua, nonostante le belle parole di Estel? Sentì le dita affusolate di lei scorrergli tra i capelli, e si decise con l’aria di un condannato a morte: «…c’è una stanza in più a Villa Oldfield, se preferisci stare lì piuttosto che alla Giaguara. Se vorrai trasferirti, ti accompagnerò io stesso a ritirare la tua roba: là mi conoscono, ci sono anche alcuni miei amici marinai di Liverpool. Sta a te decidere, sei abbastanza grande per arrivarci da solo».
Non c’era amicizia nelle sue parole, soltanto rabbia e paura, ma gli occhi scuri erano fermi e impassibili. Lestadt, tuttavia, era troppo contento di lasciare quel postaccio per badarci: «Siete dei veri amici» rispose, grato, alzandosi in piedi «Andiamo allora!».
Griša ignorò lo sguardo di Estel, certo che avrebbe ceduto se si fosse perso in quegli occhi di mare, e si incamminò mestamente a fianco di Lestadt, seguito dagli occhi di tutti. Era più basso di Lestadt, gli arrivava appena a una spalla, sicché sembrava essere lui il fratello minore; sul fatto che sembrassero dello stesso sangue, però, erano tutti d’accordo.
«Fingerai di essere mio fratello» stava dicendo Griša «Lascia parlare me e, nel caso qualcuno dovesse farti domande, lascia comunque rispondere me» «Non capisco il loro inglese» ribatté Lestadt, oltrepassando la porta unta.
Griša si avvicinò al bancone, calcandosi il basco sugli occhi, e salutò il proprietario in un pesante accento dialettale: «Buonasera, Mastro Bud, si ricorda di me? John Oldfield!». L’uomo socchiuse gli occhi porcini nel volto sudato, e scoppiò in un applauso potente: «Ma guarda! Johnnie di Liverpool! Che fine avevi fatto? Vuoi qualcosa? Una sigaretta?». Ignorando le ultime domande, Griša spiegò, nel tono ringhioso che doveva assumere in presenza di quella gente: «Ho trascorso quattro anni a San Pietroburgo. Sapete, no, che io vengo dall’orfanotrofio di Liverpool, da Strawberry Fields. Ebbene, ho fatto parecchie ricerche, e ho scoperto di avere un fratello minore che abitava a Pietroburgo, così sono andato a cercarlo. Ci siamo persi di vista, però, quando io mi sono ammalato e ho dovuto rientrare qui a Southampton, e mio fratello è stato costretto a raggiungermi qui. Non conoscendo il posto né la lingua è finito alla Giaguara per errore: come poteva sapere che Villa Oldfield era casa sua? Ora che finalmente l’ho trovato, non vedo l’ora di riportarlo in famiglia. Mio padre Norbert è felice di accogliere anche lui, specialmente dopo aver scoperto che anche lui come me, pur discendendo da un ceppo familiare cajun, ha un nome inglese. I documenti intestati a Lestadt non valgono più, ora che ha scoperto di chiamarsi Marc Delacroix, e in questi giorni dovremmo anche occuparci della sua nuova carta d’identità». Mastro Bud ghignò: «Un fortunato nuovo membro della famiglia Oldfield!» commentò «Bravo, ragazzo, bel colpo. Vai a prendere la tua roba e sparisci: non ho certo intenzione di far pagare un signore per un pomeriggio di sonno, considerando che non hai né mangiato né usufruito di alcun servizio dell’albergo».
Lestadt sgattaiolò nella stanza, mentre Griša rimaneva al pianterreno a intrattenere chi conosceva: era stato abilissimo nel recitare, calandosi nel suo ruolo al punto da oltrepassare il confine della realtà, e aveva improvvisato tutto al momento. Davvero, era il palcoscenico il suo regno.
Quando Lestadt tornò all’ingresso aveva uno zaino sulle spalle e un grosso borsone sottobraccio. Griša ritirò i documenti e lo aspettò fuori, suggerendogli di usare il motorino come un carrello e di andare a piedi. Ma lui fu irremovibile: «Il minimo che posso fare è portarti a casa» disse «Mettiti il mio zaino sulle spalle e sali dietro di me» «Sul tuo catorcio?!» Griša era sinceramente preoccupato «Ci ammazzeremo! Al di là del fatto che tu non sei abituato a guidare a sinistra, che non conosci la strada per Villa Oldfield e che il tuo motorino è stracarico… ti pare che io mi fidi di te?».
Si lasciò convincere, in un modo o nell’altro, e un minuto dopo era seduto dietro a Lestadt, pronto a partire: «Guida piano» borbottò, nervoso. E Lestadt partì quasi impennando, sfrecciando per le strade ad almeno settanta chilometri orari, con Griša aggrappato a lui che urlava: «Maledetto!». Ma l’ebbrezza della velocità, e forse anche il bacio sincero di Estel poco prima vinsero l’agitazione, strappandogli un sorriso divertito.
Il motorino fu parcheggiato nei grandi garage di Villa Oldfield, insieme alle macchine di Paul, Moonlight e Norbert, e Lestadt ebbe un letto provvisorio su uno dei divani del salone, sul quale cadde addormentato ancora avvolto nell’accappatoio e bagnato dopo la doccia.
Iniziò allora una settimana felice: Estel era lì dolce e così meravigliosamente presente, Lestadt sembrava essere diventato un grandissimo amico per tutti, e le preoccupazioni dei primi tempi stavano per scomparire del tutto.

Erano le due della notte, ma Griša non riusciva a dormire. Lentamente, per non svegliare Estel, si alzò e scivolò nelle ciabatte: era meglio scendere dabbasso e guardare la televisione, piuttosto che essere costretto ad ascoltare nel buio gli strani pensieri che affollavano la sua mente.
Per le scale incontrò Dralbij, e tra i due bastò uno sguardo per prendere una muta decisione: «Andiamo sulla spiaggia». E così fecero, attraversando senza parlare il giardino illuminato da lampioncini sapientemente nascosti tra il verde.
Soltanto quando ebbero affondato i piedi nella sabbia tiepida, sotto una sottile falce di luna che sembrava una maschera tragica sopra di loro, Dralbij sospirò: «Insonnia pure tu, eh, fratellino?» «Non girare intorno al discorso» mormorò Griša «Lo sai benissimo cosa c’è che non va. Lestadt è qui, nella stessa casa in cui abitiamo io ed Estel: non durerà tra me e lei, non può durare! Tu sei un abile cartomante: ti prego, dimmi cosa ci riserva il futuro! Non posso più resistere in quest’incertezza!».
Dralbij per la prima volta non riuscì a sostenere il suo sguardo e si voltò verso il mare simile ad un infinito calamaio. Come nascondere al fratello quello che sapeva? Non sarebbe comunque servito. «La Ruota della Fortuna… la Morte…» incominciò a dire «E gli Amanti». Oppresso dal silenzioso interrogativo che Griša gli stava ponendo, una domanda così disperata da sembrare un peso concreto e micidiale, concluse: «La carta degli Amanti era rovesciata, Grigorij. Non… non avete più molto tempo da vivere insieme. Qualcuno morirà, ma non sarete tu, o Estel, o Lestadt. Loro due continueranno la loro storia, eppure qualcuno perderà la vita. Ti prego, capiscimi, io… io non ce la faccio a dirti altro!». Griša, appollaiato alla base della scogliera, annuiva lentamente: anche lui, maneggiando i tarocchi, era arrivato ad una soluzione molto simile, ma non aveva interpretato correttamente tutte le carte. Ora, però, capiva tutto. «Sissi» rantolò «Sarà nostra figlia Elisabeth che morirà prima ancora di nascere. E adesso?».
E adesso? Quella sì che era una domanda paurosa. Estel e Lestadt se ne sarebbero andati insieme, di questo ne era sicuro, e sua figlia non avrebbe mai visto la luce del sole. La sua vita era irrimediabilmente franata, proprio ora che sembrava essersi messo tutto a posto. Lestadt era riuscito in pochissimo tempo a rovinare una storia che durava da anni… che cosa poteva Griša contro di lui? Già sentiva che tutte le sue speranze erano definitivamente crollate, aveva perso, non gli restava che ammettere la sua sconfitta: rassegnato e ancora troppo sconvolto per poter avvertire la nuova ondata di dolore che l’aveva travolto, disse con la voce soffocata da lacrime che non volevano uscire: «Tu mi starai vicino, vero, fratellone? Adesso… credo sia ora di agire». E, senza attendere una risposta, corse verso casa.
Dralbij si sedette nella sabbia soffice e si prese la testa tra le mani: ora Griša era solo, completamente solo, e stava andando verso un’altra guerra persa in partenza. Anche da lì vedeva la finestra della stanza di Estel illuminata, e non era difficile indovinare il motivo. «Viva l’Anti-Amore» commentò amaramente «Perché l’amore, se significa la felicità di due persone, implica sempre il dolore di qualcun altro. L’amore esclude due persone dal mondo, le spinge a tagliare i ponti con tutto il resto, le fa credere immortali. Estel e Griša… e la loro storia sui vampiri… quella era l’illusione dell’immortalità per loro. Non è forse Lestadt stesso che, ora, recita il ruolo del vampiro? Sono stato fortunato, io, quando sono riuscito a costruirmi le mie barriere contro i sentimenti: ma Griša è troppo romantico, troppo incline all’amore, e soprattutto al dar fiducia alle persone… e poi adesso, nonostante la scena che si troverà davanti, non riuscirà mai a dimenticare quello che ha provato per Estel e quant’è finita male, quanto ha sognato e con quanta violenza si è poi scontrato contro quella stessa amara realtà che ha cercato di cambiare».
Griša aprì la porta d’un colpo, ma senza rabbia, e trovò Estel e Lestadt seduti sul letto. Stavano semplicemente parlando, ma lui non ci badava più. «Scusate il disturbo» disse, in tono fermo e assolutamente glaciale «Detesto fare il terzo incomodo, il reggimoccolo, ma me ne vado subito, vorrei solo prendere un libro. A proposito: prima di dedicarvi alle vostre attività, siate così gentili da preparare le valigie e lasciare Villa Oldfield. Vi ho già fatto pagare una stanza alla Palma, quell’albergo verso Portsmouth, per i prossimi due giorni: vi basteranno per organizzare la vostra partenza per Pietroburgo. Chiunque può prendermi in giro una volta, poche persone possono farlo due volte, ma nessuno può riuscirci la terza volta. E io non vi darò la possibilità di farmi ancora del male! Io amo Estel, la ragazza che ho conosciuto una notte di dicembre sotto la neve russa, non la morosa di Lestadt. E lei è morta. Sono stufo di reggere il vostro doppio gioco, e anche se non capirò mai che cosa vi abbia spinti tutti quanti a seguirmi fin qui, non è qualcosa che mi posso chiedere. Perlomeno vi devo ringraziare per avermi guarito: grazie a voi sono finalmente riuscito ad uccidere quella parte di me capace di grandi sentimenti, e mi sono reso conto di quanto Dralbij, col suo cinismo, sia in grado di vivere tranquillo e felice in qualsiasi situazione. Per cui, ora, andate via». I due erano come pietrificati, ma qualche secondo dopo Estel parve riaversi: «Che cosa stai dicendo?» esclamò, a metà strada tra l’ira e la sorpresa. Forse c’era anche l’eco di una nota di tristezza nella sua voce, ma in quel momento Griša non lo notò. Estel avrebbe sempre negato ogni cosa, lo sapevano benissimo tutti quanti, ma non l’avrebbe fatto a Villa Oldfield.
Anche Moonlight e Mira furono svegliati di soprassalto dalla confusione che si stava creando, e Griša spiegò loro frettolosamente la situazione, col fiato corto e una aspro singhiozzo che gli gonfiava la gola senza poter uscire: «Moonie, tu sei sicuramente uno dei migliori amici che si possa sperare di trovare. Voi potete restare, naturalmente, ma forse è meglio se… insomma…» «Starò con la tua amata» promise Moonlight, colpito «Starò attento che non le succeda nulla di male, e ti terrò informato. Ti chiamerò da Pietroburgo quando nascerà tua figlia, dovesse essere il cuore della notte o un orario impossibile, ma giuro che tu saprai il momento esatto in cui Elisabeth verrà al mondo. E appena sarà abbastanza grande la porterò qui, ti spedirò le sue foto ogni mese, ti scriverò tutto di lei. Soprattutto, farò in modo che lei sappia sempre chi è il suo vero padre, costi quel che costi!». Una lacrima traditrice stava per affiorare negli occhi scuri di Griša, che però riuscì a ricacciarla indietro. La profezia di Dralbij bruciava forte. «No» si oppose in un singhiozzo rauco «Sissi deve crescere come una bambina felice, non come la figlia di un padre lontano e tradito, che non vedrà mai. Apprezzo comunque il tuo interessamento… sei una persona straordinaria».
Moonlight lo abbracciò, con le lacrime agli occhi. «Mi mancherai tantissimo» gemette «È successo tutto talmente all’improvviso… mi dispiace… se solo l’avessi saputo, non avrei mai permesso che Estel arrivasse fin qui a Southampton. Credevo veramente che il suo fosse solo vero amore, tutti noi lo credevamo, lei stessa mi aveva raccontato di quella sera, quando ha lasciato Lestadt! E sembrava convinta quando ha voluto cercarti! Forse… forse ha ingannato tutti noi, è stata un’attrice straordinaria. Ma perché? Perché compiere un viaggio tanto lungo – e nelle condizioni in cui è, oltretutto! – e pericoloso, soltanto per poi essere a sua volta trovata da Lestadt… e far tornare tutto come prima?».
Erano trascorse tre settimane da quando Lestadt si era trasferito a Villa Oldfield: c’era stata una settimana di paradiso, è vero, ma poi le circostanze erano cambiate, si erano incupite, e l’antico dolore pulsante aveva ricominciato a farsi sentire. «Io non provo più niente per Lestadt!» ripeteva Estel, indignata «Ma quel giorno, quando ho parlato a lungo con lui e l’ho lasciato, mi sembra davvero di aver parlato con il muro visti i risultati!». Eppure, nei giorni che erano seguiti, lei non aveva mai rifiutato la compagnia dell’ex amante, scherzava affettuosamente – troppo affettuosamente – con lui, durante le giornate sulla spiaggia gli chiedeva sempre di spalmarle la crema solare appena Griša si allontanava di qualche passo… e poi c’era stata quella notte, quanto avevano sparato i fuochi ad Hampton, di là dal fiume. Si erano recati sull’argine tutti insieme, ciascuno con la sua ragazza, sicché erano praticamente raddoppiati. Dralbij, sornione, li prendeva in giro: «Sarete così impegnati, tutti quanti, a fare i piccioncini… che vi dimenticherete dello spettacolo pirotecnico!». Erano stati sì tutti a coppie, con il naso verso il cielo e le scintille colorate riflesse negli occhi… ma Griša era rimasto seduto nell’erba a qualche metro di distanza a rodersi il fegato: Estel, dietro di lui, si era appoggiata a Lestadt. E da lì era crollato tutto: in preda alla rabbia e ferito a morte, aveva liberato la mano dalla stretta di Estel – come aveva potuto! – e si era allontanato, ingoiando le lacrime e le sue ultime illusioni, e a nulla erano servite poi le moine di lei. Era tornato a casa a passo svelto, i pugni stretti, evitando di rivolgerle la parola, dopo aver ringhiato rivolto al sogghignante Lestadt: «Evapora dalla mia vista!».
Sì, ce n’erano stati parecchi di segnali strani, era stato lui a volersi rendere cieco. E poi c’era quell’altro dettaglio: un pomeriggio, Estel si era divertita a scompigliare i capelli a Lestadt, e gli aveva portato via l’elastico che lui usava per raccoglierseli. Da allora quell’elastico lo teneva al polso lei, e Griša non riusciva più a ignorare l’aura di repulsione che un oggetto così piccolo e insignificante emanava contro di lui.
«Addio!». Moonlight lo riportò bruscamente al presente «E buona fortuna per tutto!».
Occhi lucidi, qualche lacrima, e uno stupore non troppo inaspettato: avevano fiutato tutti la tensione che si era andata creando.
Lestadt uscì dal cancello senza voltarsi indietro, ma Estel si avvicinò a Griša mentre tutti intorno a lei si spostavano per lasciarla passare. Lo guardò qualche secondo negli occhi, asciutti e impassibili, e gli affondò le dita nei capelli per l’ultima volta, baciandogli le labbra immobili. «Fai come vuoi» sussurrò. Lui non le rispose, ma quelle ultime tenerezze gli si conficcarono fino in fondo nel cuore, chiodi arroventati piantati con tutta la violenza di un martello gigantesco vicini a tanti altri chiodi arrugginiti.
La profezia di cui era al corrente sembrava un incubo, ma sia lui che il silenzioso Dralbij – gli unici che sapevano – erano terribilmente angosciati: Estel avrebbe perso la figlia lontano da tutti loro, sola con Lestadt e probabilmente distante anche da Moonlight. E loro non avrebbero saputo niente, in quel momento, e certo non avrebbero potuto esserle vicini.
In quella calda notte di fine luglio, sotto una lunga stella cadente che attraversò per un attimo la falce di luna, Estel e Lestadt se ne andarono per sempre. Insieme.

La botta era stata forte, ma in fondo Griša l’aveva sempre saputo, e si era ormai abituato a considerare la breve parentesi che aveva trascorso nella ragnatela di Estel come uno strano, bellissimo sogno che però era finito male. A Villa Oldfield non era rimasto niente di lei se non il ricordo sbiadito. Infinite volte era stato tentato di sollevare la cornetta del telefono e chiamarla, su a Pietroburgo, ma prima di cedere si era affrettato a cercare la compagnia di qualcuno o, se nessuno era nei paraggi, della sua chitarra. Passava lunghe ore seduto allo scrittoio in soffitta – aveva rifatto il letto, ma non si era rassegnato ad abbandonare quella stanza – a scrivere racconti e novelle: da quando Norbert si era messo in contatto con l’editore del prestigioso Reader's & Writer's, portandogli poi una promettente ipotesi di pubblicazione, si era dedicato alla stesura di scritti di qualsiasi genere.
I ragazzi di Villa Oldfield dormivano fino all’ora di pranzo, trascorrevano insieme il pomeriggio tra le loro attività oppure semplicemente oziando dopo le fatiche scolastiche, e la sera uscivano con la ricomposta compagnia dei vecchi tempi. A volte si univano a loro anche Tresy e Chantal, entrambe antiche fiamme di Griša, fatto questo su cui tutti scherzavano abbondantemente, e stavano fuori fino a tarda notte, spesso soffermandosi a giocare o chiacchierare sulla spiaggia.
C’era poi Alex: lei e Griša passavano lunghe ore da soli, dopo cena, a parlare di tutto e di niente. Con lei Estel sembrava quasi una presenza concreta, i ricordi venivano a galla senza fatica, e faceva bene parlarne al cuore distrutto di Griša. Nonostante il loro passato insieme e il senso di colpa da cui Griša era perseguitato, lui e Alex erano capaci di passare interi pomeriggi da soli, ignorando le canzonature goliardiche degli altri, e non passò molto tempo prima che cominciassero a comportarsi quasi come se tra loro ci fosse qualcosa, per il semplice gusto di vedere le espressioni perplesse degli amici.
Alex si appoggiava a una spalla di Griša e lo prendeva per mano, oppure di divertiva ad accarezzargli i capelli, ed era davvero comico vedere, ad esempio, Arthur che strabuzzava gli occhi e si lasciava sempre sfuggire qualche verso strano, che li faceva scoppiare a ridere. Ma tra loro due non c’era niente, se non forse la vaga ombra del fantasma di un tempo, del tutto innocua e innocente. Era stata Alex a cominciare con quelle piccole tenerezze, e Griša dopo poco vi si era arreso: aveva bisogno, dopo quello che aveva passato, di quelle gocce fresche sugli squarci che si portava dentro. E così Alex era diventata la sua più cara amica e una fidata confidente, della quale sentiva la mancanza se non la vedeva per qualche giorno.
La lotta tra Realisti e Antirealisti era conclusa: i Realisti, compreso finalmente il valore dell’amicizia, si erano affezionati agli ex nemici, e nonostante le idee diverse stavano con loro come se niente fosse. Alla compagnia si erano unite ufficialmente, subito dopo Alex – che aveva ottenuto il grado di cadetta Antirealista – anche le vecchie conoscenze: Tresy, Chantal, Jasmine, Judy e i loro amici o ragazzi di turno. Sicché la generica “compagnia” era diventata un allegro grande gruppo che comprendeva una buona metà della gioventù di Southampton: anche volendo, era impossibile sentirsi soli.
Mancavano all’appello solo Morgana e Bettina, le gemelle che erano state Regine Realiste, e che da migliori amiche erano diventate acerrime nemiche di Griša. Era inevitabile incontrarle, doveva essere ormai questione di tempo.
E il momento arrivò, una sera d’agosto: Morgana si imbatté nella festante compagnia seduta sui gradini della chiesa che erano diventati il loro ritrovo in quanto unico posto capace di ospitarli tutti insieme. «Ciao, ragazzi» mormorò titubante. Il suo imbarazzo scomparve quando Ritchie le andò incontro e, mettendole amichevolmente un braccio sulle spalle, declamò: «Quale onore! La nostra Mo che, reduce dall’ultimo esame di medicina passato con un glorioso 30 e lode, si degna di capitare tra noi mediocri lavoratori! Per fortuna che nella banda ci sono anche studenti di ingegneria, lettere e filosofia, matematica, psicologia e Dio solo sa cos’altro, altrimenti il quoziente intellettivo di base ne uscirebbe davvero danneggiato!». Era talmente buffo, lui che da quattro anni lavorava come apprendista, che Morgana non poté fare a meno di ridere, e si lasciò trascinare nel gruppo. Lei e Griša si lanciarono uno sguardo strano, quasi d’intesa, e poi per tutto il resto della serata furono esattamente quelli di un tempo, anche se con una decina di anni in più alle spalle. Quando, verso l’una di notte, il gruppo si sciolse, Griša in persona si avvicinò a Morgana e le propose: «Nel caso tu, tua sorella Bettina e la vostra cerchia voleste farvi un giro a Villa Oldfield in questi giorni, sarete le benvenute. Tra un mesetto circa ricomincerà l’università, e potremmo non avere più molto tempo per incontrarci tutti insieme! In ogni caso, sicuramente daremo una grande festa che durerà tutta l’ultima notte di vacanza, e voi siete naturalmente invitate!».
L’antico astio era finalmente scomparso.
Era la notte, tra le fresche coperte di lino, che nell’animo di Griša riaffioravano i ricordi più tristi. Spesso per cancellarli si lasciava andare alla corrente della memoria, ripensando ai mesi felici trascorsi con Estel prima che Lestadt facesse la sua comparsa nelle loro vite, e ricercava la strana sensazione che lo avvolgeva di tanto in tanto durante quelle sue reminiscenze: la sensazione che, nel dormiveglia, lei fosse ancora lì al suo fianco a tenerlo per mano sul sentiero della vita. Un attimo prima di addormentarsi gli sembrava quasi di sentire ancora le dita di Estel intrecciate alle sue, e cadeva nel sonno con un sorriso sulle labbra e le ciglia umide.
Aveva un grande segreto, del quale forse soltanto Dralbij aveva qualche sospetto: teneva sotto il cuscino, o in tasca, o in qualunque posto potesse sempre averla sottomano, una lettera che Estel gli aveva spedito appena arrivata a Pietroburgo: «Il mio amore per te non finirà mai, come è vero che la notte segue il giorno… possano le stelle che io e te guardavamo lungo la Neva guidare i tuoi sogni eterni…». Poche righe più avanti c’erano parole che sembravano coltellate di menzogna: «Tu sei ancora ciò che ho di più importante, e voglio che tu sappia che il mio solo abbraccio per Lestadt sarà un abbraccio di morte. Se tu quella sera ci fossi stato, non sarebbe successo niente di tutto ciò!». E lui sapeva che non era vero, e non poteva non chiedersi perché mai Estel continuasse a trattarlo così, dopo tutto quello che era successo. «Se fosse stato per te, io non avrei dovuto esserci quel giorno» aveva scritto in risposta, alludendo all’orribile sera in cui era crollato tutto in quell’abbraccio tradito e traditore «Contavo meno di chiunque altro, ero solo il terzo incomodo tra voi due: come puoi dirmi ancora certe bugie? Perché avrei dovuto esserci? Volevi ancora giocare con me come un gatto col topo che sta per uccidere? Non so cosa stai cercando di fare, dove vuoi arrivare, cosa pensi: so poco, e quel poco mi fa vomitare. Perché star male di più, dunque? Io conosco la gente che mi vuol bene, e tu mi hai fatto capire di non avere nulla in comune con loro. Come ti ho già detto, io amo Estel, non la sconosciuta ragazza di Lestadt che ha preso il suo posto. Sei cambiata, così cambiata che del passato non è rimasto più niente, e siccome io stesso sono rimasto imbrigliato nel passato, anch’io finirò per scomparire in un tempo che non ci appartiene più. Dimenticami: quando dico addio, lo dico per sempre. Voglio che tu – o meglio, la straniera che sei diventata – scompaia dal mio presente, lasciandomi solo a vivere nel ricordo. Ti amo, ti amerò per sempre: questa è l’unica cosa che voglio tu sappia di me, senza dimenticare che mi sto rivolgendo al fantasma che alberga nella mia memoria».
Le ultime dolci parole di lei, per quanto false, erano un’eco di quel passato tanto rimpianto: non avrebbe dimenticato, e quella povera lettera sciupata da tante lacrime solitarie era il ponte tra lui e ciò che era stato, un ponte noto solo a lui e al suo cuore ormai incapace di amare ancora. Se gli altri avessero saputo di quelle lettere non avrebbero approvato, ma nemmeno si sarebbero opposti: sapevano bene quando era il caso di dare consigli e quando invece era meglio tacere, e nel caso del suo dolore così profondo da essere a volte inavvertibile non potevano fare altro che lasciarlo fare e cercare di stargli vicino il più possibile, senza però opprimerlo né farglielo capire.
Griša si girò su un fianco, esattamente come quando si addormentava osservando tra le ciglia il volto tranquillo di Estel al suo fianco: pochi giorni, ma così intensi! Passò la mano sotto il cuscino e incontrò la busta resa morbida da tanti contatti con le sue mani tremanti e con certe lacrime silenziose e brucianti: senza spostare la mano, la tirò più vicina a sé e vi appoggiò lievemente il viso, illudendosi di sentir trapelare dalle righe il calore di lei. Ma, nonostante l’estate calda, sentiva solo freddo e solitudine: si addormentò con un brivido.

Fu l’urlo del vento a svegliarlo, la mattina seguente, e appena aprì gli occhi si rese conto che il raggio di sole che gli dava il buongiorno ogni mattino aveva un colore strano, sbagliato. Nel letto a fianco, oltre un soffice tappeto persiano, Dralbij si era drizzato a sedere e tendeva le orecchie con aria preoccupata, e fu felice di incontrare lo sguardo del fratello che aveva abbandonato il letto in soffitta. «Sta per piovere» disse «Senti che vento».
In quel momento la porta si spalancò di schianto, facendoli sussultare, ed entrò la signora Ida trafelata, ansimando: «Giù dal letto, signorini, mi dispiace, ma dovete dare una mano a chiudere le imposte! Sta per arrivare una tromba d’aria!». I due fratelli furono subito in piedi nello stesso momento: una tromba d’aria non era niente a confronto col ciclone che avevano visto quando, cinque anni prima, avevano trascorso l’estate a Cold Mountain, in Louisiana… ma non era certo il caso di prendere alla leggera una bufera come quella che stava arrivando. Aiutati da tutti gli ospiti di Villa Oldfield riuscirono a barricare ogni finestra, mentre fuori si scatenavano le prime raffiche di vento e rimbombavano i tuoni sempre più vicini: impossibile usare l’elettricità, potevano scordarsi di scendere nel seminterrato a registrare qualche canzone. Si sedettero dunque in veranda, protetti da solide pareti di vetro perfettamente trasparente, osservando stupiti il cielo che si faceva sempre più buio, assumendo preoccupanti gradazioni di viola e blu. La luce si stava facendo giallognola, gli alberi si piegavano fino a terra, e nonostante lo spessore dei muri si udiva il ruggito del vento sempre più forte. Mulinelli di sabbia oscuravano il cielo, portando sulla loro sommità cumuli di foglie strappate: la situazione degenerava, e la tempesta non si era ancora scatenata!
Alle nove di quella mattina, un tuono spaventoso fece vibrare Villa Oldfield dalle fondamenta, e più di una persona non riuscì a trattenere un grido; e poi ci fu la pioggia, violenti scrosci che scorrevano come secchiate sul muro color avorio, oscurando ulteriormente i vetri. I tuoni erano assordanti, simili ad esplosioni di bombe, e nel cielo livido si rincorrevano immense nuvole verdastre e sgroppanti, che giravano in tondo sopra la zona. «L’orto! I frutteti!» si lamentava Norbert, scompigliandosi i capelli. A nulla servivano i commenti di Griša e Dralbij: «Abbiamo raccolto quasi tutto, non ci saranno gravi perdite!», sia Norbert che tutti i domestici erano carichi di apprensione e non facevano che scrutare il cielo mentendosi a vicenda: «Potrebbe passare senza fare troppi danni».
Quando cominciò a grandinare, nessuno di loro volle più guardare fuori: piovevano pezzi di ghiaccio fitti e grossi come noci, che presto presero le dimensioni di grosse arance. Il giardino era invaso da tutto quel bianco simile alla neve, e fu nel biancore che George e Paul intravidero una figura rannicchiata nell’androne. «Ma quella non è Alex?!» esclamarono, proprio quando Griša, attraversando la veranda in due balzi, si precipitò fuori incespicando nelle ciabatte.
Volò attraverso l’atrio e, spalancato il portone, piombò nel diluvio senza un attimo di esitazione. Intorno a lui i fulmini cadevano vicinissimi, i tuoni erano ormai un unico urlo profondo, i pezzi di ghiaccio lo colpivano con rabbia, lasciandogli dolorosi segni su tutto il corpo. Vedendolo, Alex lasciò il suo umido rifugio sotto una statua e gli corse incontro, farfugliando: «Passavo di qui… non avrei mai fatto in tempo a raggiungere casa mia a piedi!». Lui la prese per mano senza rispondere, e la aiutò a raggiungere di corsa l’atrio sicuro. Scivolavano nello strato di ghiaccio, e caddero una volta, ma quando furono finalmente al coperto scoppiarono a ridere: «Ce l’abbiamo fatta!».
Previdente, la signora Ida aveva portato al pianterreno degli asciugamani, nei quali i due si avvolsero ancora sorridenti. Griša teneva un braccio intorno alle spalle di Alex e la stringeva a sé, e lei ancora gli teneva stretta una mano: quella scena era così familiare che nessuno poté impedirsi di pensare al passato, e appena i due se ne avvidero furono ben svelti ad allontanarsi imbarazzati.
Ma fu impossibile ignorare lo sguardo che Alex gli lanciò.
Alex trovò alloggio in un’altra delle grandi stanze di Villa Oldfield; quella notte, Griša non si mosse da sotto le coperte, ascoltando la pioggia, ma Dralbij sapeva benissimo che fosse sveglio, vigile e preoccupato da quella presenza. «Stai per ricaderci di nuovo?» domandò cautamente «Hai trovato qualcuno che, in fondo, davvero ti amava… e adesso?» «Adesso niente» troncò Griša «Estel, il mio cuore, se l’è portato via. Ma non vedo perché dovrei rinunciare a… a certe piccole cose. Dovrei parlarne con Alex, l’ho capito anch’io come va la faccenda, eppure ho come la sensazione che lei stessa lo sappia: tra me e lei davvero non potrà esserci più niente. Quando siamo stati insieme, anni fa, lei aveva solo quattordici anni; e tu non immagini nemmeno cosa l’ho costretta a fare, nel giro di pochi mesi. Ora ho paura, non riuscirei mai a trovarmi in situazioni analoghe con nessun’altra… figuriamoci con lei!». Dralbij si rigirò nel letto e, puntellandosi su un gomito, lo squadrò nella penombra dicendo: «Tu non sei un violentatore, ed è ora che ti liberi di quest’ossessione. Qualunque cosa abbiate fatto, lei doveva essere per forza abbastanza d’accordo per accettare. E poi, sappiamo benissimo tutti e due chi ti ha introdotto alle delizie più audaci del sesso: Bettina!». Griša sobbalzò sentendo quel nome, e un brivido gli tagliò la schiena come le unghie che, otto anni addietro, gli avevano lasciato certi segni rossi. «Vacci piano» protestò «Sai che detesto mi si parli di… quegli anni. Per favore, fratellone, cambia argomento: io non sono più quello di un tempo!».
Dralbij ammiccò, e mormorò nel buio, in modo che Griša non lo udisse: «Lo so. Io fondo, io e te siamo gemelli spirituali, con lo stesso passato alle spalle: hai dimenticato che anch’io, come te, ho vissuto esperienze analoghe? Maira… la “giaguara perversa”… e tante altre persone prima e dopo di lei. Lavoravo al Jolly e al Blackjack: credi che non abbia mai avuto a che fare con venditrici di sesso?». Poi soggiunse, a voce più alta: «Hai ragione, credo che anche Alex non cerchi più che queste briciole innocenti».
Fuori, un tuono lontano più forte degli altri parve aggiungere il suo personale commento. Un tuono al quale, un attimo dopo, si unì lo squillo del telefono: erano le due della notte.
In un attimo furono tutti svegli nel corridoio, intorno a Norbert che teneva in mano un cordless sul quale lampeggiava l’ormai noto numero con il prefisso di Pietroburgo. Dralbij e Griša si guardarono l’un l’altro, sillabando: «La profezia dei tarocchi!».
Toccò a Dralbij rispondere: era l’unico che sapesse il russo e che fosse anche in grado di articolare un discorso, considerando che Griša era crollato inerte sul divano, pallido, con il sudore che gli scorreva a rivoli sulle tempie. Era dunque arrivata la morte a prendersi sua figlia?
«Ciao, Moonlight» disse Dralbij, riconoscendo il numero «Che cos’è successo?».
La voce del loro amico era acuta e in preda al panico, ed era difficile capire le parole tra la linea disturbata dal temporale e i suoi continui ansiti e balbettii. «Per l’amor del cielo, calmati!» esclamò Dralbij, anch’egli tremante di agitazione «E ripeti, non ho capito nulla».
E Moonlight, dopo un profondo respiro, spiegò: «Estel e Lestadt, la settimana scorsa, hanno litigato di nuovo, e ora lei non vuole più vederlo, stavolta per sempre: gli ha perfino augurato di andare a morire. Poco fa, Lestadt è andato a cercarla a casa, con l’intento di parlarle e chiarirsi: le avrà detto un milione di volte frasi come “Tu non hai mai dimenticato Griša” e “Mi hai ingannato per tutto questo tempo”. Era teso, nervoso, disperato, e…» qui si fermò, vinto dalle emozioni, per poi riprendere con la voce rotta: «E ha perso il controllo del motorino mentre attraversava i campi per andare da Estel. È finito in un mucchio di sabbia mentre correva agli 80 chilometri orari, ed è stato sbalzato via; dopo aver rotolato per qualche metro nella ghiaia si è fermato sbattendo contro un paracarro. Il casco gli si è rotto, e lui se l’è tolto prima che le schegge di vetro gli ferissero gli occhi; ma il motorino, che era rimasto in cima al mucchio di sabbia, ha improvvisamente preso fuoco e gli è caduto addosso».
Dralbij aveva le sopracciglia aggrottate e si sorreggeva con una mano incerta al muro. «E…?» rantolò.
Moonlight non avrebbe voluto dirlo: perché mai, si chiese, quei compiti così ingrati dovevano toccare a lui? Alla fine si decise, tanto l’avrebbero saputo comunque: «Ragazzi» mormorò «Lestadt è morto».
Avevano udito tutti, tanto erano stretti intorno al telefono. E tutti si voltarono verso Griša che, barcollando, era caduto su una poltrona con lo sguardo fisso. «È morto poco dopo che il motorino incendiato l’ha schiacciato» stava spiegando Moonlight «Ma non avrebbe avuto comunque molte possibilità: si era rotto parecchie ossa nella caduta, e aveva due gravi emorragie, una al cervello e l’altra a un polmone. In ogni caso, avrebbe avuto ben poche possibilità di cavarsela. Oh, Dio, amici, è orribile tutto ciò! E io ho visto quando hanno portato via il corpo… era irriconoscibile: deve aver fatto una morte orribile, perché… era cosciente. Era cosciente mentre il motorino lo schiacciava e i vestiti gli andavano a fuoco, e ci saranno voluti almeno cinque, otto minuti prima che morisse».
In quel momento Griša realizzò che l’ex amante di Estel era morto, ma era un altro il pensiero che si era dilatato fino ad invadere tutta la sua mente: Lestadt era stato un suo grandissimo amico prima ancora che il rivale vittorioso, e in quel momento riusciva a provare solo un dolore continuo, fuso a quello che continuava a straziarlo per la perdita di Estel. Era morto il suo amico.
Sentì una lacrima scivolargli fino al mento, ma non fece niente per fermarla. Semplicemente cercò di imporsi, come tante volte aveva fatto, di non piangere; ci riuscì fino a quando vide Dralbij chiudere la comunicazione e accasciarsi a terra singhiozzando: già, lui e Lestadt erano stati amici di vecchia data.
Intorno a loro si era fatto silenzio; sebbene nessuno nutrisse simpatia per Lestadt, erano rimasti comunque scioccati dalla notizia agghiacciante.

I due fratelli uscirono insieme, diretti verso la scogliera, ancora incapaci di raccapezzarsi. «Le carte» ripeteva Griša «Non avevano forse predetto la morte di Elisabeth? Cosa c’entra Lestadt? Possibile che tu, per la prima volta, abbia sbagliato un responso?». Dralbij si sedette su uno scoglio che affiorava dalla sabbia, riflettendo: «I tarocchi avevano predetto la morte di “qualcuno dei nostri, il più giovane, al quale vogliamo bene”. Tu ed Estel già consideravate Sissi “una dei nostri” prima ancora che nascesse. All’epoca in cui ho letto le carte lei non era ancora nata, e il più giovane era Lestadt. Siamo stati noi a sbagliare a leggere, ma i tarocchi l’avevano detto subito!».
Una falce di luna sopra di loro sembrava sorridere sul mare. Griša la osservò a lungo, seguendo con lo sguardo un aereo che parve attraversarla, e si chiese: «Come l’avrà presa Estel?» «Lei non ha mai amato Lestadt veramente» dichiarò subito Dralbij «Questo l’abbiamo sempre saputo. Quello che non capiremo mai è il perché del suo comportamento! Siete stati insieme, poi lei ti ha tradito, poi ti ha ingannato di nuovo venendo addirittura a cercarti, e adesso è fuggita ancora con Lestadt. Chi mai capirà perché?».
Griša era ormai disincantato: qualunque cosa fosse successa, era ben determinato a non fidarsi mai più di colei che l’aveva imbrogliato fino a quel punto. Fosse anche tornata, tra loro non ci sarebbe stato più nulla. Lo disse, e Dralbij annuì: «Finalmente hai capito che dall’amore non c’è da aspettarsi niente» sospirò «Facci caso: quante persone conosci che non hanno mai sofferto per amore? Amare è soffrire, e anche nella più bella storia ci saranno sempre tempeste che rovineranno qualcosa di importante. Guardati intorno: dopo tutta la grandine che è caduta, adesso ha smesso di piovere e siamo qui a parlare alla luna; ma guarda come sono ridotti i boschi: alberi caduti, rami strappati… il giardino, poi, è devastato. Possiamo rimediare e riportare tutto come prima, ma sarà solo apparenza: allo stesso modo, se mai un giorno lei dovesse tornare, penso che ormai tu abbia abbastanza esperienza per non credere a una parola, qualunque cosa ti dirà. Ma lei tornerà, fratellino. Ne ero convinto prima, ora che abbiamo capito che Sissi non morirà ne sono certo».
Griša chiuse gli occhi in un’espressione di dolore: quanto ancora avrebbe dovuto durare quell’inferno? Dralbij lo abbracciò. «Forza» sussurrò «Lo sai che, comunque vada, io ci sarò sempre. Estel non merita i grandi sentimenti di cui tu sei capace! Guarda cosa ti ha fatto, come ti ha ridotto, a cosa ti ha portato: tu non sarai mai più lo stesso, per colpa sua. Avevi il cuore di un sognatore, conoscevi il più grande sentimento di cui l’essere umano è capace: e ora? Fino a che punto saprai spingere la tua fantasia, dopo esserti spezzato le ali tra gli artigli della realtà? Delle tue illusioni non sono rimasti che pochi brandelli, troppo rovinati per essere ricuciti. Non voglio indurti a credere come me nell’Anti-Amore che avevamo fondato anni fa, ma voglio assicurarti che tra le sue mura troverai la protezione di cui hai bisogno in questo momento». Griša, così vicino al fratello maggiore, si sentiva incredibilmente protetto e convinto come mai delle sue scelte: l’Anti-Amore! Se fosse riuscito a costruirsi delle solide barriere usando come mattoni tutte le lacrime inutili che aveva pianto per Estel, si sarebbe compiuto il suo destino che aveva visto nella sfera di cristallo della quale ormai padroneggiava tutti i segreti così come Dralbij vedeva ogni cosa attraverso le sue carte. Aveva visto uno scrittore intento a riempire pagine e pagine della sua fitta scrittura ottocentesca, soffermandosi solo per intingere in un calamaio di inchiostro color seppia la punta affilata di una penna d’oca; intorno a lui c’erano strumenti di ogni tipo: chitarre, un pianoforte, fiati, un banjo, un’arpa celtica e innumerevoli altre strane forme delle quali conosceva a malapena il nome. Lo scrittore aveva i capelli bianchi, ma il volto era quello di un giovane dagli occhi profondi e tristi. Ed era solo, come testimoniava la brandina sfatta abbandonata in un angolo dell’attico tra bottiglie vuote e bicchieri rovesciati. Era nella solitudine che avrebbe trovato la compagnia dei suoi libri e della musica, unica donna fedele della sua vita.
«Scrivi un racconto» suggerì Dralbij «Scrivi per esorcizzare i tuoi sentimenti. Racconta una scena in cui tu lasci andare Estel con Lestadt, e cerca di usare le parole più aspre e più strazianti che ti vengono in mente, anche se non ne hai la forza. Avanti, fratello!». Griša esitò solo un istante; poi, tolto di tasca un taccuino e un mozzicone di matita, si appoggiò alla parte più piatta dello scoglio e cominciò a scrivere velocemente, sotto lo sguardo affettuoso e un po’ triste del fratello.
Come dimenticare quello sguardo innamorato che aveva cantato nelle sue più dolci canzoni d’amore? Ecco lì ora, davanti a lui: quegli occhi sognanti che, lo sapeva, mai più avrebbe dimenticato. E lei era lì, così concreta e reale, su quello stesso letto che aveva visto tanti dei loro momenti d’amore. Ora era il momento di fare quel grande passo che avrebbe cambiato la loro vita per sempre.
Estel e Griša si guardarono a lungo negli occhi, l’una sul letto, l’altro in piedi sotto la luce del lampadario, così violenta in quella circostanza, e nessuno sarebbe stato il primo a parlare se lui non avesse incominciato il discorso che da mesi gli pesava in cuore. «Perché dovete nascondere il vostro amore?» esordì con una voce non sua «Perché continuare a fingere, recitare, mentire e sognare quando tutti sanno benissimo che quel tempo è finito?». C’era nel suo sguardo il preludio della dannazione, l’incubo di un ricordo futuro che avrebbe screziato le sue notti di veglia. «Amore mio, io voglio solo che tu sia felice» mormorò, inginocchiandosi davanti a Estel che, colpita da quelle parole, riusciva soltanto a pensare convulsamente: «Ha sempre saputo tutto!». Fuori da Villa Oldfield c’era Lestadt che la aspettava, certo, e molto probabilmente Griša sapeva anche quello. «La tua sfera di cristallo…» disse, esitante «I tarocchi di Dralbij, i dadi… tu lo sapevi, vero? Sapevi che io e Lestadt…» «…non vi eravate mai lasciati davvero. Sì, lo sapevo, e certe volte era difficile fingere di non sapere». Nel tono di Griša non c’erano emozioni «Perché continuare a litigare con te, sentirti dire che tra te e lui è finita dopo cinque giorni, che tutto andava bene quando in realtà era tutta una farsa?».
Estel taceva: impossibile dargli torto, impossibile negare l’evidenza. Forse avrebbe preferito che lui urlasse tutto il male che era consapevole di avergli fatto… ma quella sua tranquillità la feriva più di ogni altra cosa. Per un attimo gli sfiorò un ciuffo ribelle di capelli che gli sfiorava il naso, e Griša non si tirò indietro. «Ascoltami» disse, serio «Questa situazione è andata avanti fin troppo, e io ho avuto molto tempo per riflettere: ora voglio che tu e Lestadt stiate insieme ufficialmente, senza più il bisogno di fingere. Io ti amo, e difficilmente potrò superare questo sentimento, ma il desiderio di vederti felice è più forte di ogni altra cosa. Vai da lui, adesso, è qui fuori che ti aspetta; fa freddo, è meglio se ve ne andate in un posto caldo prima di prenderti un malanno. Al nono mese di gravidanza non sarebbe bello fare ammalare la piccola». Era la prima volta che non la chiamava “nostra figlia”.
Estel si alzò dal letto: avrebbe voluto fermare il tempo a quella sera di febbraio tanto cantata e tanto rimpianta, ma la lancetta dei minuti continuava ad avanzare come un cavallo in corsa, impossibile da fermare. E fu allora che, vedendo quegli occhi così dolci e rassegnati, si arrese: «Ti ringrazio per aver capito». Era quello il colpo di grazia, ma Griša non sembrava ulteriormente ferito: da mesi lo sapeva. Le aprì la porta e la accompagnò al cancello, lucido e cosciente nel freddo di novembre, e senza una parola la guardò allontanarsi a passo sicuro verso il bosco: quante volte in passato l’aveva fatto! Prima che lei sparisse nella notte, però, un ultimo guizzo nel cuore lo costrinse a chiamarla: «Aspetta!».
Ora aveva assunto un tono quasi di scusa e di supplica: «Non voglio farti perdere altro tempo, farò in un attimo… quando nascerà la piccola, io… potrò vederla anche solo una volta? Non m’importa che tu voglia farle conoscere Lestadt come suo padre, né che tu voglia affidarla a me e costruirti una nuova vita con lui… mi piacerebbe solo vederla, dopo che per nove mesi le ho parlato e l’ho…». La voce gli mancò all’improvviso e Griša, tradito, voltò la testa da un’altra parte per nascondere le lacrime. «Lascia stare, era un discorso assurdo. Vai, vai, è meglio se io invece me ne torno a casa: ho lasciato la porta aperta e gli altri non sono ancora tornati. Venite a trovarci, qualche volta…».
Un attimo dopo era già sulla scalinata di marmo. Estel, ammutolita, non riusciva a capacitarsi della sua libertà: non doveva più preoccuparsi di niente, e presto l’amore di Lestadt l’avrebbe aiutata a dimenticare il passato. Già il solo pensiero di lui restituiva la luce a quel momento buio… ma sapeva che mai e poi mai le parole di Griša sarebbero scomparse dalla sua mente. Era stato così buono, e strano, e così terribilmente sconfitto… ma che importanza aveva? L’aveva lasciata libera.

La notte si era ormai tinta di rosa; Griša e Dralbij dormivano, schiena contro schiena, con il vento del mattino che si infilava con le sue dita affusolate tra i loro capelli. Erano sotto la scogliera, là dove il sole difficilmente sarebbe arrivato, e non si svegliarono che nelle ore più calde del pomeriggio, tra le strida dei gabbiani. «I Gabbiani» sbadigliò Dralbij «Alzati, musicista: adesso dobbiamo solo preoccuparci della musica».
Si trascinarono a casa, stanchi pur avendo dormito, e dopo una doccia fresca scesero nel salone dove Norbert stava leggendo un libro. «Dove sono tutti?» chiesero, ma prima ancora di avere una risposta sorrisero: la sala d’incisione al piano di sotto! Norbert depose il libro e li fece sedere al suo fianco, tenendo loro un braccio sulle spalle. «Siete voi i capi dei Gabbiani, giusto? No, non mi importa se dite che nessuno di voi comanda: andate giù e parlate con gli altri del mio progetto. Vorrei che voi suonaste insieme a me al concerto di fine estate, il 6 settembre. O, se preferite, vorrei unirmi a voi per un concerto di musica mia. Pensate si possa fare?». Griša e Dralbij si guardarono l’un l’altro perplessi: Norbert era il più grande musicista d’Inghilterra, capace di suonare qualsiasi strumento gli venisse posto davanti con la più alta maestria. Prediligeva la chitarra, sulla quale sapeva creare degli assolo irripetibili, talmente veloci da rendere impossibile distinguere il movimento delle dita. I Gabbiani si occupavano di folk, rock, pop, talvolta anche di metal o perfino di celtica medievale, ma il genere totalmente melodico di Norbert era fuori dalla portata di tutti loro. Tanto più che solo Dralbij aveva qualche conoscenza di teoria musicale: nessuno degli altri sapeva nemmeno leggere il pentagramma. Griša lo spiegò, ma Norbert non volle udire ragioni e ordinò: «Come se non vi ascoltassi quando suonate! Tu hai fatto progressi incredibili con la chitarra da quando ti ho insegnato i primi accordi un po’ più complessi, George pure, Paul è uno dei migliori bassisti che conosco – e il migliore della zona –, Arthur è un pianista incredibile e vedo che non se la cava male nemmeno con la chitarra e il banjo, e in quanto a Ritchie… beh, senz’altro non ho mai visto nessuno suonare la batteria meglio di lui. e tutti voi siete bravi con strumenti all’apparenza insignificanti o sconosciuti come i flauti. E ancora ocarine, liuti, sitar, bodhran, cornamuse, salteri, dulcimer, launeddas e tutto ciò che riuscite a trovare giù nel mio studio. Avete fatto tanta di quella strada, pur non avendo suonato insieme per quattro anni, da lasciarmi stupito: siete tutti perfettamente in grado di suonare con me, e se vi impegnerete sarete sul palco con la mia big band a Natale e a Capodanno, a Edimburgo! Sarà difficile, ma non sono né il tempo né il talento a mancarvi. Coraggio, allora, andate a parlarne con gli Smoky Beetles!».
Dralbij fu il primo ad andare, leggermente deluso: perché Norbert non l’aveva nemmeno nominato? Anche lui sapeva suonare la chitarra, anche se non come gli altri avendo iniziato parecchio dopo di loro. Ma cantava benissimo, gli avevano sempre detto tutti: era il suo riscatto! «Già» pensò amareggiato «E cosa se ne fa di un cantante una band melodica?».
Norbert dovette corrergli dietro e chiamarlo più volte, tanto era preso dal suo scontento. «Aspetta!» gli disse «È con te, soprattutto, che devo parlare. Dunque: nella big band ci sono anche una mezza dozzina di coristi, ma nessun solista. Per questo abbiamo sempre evitato le canzoni! Tu, però hai una voce spettacolare, che unita a quella di Johnnie tocca le vette della perfezione: te la senti di essere la voce guida?». Enormemente orgoglioso, anche se ancora incredulo, Dralbij esclamò spalancando gli occhi chiari: «Eccome!».
I Gabbiani al completo erano pronti, pochi minuti dopo l’annuncio, a mettere tutte le loro capacità al servizio di Norbert. Seri e concentrati, se ne stavano immobili con i rispettivi strumenti tra le mani, in attesa di ordini. In genere le loro sedute d’incisione erano concentrati di comicità e goliardia, ma trovandosi – professionalmente – al cospetto del musicista che reputavano quasi una semidivinità nel campo della musica erano diventati incredibilmente contegnosi. Norbert cominciò a spiegare loro come voleva che fossero suonate le sue composizioni, ma sulle prime tutto sembrò dare ragione al pessimismo di Griša: erano troppo emozionati, e non facevano che sbagliare in errori grossolani. Perfino Dralbij sbagliava a dettare le note che trovava su uno spartito. A poco a poco, però, intervallando i lunghissimi periodi musicali con scherzose improvvisazioni di canzoni scritte da loro, riuscirono a dissipare la tensione.
La sera, quando si resero conto di essere affamati e stanchi, ormai sapevano perfettamente come gestire quei difficili brani. E Norbert era fiero di loro.
Alex se n’era rimasta per tutto il pomeriggio ad ascoltarli, rapita: li aveva conosciuti quando non erano che un gruppo di ragazzetti con la passione per il rock’n’roll, e nel vederli pronti per un concerto di portata mondiale la commosse. «Congratulazioni!» esclamò «Sappiate che, quando verrà il momento, io sarò in prima fila!». I suoi occhi indugiarono per un istante sul profilo di Griša, che stava ridendo per una battuta di Ritchie, e si sentì stringere il cuore: era così raro vederlo felice e rilassato, specie dopo tutto quello che gli era successo. Timidamente allungò una mano a ravviargli il codino di capelli che si era arruffato sul colletto della camicia, e lui si voltò per sfiorarle il viso con una carezza. «Ci conto» le disse «Quando verrà quel giorno, almeno una delle canzoni che faremo sarà dedicata alla mia migliore amica!».
Ormai la terribile bufera era solo un brutto ricordo passato, i cui effetti sul presente si limitavano a qualche mezz’ora in più di lavoro in giardino. Ringraziando calorosamente per l’ospitalità, Alex si congedò da Villa Oldfield promettendo di farsi viva al più presto. Negli occhi di Griša, che tutti indagavano di nascosto, non c’era traccia di ciò che cercavano. Dralbij sorrise, un’espressione per metà triste e per metà affettuosa: no, Cupido non aveva più frecce al suo arco per lui.
Dopo cena, i sei Gabbiani si sedettero come di consueto in veranda con qualche strumento, dedicandosi a sporadiche improvvisazioni e a lunghe ore di chiacchierate. Parlavano dei quattro anni trascorsi senza vedersi, degli studi che avevano compiuto, di quello che avrebbero fatto e della guerra tra Realisti e Antirealisti: già, quella guerra della quale nessuno parlava più, ma il cui pericoloso calore pulsava come la lava nel ventre di un vulcano semiattivo. Se lo stato di grazia si fosse spezzato? Se le antiche controversie fossero tornate alla luce? Per il momento sembrava impossibile, date le ore felici che avevano trascorso in compagnia dei nemici di un tempo, ma era ancora molto difficile trovare la fiducia reciproca.
E poi c’era quell’altro argomento, quello di cui nessuno aveva il coraggio di parlare: la piccola Elisabeth, la figlia di Griša.Ormai non mancavano più di tre mesi alla sua nascita, il tempo era volato anche senza Estel. Griša non aveva avuto più notizie di lei, e aveva sempre cercato di evitare il discorso anche nelle frequenti telefonate di Moonlight, ma il pensiero latente era impossibile da ignorare: come stava Sissi? Avrebbe mai conosciuto suo padre, povera bambina nata quasi orfana? Quand’era solo con i suoi ricordi, Griša non sapeva impedirsi di pensare alle dolcissime ore trascorse con Estel, prima che arrivasse Lestadt, prima che lei lo imbrogliasse, prima che il suo mondo gli crollasse addosso. Ricordava i progetti che avevano per la piccola Lizzie («Non t’azzardare a chiamarla con quel diminutivo!» lo rimproverava Estel, al che lui rispondeva: «Ma è solo un po’ di dialetto di Liverpool! Vuoi che nostra figlia non impari la lingua madre di suo papà?» «Non il dialetto!» era l’aspra risposta, già solcata di ironia. I due finivano per scoppiare a ridere abbracciati… bei tempi perduti), i sogni ad occhi aperti verso un futuro che non faceva paura. E aveva perduto tutto in meno di un mese! Se chiudeva gli occhi si rivedeva sdraiato su un letto con le coperte stampate a stelle e cielo notturno, intento a coprire di baci colei che tanto amava. Spesso si sdraiava con la testa sulle sue ginocchia, mentre lei gli passava delicatamente le unghie tra i capelli: quante volte, magari stanco dopo una giornata di studio, si era addormentato così! E quante volte, padre affettuoso e un po’ insicuro in una situazione mai vissuta prima, aveva sentito la piccola scalciare sotto la sua mano! Estel lo prendeva sempre in giro: «La smetterai mai di aver paura di tua figlia?», e lui protestava ogni volta: «Ho paura di farle del male, piccola e delicata com’è lì nella tua pancia!».
Erano solo ricordi, echi un po’ più concreti soltanto nei suoi sogni, ma… com’era dolce abbandonarsi alle loro ondate quando nessuno poteva vedere le lacrime rigargli il volto e i singhiozzi strozzargli la gola! Era diventato bravissimo a dissimulare i suoi pensieri, forse solo Dralbij poteva intuire qualcosa.
Dralbij che, silenzioso e tranquillo, gli era sempre rimasto accanto: erano insieme quando avevano iniziato ad essere gli Shining Night e gli esploratori di case abbandonate, i Ruin Raiders; insieme avevano studiato, pagato l’affitto e le bollette della loro soffitta in Via dei Fiori Bianchi, lavorato come croupier al Jolly e al Blackjack, scritto racconti e canzoni. I suoi ricordi più belli di quel periodo erano indissolubilmente legati a Dralbij!
Alzò lo sguardo verso di lui, che se ne stava seduto su un divanetto insieme a Paul e Arthur; teneva in mano la sua umile ma indistruttibile chitarra, e stava strimpellando una delle loro ultime e canzoni. i capelli gli erano cresciuti, ma lui non li aveva più tagliati, sicché fini ciuffi biondi andavano ormai a sfiorargli le sopracciglia. Spesso se li rendeva più sottili e dritti con una spruzzata di lacca, e gli davano un’aria a metà strada tra un ragazzo misterioso e un divo del cinema. Il codino lo teneva raccolto a treccina, e gli scivolava su una spalla quando abbassava la testa sulla chitarra. Al collo portava il pentacolo che lui e Griša si erano comprati insieme, simbolo di magia, e in una tasca si intravedeva il rigonfiamento di due o tre dadi. Era il suo fratello maggiore che mai una volta l’aveva abbandonato, e che anche ora sapeva essere con lui mentre il suo cuore andava in frantumi. «Paragona il tuo cuore al big bang» gli aveva suggerito un giorno, a tavola «Un’esplosione epocale, dalla quale però è partita la vita. Abbiamo studiato, in astronomia, che l’universo è ancora in espansione: espandi il tuo cuore verso lidi che non abbiano niente a che vedere con l’amore che ha causato il… collasso gravitazionale». Tutti avevano studiato quegli argomenti, e furono d’accordo.
Dralbij ricambiò l’occhiata e sorrise con aria sorniona: come non capire i loro pensieri così limpidi e fraterni?

Erano seduti al tavolo da pranzo quando Norbert, con l’aria più serafica del mondo, propose noncurante: «Ragazzi, vi piacerebbe avere una pista di go-kart qui a Villa Oldfield? Ci sono chilometri e chilometri di prati incolti, dopo i campi da gioco, e pensavo quasi di far costruire qualche pista dalla parte dei campi da tennis. Per John e Clyde garantisco io, e in quanto a voi che cosa ne pensate? Credete che i vostri genitori potrebbero comprarvi dei kart?». Si guardarono tutti tra di loro, confusi e piacevolmente sorpresi: certo, ognuno di loro aveva alle spalle la sua esperienza con i kart… era sufficiente rimetterli a nuovo dopo che per anni erano rimasti nel dimenticatoio. Griša sorrise tra sé pensando alle epocali gare che aveva sostenuto contro Bettina, la campionessa del 1972, e prima ancora contro Tresy; era solo alle prime armi, ma avendo fatto la gavetta con le due migliori pilote del Sud dell’Inghilterra era già molto più bravo degli altri principianti. Era stato campione anche lui, nel 1973, e l’idea di ritornare con un volante per le mani lo solleticava non poco. Vedeva gli stessi pensieri sui volti dei suoi amici, che in quegli anni erano sempre stati a bordo pista a tifare per lui. E si sentiva già nelle orecchie il rombo del motore che aveva imparato da Bettina a truccare. «Io sono d’accordo» dichiarò, subito seguito da tutti gli altri. Norbert, come se non avesse aspettato altro, sollevò la cornetta del telefono e cominciò a chiamare.
Tre settimane dopo era stata ultimata un’enorme pista per go-kart, la migliore che avessero mai visto, dotata di ogni espediente per rendere la gara una corsa mozzafiato: c’erano sull’asfalto aree sconnesse e aree coperte di sabbia (che Griša e Dralbij chiesero di togliere, ricordando l’incidente che era costato la vita a Lestadt), pannelli verdi che raddoppiavano improvvisamente la velocità, salti impressionanti che catapultavano il veicolo ad altezze vertiginose, fosse scavate in mezzo al percorso che si potevano aggirare o sorpassare tramite una stretta striscia di materiale verde. Quando la videro per la prima volta, i piloti rimasero estasiati. C’erano proprio tutti, perfino le gemelle ex-Regine Realiste Bettina e Morgana. Non che Griša fosse particolarmente propenso a incrociare lo sguardo con quello di Bettina, ma scoprì in lei l’amica di un tempo che credeva di aver perso per sempre, e quella fu una gradita novità. Oltre il primo amore che l’aveva distrutto e oltre la guerra, erano tornati ad essere amici.
Avevano portato tutti i loro go-kart, e li sistemarono nei box che Norbert aveva fatto costruire: c’erano quello verde militare di Bettina e quello arancione di Morgana in uno dei due box più grandi, mentre quello viola di Griša e quello blu di Dralbij (erano i loro colori di generali Antirealisti) sfavillavano nel box parallelo. George aveva il kart rosso, Ritchie giallo, Paul grigio e Arthur azzurro: impossibile confondersi. L’unica differenza tra quelli dei ragazzi di Villa Oldfield e quelli degli altri era che i primi recavano sul davanti il simbolo dell’Antirealismo, la spettrale A viola e blu, mentre i secondi avevano un logo simile ma raffigurante una sorta di V rossa e grigia: il Realismo. Non che quei segnali significassero qualcosa per loro, ora, ma servivano a distinguere le due scuderie. Ad ingrossare le file Realiste arrivò poco dopo anche Tresy, su un kart verde scuro, ma era seguita dal kart bianco di Alex, sul quale Griša aveva dipinto due giorni prima il logo Antirealista.
«Avanti, John» lo sfidò Bettina, porgendogli il casco viola «Inaugura la pista, fai un giro di prova e torna a dire cosa ci aspetta… se sopravvivi» «Ci puoi giurare» ghignò lui, prendendo il casco e fremendo involontariamente al contatto delle loro dita «Tu bada a non prendere fuoco dopo che sarò partito». Avevano trascorso tutta la notte nei box, lui e Dralbij, a potenziare i rispettivi motori in modo da avere un’accelerazione istantanea e una velocità elevata fin da subito, e avevano truccato anche lo sterzo per poter prendere anche le curve più ardue alla massima velocità.
Griša si posizionò sulla riga bianca e nera della partenza, facendo rombare i tre motori con un cupo ruggito nell’aria del mattino, tra gli applausi di tutti. Norbert diede corrente al semaforo di partenza, e lui si concentrò sui pedali prima ancora che sul volante: gli sembrava di rivivere quel passato a Portsmouth. Rosso, rosso, rosso… e poi il quarto semaforo: verde!
Scattò in avanti impennando, mentre un getto di fumo usciva dal triplo tubo di scappamento. Sentiva il volante ben saldo tra le mani protette dai guanti, e dietro il casco non si rendeva conto dell’aria che lo sferzava. Il kart era aerodinamico, e comunque troppo veloce per poter risentire dell’attrito. Prese velocità sul primo rettilineo, ma quasi si schiantò alla curva che seguì, un brutale angolo acuto. Quasi: sterzando bruscamente e girando in fretta il volante riuscì a mantenere il controllo del mezzo, e si lanciò verso i pannelli verdi. L’accelerazione fece impennare nuovamente il kart: e sì che ancora non era al massimo della sua velocità! «Fantastico» pensò, rapito «Assolutamente indimenticabile».
Davanti a lui si ergeva la prima alta rampa dalla cui sommità avrebbe dovuto lanciarsi per ottenere un supplemento di velocità; contando sugli ammortizzatori la prese spingendo l’acceleratore a tavoletta, e un attimo dopo volava, per poi atterrare dritto su un altro pannello turbo. Gli ammortizzatori funzionavano bene.
Gli ci vollero sette minuti per completare il giro, e quando raggiunse il traguardo aveva la fronte sudata e gli occhi che brillavano. «È incredibile!» gridò, entusiasta «Grazie, papà!». Per la prima volta da quando era tornato a Southampton appariva veramente vivo.
A turno, tutti provarono la nuova pista, e si complimentarono per la geniale trovata di Norbert. «Verremo qui tutti i giorni» si ripetevano reciprocamente, battendo le mani; «Organizzeremo veri e propri tornei come quelli di nove anni fa» promettevano Tresy, Bettina e Morgana. Norbert li osservava orgoglioso uno per uno: era sì miliardario, ma apparteneva alla corrente di pensiero che adottava come motto «Il denaro non dà la felicità»; certo che, nel vederli così euforici per quel regalo incredibilmente costoso, la sua filosofia subiva un grave scossone.
Ad un certo punto Bettina si parò di fronte a Griša e si sfregò le mani, dicendo: «Credo che io e te abbiamo ancora un conto in sospeso, in fatto di go-kart». Anche Tresy e Morgana la affiancarono, tanto che per un attimo parve la scena di una delle loro battaglie. Griša, però, non era spaventato: c’era una luce perversa e indecifrabile nel suo ghigno, mentre diceva sardonico: «Una sfida? Ci sto, ma voglio dettare io le regole: voi tre correrete contemporaneamente contro di me, mentre io userò in segno di fratellanza il kart che io e Dralbij abbiamo costruito». Incurante degli sguardi impauriti degli amici, si recò verso il box ancora chiuso a chiave, mentre Dralbij balbettava: «Vuoi usare il Daimon? Non l’abbiamo mai provato!».
Ne uscì poco dopo, guidando un kart leggermente più grosso degli altri, dall’apparenza spaventosa: la carrozzeria era nera, salvo due strisce a saetta viola e blu che si incrociavano dietro al logo Antirealista. Aveva le ruote artigliate piuttosto larghe: la tenuta di strada non poteva che essere ottimale. Dietro scintillavano due larghi tubi di scappamento, ma il dettaglio più inquietante riguardava i lati, dai quali spuntavano due alettoni simili a lame di falce: uno scontro con quel bolide sarebbe stato fatale per qualsiasi altro veicolo.
Le altre tre concorrenti, però, non sembravano intimidite: «Sfida accettata» dichiarò Bettina, infilandosi il casco «Tre contro uno, ma con un kart particolare».
Intorno alla pista era caduta una cappa di silenzio; anche il cielo sembrava partecipare all’ansia per la gara: era plumbeo, i tuoni rombavano in lontananza. I semafori cominciarono il conto alla rovescia: rosso, rosso, rosso…
Al verde, quattro kart si avventarono ferocemente sulla pista: il Daimon di Griša sfrecciava senza bisogno che lui pigiasse troppo sull’acceleratore, e i suoi alettoni erano temuti dalle altre che li vedevano come la fine della gara. Bettina gli stava dietro, all’apparenza indifferente, mentre Tresy e Morgana lo circondavano e gli tagliavano la strada. Salirono la rampa in poche frazioni di secondo, ma lì qualcosa successe: Griša accelerò al massimo, sorpassando in un baleno le altre tre, e rallentò solo quando sentì che tutte e quattro le ruote erano staccate dalla pista. Come Dralbij aveva calcolato, gli alettoni l’avrebbero sostenuto in aria più a lungo, e lui ne approfittò per tornare a premere sull’acceleratore mentre ancora stava a mezz’aria: ottenne uno stacco che le sue avversarie non avrebbero mai potuto colmare, e lo sapeva; così, senza che nessuno se ne accorgesse, decelerò leggermente. Tenne l’ultimo derapage di potenza per tagliare il traguardo su due ruote, per primo, tra le urla estasiate degli spettatori. Bettina era arrivata seconda soltanto per aver preso una curva troppo larga: la prossima gara tra loro due sarebbe stato uno scontro alla pari. «Grandioso!» esclamò Tresy, quando ebbero parcheggiato i kart «Tu non hai migliorato la tua guida, sei semplicemente diventato un campione al nostro livello!» «Modesta anche nei complimenti» ironizzò Griša, versando per tutti una limonata fredda «Vi ho battute tutte e tre!».
Poco più tardi iniziò a piovere: i kart vennero riposti nei box, e tutti i piloti si radunarono nell’ormai familiare salone per il pranzo. Come se non fossero trascorsi otto anni dall’ultima volta che erano stati tutti insieme.

Agosto e l’estate dorata si bruciarono in fretta sui tetti di Southampton; i Gabbiani passavano i pomeriggi in sala prove con Norbert, attentissimi a fare del loro meglio senza mai sbagliare una sola nota. Norbert era fiero di loro: sapeva di aver puntato molto su quei ragazzi, ma stavano dimostrando di essere all’altezza delle sue aspettative. Sì, erano proprio cresciuti, ciascuno con i suoi sogni e le sue difficoltà, ma tutti in fondo allo stesso modo.
La sera, dopo cena, si trovavano sulla pista da go-kart a correre qualche ora prima di sedersi al fresco in giardino. Si sentiva già, alla fine di agosto, l’accenno dell’autunno non più troppo lontano: era ora per tutti di tornare all’università e chiudere nel diario l’estate trascorsa.
Con l’avvicinarsi di settembre, Griša si era fatto sempre più pensieroso: «Io e Dralbij siamo iscritti all’università di Pietroburgo» confessò una sera, quando Norbert insistette per sapere cosa lo turbasse «E a ottobre ricominceremo. Dobbiamo tornare là!». Anche Dralbij era assillato dagli stessi pensieri: «Ho trascorso l’estate più bella della mia vita, non voglio tornare!». Sebbene entrambi avessero il loro lavoretto, la casa e altri amici là, erano riluttanti. E Griša era terrorizzato all’idea di ritrovare Estel, foss’anche per caso.
Norbert rimase silenzioso per qualche minuto, e poco dopo cominciò a parlare in tono misurato: «L’avete comprato, alla fine, l’appartamento in Via dei Fiori Bianchi, quindi è vostro e lo potete affittare, una volta svuotato dalle vostre cose. L’università: non siete entrambi di madrelingua inglese? Che difficoltà avreste a terminare gli studi qui? E il lavoro: Clyde, qui ci sono parecchi locali dove potresti esercitare la tua professione; John, non ti sarà difficile pubblicare racconti sul Reader's & Writer's e lo sappiamo benissimo entrambi. A te soprattutto non farebbe bene tornare a Pietroburgo stabilmente!». I due fratelli si scambiarono un’occhiata prima di tornare a rivolgere lo sguardo verso Norbert, che concluse: «Io sono del parere che potremmo tornare là con il mio aereo privato, prelevare tutto ciò che volete portare via dal vostro appartamento… e sistemarci tutti insieme qui a Villa Oldfield. Se vi serve tempo per riflettere, ne avrete finché vorrete!».
Griša osservò, titubante: «I nostri amici di Pietroburgo sarebbero l’unica perdita, ma potremmo scriverci sempre e qualche volta anche telefonare, no?» «E qui non saremmo certo soli» fece eco Dralbij, con una strana luce negli occhi mentre osservava tutti i presenti «Io mi sono sentito a casa fin dal primo giorno, qui, e ci sono cose che non potrò dimenticare… e che non voglio perdere! Personalmente, io sarei d’accordo: ho abbastanza soldi da parte per iscrivermi all’università di Southampton» «Farai sempre ingegneria?» si informò Norbert, porgendogli con un sorriso smagliante un foglio di iscrizione. Griša rimase a fissare l’altro foglio che il padre gli stava porgendo: università di lettere e filosofia. A Southampton. «Accetto!» esclamò, firmandolo insieme a Dralbij.
Dopo un istante di silenzio esterrefatto – con Norbert l’impossibile accadeva in un istante prima che chiunque potesse rendersi conto degli eventi – tutti i presenti scoppiarono in un applauso: finalmente erano di nuovo tutti insieme, e in più con Dralbij! Perfino Bettina e Tresy, ex-nemiche giurate di Griša, erano esultanti. Alex commentò: «Vi resta solo l’ultimo ostacolo, tornare a Pietroburgo a chiudere le vostre faccende» «Ma saremo tutti insieme» ribatté Dralbij «E sapremo che ci aspetta Villa Oldfield, quando torneremo!» «Intanto pensate al concerto del 6 settembre» li redarguì Norbert «Dopo vi porterò a Pietroburgo, promesso, ma prima dovete impegnarvi fino in fondo! E da oggi, ragazzi, proveremo tutti insieme, con gli altri della big band. Voi tre, avete studiato bene la vostra parte?». Si era rivolto a Bettina, Morgana e Tresy, che risposero ad una voce: «Certo, capo!».
Griša, scoprendo che sarebbe salito sul palco con loro, non riuscì a trattenere uno strano verso strozzato che fece ridere tutti; Dralbij, che lo sapeva benissimo ma che aveva sempre fatto finta di niente, ammiccò: «Sono tre cantanti eccezionali, dovresti sentire che cori favolosi sanno fare; e anche da soliste, fanno venire i brividi! Ora che sappiamo che non ce ne andremo più da Southampton, possiamo mettere su anche noi un gruppo che, ne sono certo, passerà alla storia».
Le antiche divergenze non esistevano più, era davvero finito quel tempo. Scesero tutti al piano di sotto, con una rinnovata voglia di fare, e riuscirono a cantare e suonare con tanta lena che, per la prima volta, i difficili brani di Norbert riuscirono perfetti. Soltanto Griša e George ebbero qualche problema con i complicatissimi assolo che spettavano loro, ma riuscirono a cavarsela con brillanti improvvisazioni. «Siete stati superlativi, stavolta» annunciò Norbert alla fine delle prove «Ora, siete davvero sicuri di non farvi prendere dal panico, una volta saliti sul palcoscenico? Avete appena dimostrato di essere in grado di suonare ciò che vi ho proposto, quindi ritengo sia giusto che sappiate che genere di pubblico avremo la prossima settimana». Di fronte a tanta solennità si zittirono tutti e si affollarono intorno a lui, che concluse: «A quanto pare nessuno di voi sa nulla. Molto bene, sarà una totale sorpresa per voi sapere che è un concerto di portata continentale!». Nel silenzio annichilito che seguì si udì solo la voce esitante di Griša e Dralbij: «A Pietroburgo lo sanno?».
Già, a questo Norbert non aveva pensato: aveva già provveduto, di nascosto, a far avere gli inviti ai loro più cari amici russi… ma non aveva pensato che anche coloro che volevano evitare l’avrebbero saputo. Trovare Estel nel pubblico sarebbe stato a dir poco deleterio per l’abilità di Griša!
Griša, però, non sembrava eccessivamente turbato: stava pensando al suo migliore amico Asso, insieme al quale aveva scritto le sue canzoni più belle. «Ivan Georgijevic Rodegherov» disse «L’hai invitato, vero, il buon vecchio Asso? Non vedo l’ora di rivederlo!». Era come se il ricordo di Estel non gli fosse nemmeno passato per la mente: buon segno. Norbert non poté che assentire, e lo stesso fece anche quando Dralbij gli chiese se avesse spedito i biglietti gratuiti anche ad altri loro amici.
Durante la consueta passeggiata sulla spiaggia insieme ad Alex, però, Griša lasciò trapelare la sua inquietudine: «Tra una settimana rivedrò Estel» esordì, accoccolandosi nella sabbia. C’era buio, la luna era nuova, e nessuno avrebbe potuto vedere la sua espressione angosciata. Alex la percepì con gli occhi del cuore, infatti, e lo abbracciò affettuosamente sussurrando: «Sì, la rivedrai, sicuramente non rinuncerà all’occasione di vedere te e tuo fratello, ma non sarai obbligato a incrociare il suo sguardo. Quando sarà il momento di andare in scena, mettiti un paio di occhiali da sole anche se sarà di sera, e concentrati solo sulla tua chitarra: lo so, ti sto consigliando l’impossibile, ma devi resistere assolutamente. Se ti dimostrerai superiore, se saprai fingere di esserne uscito vincitore, e se tra voi due può ancora scoccare la scintilla, sarà lei a tornare da te. E quando succederà… sono certa che sarà per sempre».
Griša ricambiò l’abbraccio e poi, senza rendersi conto di nulla, le baciò le labbra. «Sei straordinaria» le disse, semplicemente, certo che lei avesse capito. E Alex rimase per un istante abbandonata tra le sue braccia, prima di riaversi e mormorare: «Tu sai quello che provo, che non ho mai smesso di provare, per te. E immagino tu abbia capito che il nostro passato insieme è qualcosa che ricorderò per sempre come un periodo tanto intenso quanto felice, almeno per me… ma qualcosa che non sarei in grado di ripetere. So quello che provi per Estel: il vuoto che ti senti dentro lo potrà riempire solo lei. Ricordati, però, che quando cercherai qualcuno che ti stia vicino, là ci sarò io».
Starsene seduti sotto tutte quelle stelle, incredibilmente numerose lontano da qualsiasi altra fonte luminosa, abbracciati nel silenzio e consapevoli di quanto importante fosse quella loro strana amicizia, Griša e Alex pensavano ciascuno ai suoi sentimenti. Era vero, avrebbero sempre potuto contare l’una sull’altro in qualsiasi momento; e le tenerezze che si riservavano avevano il potere di lenire il bruciore di certe ferite che si portavano dentro entrambi… ma in tutta innocenza. Si sorrisero nella notte.

Il 6 settembre Southampton era nella morsa della folla. La piazza e tutte le vie vicine erano invase dagli spettatori, alle finestre erano affacciate anche cinque o sei persone per volta, qualcuno si era arrampicato perfino sui cornicioni dei palazzi, sui lampioni e sulle fontane.
Imboscati sotto il palco, i Gabbiani si stavano dedicando ai loro complessi rituali scaramantici prima del concerto: canticchiavano goliardiche canzonette e si dedicavano alla lettura di un voluminoso pacco di quaderni che Griša aveva iniziato a scrivere dieci anni addietro: si trattava dello Stupidario, la raccolta di tutte le buffonerie, battute e scene esilaranti che avevano creato insieme, soprattutto a scuola. Come previsto, dopo qualche pagina stavano già ridendo fino alle lacrime, e la tensione cominciò ad allentarsi. Era il loro primo concerto importante, e tutti sapevano bene quanto difficile sarebbe stato giungere all’ultima nota senza fare errori imperdonabili. «Coraggio!» ripeteva Paul «Siamo i migliori! Quanti altri ragazzi della nostra età possono suonare insieme al più grande compositore d’Inghilterra?». George e Arthur, sdraiati contro uno dei pilastri portanti del palco, fumavano nervosamente una sigaretta dietro l’altra; Ritchie faceva lo stesso, seguitando a tendere la pelle di ogni singolo pezzo della sua batteria. Le tre cantanti si erano appartate con Norbert per gli ultimi consigli, mentre Dralbij sfogliava un giornale seduto su una panchina. Era mirabilmente serafico, come se fosse lo spettatore e non la voce guida, e di tanto in tanto ripeteva ai compagni: «È solo una prova generale prima dei concerti di dicembre, risparmiate la tensione per allora». Griša era corso a salutare Asso: i due, oltremodo felici di rivedersi, quasi avevano dimenticato il motivo per cui erano lì.
E, nell’ultima fila del pubblico, tre vecchie conoscenze aspettavano trepidanti che i loro amici salissero sul palco. Moonlight e Mira commentavano la descrizione del gruppo stampata sui volantini: «Possibile che si siano dedicati a un genere esclusivamente melodico?» si dicevano «Non erano praticamente in grado di leggere la musica!». Estel, invece, non aveva ancora aperto bocca. Era pallida e deperita, gli occhi affossati in due solchi scuri avevano perso la lucentezza di un tempo. E non aveva distolto un istante gli occhi da Griša. Moonlight, accortosene, cercò di distrarla: «Fa ancora caldo qui, vero? A Pietroburgo è ora di tirar fuori i giubbotti pesanti. Ehi, guarda laggiù, c’è una gelateria! Andiamo a prenderci qualcosa?». Ma lei rispondeva a monosillabi, senza mai spostare le mani dal ventre che custodiva la loro figlia. Il conto alla rovescia era iniziato: sette settimane ancora. Chissà se Griša avrebbe detto qualcosa?
«Ormai dovrebbero mancare sette settimane» stava spiegando Griša ad Asso «Non vedrò mai mia figlia, questo lo so, eppure non posso impedirmi di immaginare come sarà: mi assomiglierà? O avrà preso tutto dalla mamma? E secondo te è azzardato spedire a Pietroburgo qualche vestitino? Voglio dire, sono pur sempre suo padre, no?». Furono interrotti dall’arrivo di Cloe, la moglie di Asso, che teneva in braccio un bambino di circa un anno. Griša rimase profondamente colpito: sapeva benissimo che il suo migliore amico fosse diventato papà, quello che non aveva considerato era che, a differenza di lui, avrebbe potuto godersi il figlioletto. Cloe fu felicissima di rivedere Griša – erano stati in classe insieme, loro tre, al liceo – e volle a tutti i costi che il bambino salutasse “lo zio Grigorij”. Non ebbe bisogno di dire niente: il piccolo gli rivolse un sorriso accompagnato da un gridolino di gioia, e tese le braccia verso di lui per farsi prendere in braccio. «Lascialo stare, campione» ridacchiò Asso «Lo zio è tutto elegante per il concerto, non vorrai spiegazzargli la cravatta?» «Prestami tuo figlio, invece» ribatté Griša «Me lo posso tenere sul palco come mascotte?». C’era un’innegabile vena di amarezza nella sua voce, e non era difficile immaginare come si sentisse stringendo a sé il bambino, che osservava ridendo il suo riflesso nei Ray-Ban dello “zio”.
Quello che nessuno notò – Griša aveva ormai molta esperienza – fu la lacrima che gli rigò una guancia, scivolando sotto le lenti scure.
Quando salì sul palco era perfettamente padrone di sé, e sembrava innaturalmente più grande della sua età: erano la camicia e la cravatta o l’espressione nascosta dagli occhiali scuri? Norbert fece per dirgli di toglierseli, ma osservando il pubblico si trattenne e si rivolse a tutti i Gabbiani: «One, two, three, four» contò a bassa voce, più per sé che per loro, dato che le prime note spettavano al suo pianoforte.
Subito sotto il palco c’era Alex, intenta a lavorare sul mixer. Dralbij e Griša avevano sentito una stretta al cuore – era sempre stato il ruolo di Moonlight, quello! – ma si contennero: Alex era bravissima, se Norbert le aveva affidato quell’incarico era soltanto per merito. E il tempo degli Shining Night pietroburghesi era tramontato.
Sul pubblico euforico era calato un silenzio soprannaturale, quasi di mistica attesa; i fumogeni sapientemente nascosti sul palco davano alla band un senso di magia e di mistero: più tardi, quando sarebbe stato il momento dei Gabbiani senza Norbert, quegli effetti dovevano dare il dovuto tono gotico che loro ricercavano.
Era il momento del primo, lungo assolo di Griša, che fece qualche passo verso il centro del palco in modo da essere illuminato dal faro principale e cominciò a suonare. Le prime note alle orecchie esperte di Norbert sembrarono rigide e meccaniche, ma un istante dopo la musica si fece fluida e vibrante: soltanto nelle pause era possibile vedere il tremito che percorreva le dita di Griša, simile ad una leggera corrente elettrica, ma era un impercettibile movimento che non andava a compromettere il suo lavoro.
A lui si affiancò George, lanciandosi in un secondo assolo complementare eppure diverso dal primo; anche lui era nervoso ma abbastanza abile da dominare l’agitazione senza eccessive difficoltà. I suoi occhi verde scuro non guardavano le corde che di tanto in tanto, sempre fissi verso il cielo. Le due melodie si intrecciavano come serpenti su un tappeto musicale che sembrava essere vivo: il basso pulsante di Paul era dappertutto, le sue dita agili scorrevano sulle cinque corde traendone suoni limpidi e al contempo paludosi, morbidi eppure aspri, rapidi ma anche lenti come la risacca; Ritchie non perdeva un colpo con la batteria, e sosteneva gli altri strumenti senza coprirli, spalleggiato dal pianoforte di Arthur che per il momento si limitava all’accompagnamento… fino a quando, nell’improvviso silenzio delle due chitarre, si levò il suo personalissimo assolo, sfavillante sui tasti candidi.
E poi fu la volta di Norbert: la sua chitarra esplose schizzando verso le note più alte, provocando i brividi perfino negli stessi Gabbiani, facendo sussultare gli amplificatori, regalando emozioni indicibili. C’era gente che sventolava bandiere inglesi e, incredibilmente, anche russe.
Griša stava sorridendo in direzione di Asso dopo la sua lunghissima tirata musicale, e il suo sguardo cadde su una bandiera più piccola delle altre: era bianca, bordata di nero, con qualche macabra colatura sanguigna dipinta sulla punta. E, in mezzo, campeggiava la loro A viola e blu di Antirealisti. «Generale!» si chiamarono a vicenda lui e Dralbij, indicandosi con un cenno quell’angolo: c’era troppa gente per vedere chi stesse reggendo con tanta fierezza la bandiera Antirealista, ma non era difficile immaginarlo. Le scritte in cirillico che riuscirono a scorgere su uno striscione, poi, confermarono le loro congetture.
Anche Norbert l’aveva vista, e si voltò apprensivo verso Griša che, vinto dalla musica, stava suonando con uno strano sorriso e una destrezza mai vista prima. In quel momento avrebbero potuto davvero, lui e Dralbij, passare per figli suoi: i capelli ormai con lo stesso taglio – Dralbij naturalmente li aveva leggermente più corti –, che sotto i riflettori sembravano avere la stessa gradazione di biondo, il sorriso impenetrabile, la stessa consapevole bravura.
Quando Dralbij cominciò a cantare, unendo la sua voce a quelle del coro formato da Bettina, Morgana e Tresy, dal pubblico si levò un applauso spontaneo: era il canto del cigno di quel concerto ormai giunto al suo termine. Ma prima c’era ancora un ultimo brano, il più difficile e il più bello.
La big band si fermò qualche secondo; il tempo di consentire di cambiare gli strumenti: la chitarra per Norbert, il violino per George, il banjo per Griša e l’ocarina per Dralbij. Con quell’ultimo sforzo avrebbero coronato le ore di prove a Villa Oldfield, fondendo tutti i generi di musica che conoscevano; a turno si lanciavano nell’ultimo assolo, trionfo per ciascuno di loro, mentre gli altri ne approfittavano per scambiarsi gli strumenti tra di loro: era quanto di più laborioso avessero mai sperimentato, ma l’ebbrezza data dall’ottima riuscita del concerto li aveva resi spavaldi e infallibili. L’eventuale carenza di esperienza nella padronanza di qualche strumento era compensata dal grandioso effetto scenico dato da quei continui cambi di strumenti, dalle luci che turbinavano come impazzite, dai sorrisi felici dei musicisti e, nel finale, dall’esplosione simultanea di centoquarantasette fuochi d’artificio occultati intorno al palco.
Moonlight, Mira ed Estel si unirono alle urla di giubilo totale che facevano tremare i muri delle case circostanti la piazza. Perfino la nascitura Sissi parve voler esprimere la sua gioia muovendosi nella sua culla viva ed esultante.
Estel lanciò un grido che quasi riuscì a sovrastare la baraonda: «Bravissimo, tesoro!».

Ad un certo punto si udì il rombo assordante di un tuono, e una nuvola di fumo avvolse il palco. C’era solo una tenue luce che sfumava tra il viola e il blu, e nel silenzio greve di soggezione e ammirazione cominciarono a echeggiare i cupi rintocchi di una campana a morto.
Man mano che la nebbia artificiale si diradava, sul palco si delinearono due figure avvolte in un mantello nero, con i volti coperti l’uno da un cappuccio, l’altro da un cilindro nero; entrambi avevano lo stesso sogghigno perverso che tagliava loro il volto reso cadaverico dalla luce. Sullo sfondo il proiettore mostrava l’immagine evanescente di una nera cattedrale gotica persa in una foresta oscura. Perfino la temperatura di quel tiepido settembre sembrava essere precipitata.
Avvolta anche lei in un mantello nero, Alex manovrò le luci in modo da illuminare il fondo del palco, sul quale altre quattro figure incappucciate se ne stavano immobili tra le ombre degli strumenti. Allora Griša e Dralbij, che per tutto il tempo se ne erano rimasti statuari davanti al pubblico, dissero ad una voce: «A dark moon rise in a shining night», una luna oscura sorge in una notte splendente: era il loro motto come Shining Night, in omaggio al primissimo gruppo del quale erano stati parte – i Dark Moon, lato nascosto di quell’altro gruppo che comprendeva solo Griša, i Mad Moon – e soprattutto alla loro natura notturna.
E poi nel cielo di Southampton vennero sparati un fuoco d’artificio viola e uno blu: nel lampo di luce che illuminò a giorno gli spettatori ammutoliti, gli Shining Night lanciarono in alto i loro mantelli, svelando le uniformi dell’esercito Antirealista, mentre nello stesso istante Alex proiettava alle loro spalle il logo.
Era troppo: tutti coloro che, tra la folla, condividevano i loro ideali, cominciarono a sventolare bandiere e lenzuoli su cui era stato tracciato quello stesso logo, tra grida di esaltazione. I due generali si posizionarono, il primo con la chitarra e il secondo con l’ocarina, davanti ai rispettivi microfoni, e ruggirono la prima parte del loro motto Antirealista: «Non dire che i sogni sono inutili…». Fu unica la voce che rispose loro: «…perché inutile è la vita di chi non sa sognare!». E furono in molti a portarsi la mano sinistra sul cuore, come prevedeva il saluto.
Estel si precipitò fendendo la folla, e raggiunse la prima fila spinta da un amore che sapeva tanto di disperazione. Asso la vide e trasalì, ma si spostò verso sinistra in modo da lasciarle spazio.
Sul palco, nessuno sembrava averla notata: gli Smoky Beetles erano ormai parte degli Shining Night, come lasciava intuire la scritta in gotico dietro di loro.
Quando partì la musica, la loro musica, parecchie persona caddero in ginocchio per terra, strillando ormai rauche: «Bravi!» «Grandi!» «Fantastici!» «Bis!».
E gli Shining Night si scatenavano saltando e ballando sul palco, mentre l’eccezionale voce di Dralbij trovava il suo naturale complemento in quella di Griša, su quei testi che per loro avevano tanti significati nascosti. Alcune canzoni erano in russo, ed era su quelle che tutti i loro amici di Pietroburgo si basavano per cantare a tutta voce.
Norbert, a bordo palco, li osservava: suonando con lui avevano raggiunto certi ineguagliabili vette di bravura, e non se n’erano nemmeno resi conto. Forse, sbollita l’emozione, si sarebbero dimenticati di aver imparato tanti e tali trucchi degni dei più esperti musicisti.
Ma anche lo show degli Shining Night, allo scoccare della mezzanotte, finì con il glorioso canto dell’Inno Antirealista sia in inglese che in russo e l’ultimo spettacolo pirotecnico.
Un quarto d’ora dopo il magico momento in cui centinaia di voci si erano fuse in una sola a pronunciare le trionfanti e al contempo malinconiche parole dell’Inno, la folla ormai priva di voce cominciò a limitare le urla. Solo allora gli Shining Night scesero dal palco, lasciando solo Griša davanti al microfono con la sua chitarra acustica e un’espressione dolcissima. «Anche se la persona alla quale questa canzone è dedicata è irraggiungibile» mormorò nell’improvviso silenzio carico di aspettativa «La voglio cantare lo stesso, per ultima, con l’augurio che queste note possano accompagnare i vostri sogni stanotte. Si intitola Ninnananna Irlandese. Ed è dedicata alla mia amata e perduta… Estel».
Senza attendere oltre cominciò ad arpeggiare, e poi a cantare con voce triste e innamorata le parole della più dolce canzone che avesse mai scritto. Era impossibile trattenere le lacrime, tra i lumini che centinaia di persone tenevano tra le mani comparve anche il biancore dei fazzoletti; e Griša stesso aveva il volto rigato dalle lacrime, sebbene la voce non gli tremasse minimamente. Riconosciuto il giro di accordi, Asso saltò sul palco e con un sorriso di pura amicizia iniziò ad improvvisare sul suo inseparabile flauto.
Estel, seduta sul bordo di una fontana, singhiozzava apertamente, terribilmente sola. Quanto avrebbe voluto correre lassù, abbracciarlo, dirgli che era tutto finito, che il loro amore non sarebbe finito mai, e invece non poteva!, non poteva dopo quello che per due volte gli aveva fatto!
Griša alzò gli occhi per cantare il ritornello: «In Irlanda, amore mio, in Irlanda ti sposerò…», e in un attimo si rese conto di aver perso lo sguardo in quei noti occhi color del mare, che in quel momento riflettevano la luce glaciale della luna brillando di lacrime aspre e senza speranza. Le sorrise, e in quell’istante i loro cuori scivolarono nella stessa lacrima.
Cantò Ninnananna Irlandese fino all’ultima parola, e non appena l’estrema eco di quel re maggiore si perse nel fondo degli amplificatori e di tanti cuori, Alex tolse la corrente sul palco.
Griša, nel buio, si prese la testa tra le mani e ruppe in amari singhiozzi. «Meraviglioso» dicevano Dralbij e Asso, intenti a consolarlo «Il momento migliore del concerto. Ora andiamo!». Fin qui erano d’accordo, ma già pochi secondi dopo cominciarono a divergere: «Vai da lei, adesso» suggeriva Asso, e Dralbij lo contraddiceva: «L’Anti-Amore, fratellino, ricorda l’Anti-Amore!».
Gli Smoky Beetles si schierarono dalla parte di Asso, e Dralbij si strinse nelle spalle con un sorriso malinconico: «Non riuscirai mai a dimenticarla» mormorò «Cosa c’è nel tuo cuore che ti spinge irrimediabilmente a perdonarla? È davvero così forte quello che voi chiamate amore? Più forte della delusione e del rancore?».
Griša sembrava in trance: fissava nel vuoto come se vedesse qualcosa, tremava leggermente come durante i suoi assolo più difficili, ma si sentiva pronto ad affrontare il suo destino, qualunque fosse. Era giunto il momento di riappacificarsi per sempre con Estel? O sarebbe stata un’altra atroce sconfitta? «Non aspettatemi alzati» sospirò, scendendo dal palco. Si fermò solo un istante per voltarsi e sorridere, con una scintilla di felicità che gli illuminava gli occhi: «E complimenti a tutti voi: è stato un concerto epocale, indimenticabile, ed è grazie alla magia che abbiamo creato con la nostra musica che mi sento finalmente pronto a qualsiasi cosa. Comunque vada…».
Nessuno cercò di fermarlo; ma nei cuori di tutti vibrava lo stesso augurio.

Fu una lunga corsa nella notte. Le stelle erano scomparse dietro nuvole grigiastre che si facevano sempre più fitte mentre si alzava un vento umido proveniente dal mare. E Griša si trovò davanti a quel locale tanto simile a quello che aveva ospitato le sue prime notti pietroburghesi, e che i derelitti senza speranze che ne erano diventati gli habitué soprannominavano La Taverna dei Rimpianti. Quante notti aveva trascorso sotto il pergolato, con un bicchiere di rosso davanti e pagine di ricordi strette tra le mani!
Era nei bassifondi di Southampton: che cosa l’avesse guidato lì non lo sapeva, ma fu certo di essere sulla strada giusta quando vide Estel appoggiata alla parete scura della Taverna, che lo osservava con gli occhi pieni di lacrime.
Le si avvicinò a piccoli passi, temendo che un movimento troppo brusco potesse rovinare tutto, e si fermò a un metro di distanza, incapace di proseguire. Erano fuori dal cerchio di luce dell’unico lampione della via, ma nella penombra potevano vedere il loro reciproco sconforto: quanto erano riusciti a ferirsi? E quanto tempo sarebbe trascorso prima di ritrovare la fiducia reciproca?
La strada era quasi deserta, eccetto un paio di solitari vagabondi che si trascinavano sui marciapiedi esplorando il mondo distorto dall’alcol in cui le disgrazie che li avevano spinti a quella vita di desolazione potevano ritirarsi nelle oscure tane del ricordo. Pronte, però, a balzare fuori di nuovo al minimo accenno di lucidità, e ad affondare i loro denti instancabili in cuori già tanto straziati. Griša lo sapeva, era stato uno di loro.
Dall’altra parte della strada, davanti ad una squallida bettola laida, tre prostitute aspettavano con noia e rassegnazione il prossimo cliente: in quel mercato del sesso c’era chi pagava per ottenere favori che nessuna moneta potrà mai comprare, non c’era posto per l’amore. Venne in quella via di miseria un uomo ormai completamente distrutto che, come ogni notte, supplicava la donna che amava: «Lascia questa vita, ti prometto tutto il mio amore, così grande da poter riempire il mondo!». La cortigiana, però, ogni notte rinnovava il suo dolore rifiutandolo e salendo sdegnosamente sulle macchine che accostavano intorno a lei.
«Quello è un amore impossibile» disse Estel «Ma il nostro amore, cos’ha di impossibile? Non sono il freddo, la pioggia o la neve a fermare la marcia notturna dei soldati, come cantavi tu in quella canzone che tanto mi piaceva… Inverni lontani. Allo stesso modo, non saranno il rancore, la delusione o la sfiducia a seppellire ciò che provo e ho sempre provato per te, Grigorij. Mi vergogno di quello che ho fatto, ho capito molte cose in questi ultimi mesi, e mi dispiace solo di averlo capito così tardi. Ci saremmo risparmiati tanti inutili tormenti. Non so cos’altro ci potrà essere tra noi: il fatto che tu sia venuto qui e ti sia così avvicinato a me mi lascia sperare… ma capisco la tua decisione, se ora te ne andrai. Io non resisto più in questa situazione: se dev’essere un addio, voglio che sia tu a dirlo». Griša era perfettamente cosciente; alzando lo sguardo verso le prime gocce di pioggia che avevano iniziato a cadere, trasse un respiro profondo e disse semplicemente: «Andiamo via da questo posto di rimpianti, possiamo sederci sotto i portici della piazza vecchia».
Camminarono sotto la leggera pioggerellina di quella tarda estate ormai prossima a finire, e nessuno aprì bocca fino a quando si trovarono presso le mura esterne di Villa Oldfield. «Ti va di ascoltare la pioggia nel bosco?» chiese Griša «Conosco una piccola grotta, nella quale ho passato più di una notte tanti anni fa: è a poco più di un quarto d’ora da qui, se vuoi seguirmi». Estel annuì e si mise sui suoi passi. In alcuni tratti il terreno era accidentato, ma riuscirono a raggiungere la grotta senza difficoltà, e si sedettero su un caldo mucchio di paglia che vi era all’interno. La roccia che li avvolgeva era stata scavata in più punti, in modo da creare tante utili nicchie, che nel buio apparivano piene di oggetti di cucina. «È il rifugio che ho scoperto quando, ormai dieci anni fa, sono arrivato a Southampton» spiegò lui, accomodandosi sulla paglia che aveva premurosamente trasformato in un giaciglio appoggiandovi lenzuola e coperte.
Estel si sedette al suo fianco, sorpresa di trovare quel rustico pagliericcio tanto comodo: forse erano la stanchezza e la tensione?
Alzò gli occhi chiari verso Griša e gli sfiorò le guance umide con la punta delle dita, esitante, scivolando poi ad accarezzargli i capelli. Lo tirò a sé, e solo nel suo abbraccio si sentì finalmente protetta e difesa dalle minacce dei cupi pensieri che l’avevano angosciata per tanto tempo.
Griša era scettico: non credeva di averla di nuovo lì, tra le braccia, e soprattutto non credeva che lei fosse sincera mentre prometteva: «Sono tornata, amore mio». Era abbastanza cinico da poterle rispondere male: «Certo» avrebbe voluto ringhiare, sarcastico «È Lestadt che non tornerà più. E tu nemmeno». Stava per pronunciare qualche aspra parola, quando si rese conto di non esserne in grado: aveva sentito sua figlia muoversi in quel loro abbraccio così intenso, e fu lei con quel calcio velato a spazzare via tutte le nuvole che gli appesantivano il cuore. Denudati i suoi sentimenti privi di qualsiasi barriera, Griša si arrese a quell’amore senza confini e chiamò, rauco: «Estel!». Lei gli baciò la fronte come ad un bambino malato, e sussurrò in un tono che non avrebbero mai più saputo dimenticare: «Sì… tesoro… sono qui».
Mentre fuori scrosciava la pioggia, tutti i malvagi sentimenti che avevano offuscato quell’amore smisurato vennero lavati via da lacrime finalmente di gioia, e segregati per sempre oltre il tempo dalla forza del loro abbraccio. Fu un donarsi reciprocamente, un perdersi e ritrovarsi nel canto della pioggia in quella notte di sogno.
Griša non si sarebbe sottratto a quel momento nemmeno a costo della sua stessa vita: avrebbe potuto morire così, e sarebbe morto completamente felice. Nell’oscurità quasi totale della grotta – aveva anche spento il mozzicone di candela fissato sulla roccia – i suoi sensi si erano straordinariamente acuiti, e quell’agognato contatto stava compromettendo seriamente la sua lucidità mentale. Le baciò il collo pulsante di emozione, ma esitò nel ritrovare quelle labbra perdute: com’è difficile afferrare i sogni quando sono finalmente a portata di mano! Consapevole dei suoi brucianti timori, Estel gli affondò le dita tra i capelli e con un bacio gli impedì ogni possibile protesta. Sentiva le mani di lui sempre meno incerte sfiorarle i fianchi e indugiare là dove la loro Sissi aspettava i giorni che mancavano alla sua venuta al mondo, e incoraggiò le sue carezze: anche per lei, quelle erano sensazioni delle quali aveva già celebrato il funerale.
Per quanto dolce fosse stato quel bacio, li lasciò entrambi esausti e stroncati dall’allentarsi della tensione: senza rinunciare al loro abbraccio, si addormentarono sul giaciglio.
Fu la luce pallida dell’alba ancora odorosa di pioggia a destarli: Griša era disteso supino, e le teneva un braccio intorno alle spalle, stringendola a sé. Estel, rannicchiata contro di lui, incrociò i suoi occhi profondi e colmi di sentimento. «Ti amo» mormorò, scostandogli un ricciolo ancora delineato dalla lacca usata per il concerto della sera prima. Lui socchiuse gli occhi, beato, e senza essersi ancora capacitato di quella situazione troppo bella per essere vera le baciò i capelli lunghissimi: «Ti amo, mia dea» sussurrò.

La vita a Villa Oldfield riprese normalmente, come prima che Lestadt ritornasse; ora che quel pericolo era solo un brutto ricordo, l’unico ostacolo alle porte del paradiso perduto era la diffidenza: sebbene innamorato all’inverosimile, Griša faceva ancora molta fatica ad ignorare la voce che lo ossessionava ogni volta che Estel gli regalava un gesto affettuoso: «Lestadt ha avuto lo stesso… e tu non potevi impedirlo». Anche Estel, dal canto suo, si sentiva ancora molto legata dai rimorsi: quando Griša si abbandonava alle sue tenerezze, provava immancabilmente una stretta al cuore. Era in quei momenti che entrambi cercavano il calore di un abbraccio che sembrava dissipare tutti quei tristi pensieri.
A tenere alto il morale della compagnia, comunque, contribuiva moltissimo la solida amicizia che si stava instaurando tra tutti loro. Ormai anche gli Smoky Beetles invitavano ogni giorno le rispettive fidanzate, o i compagni di scuola, o semplicemente i vicini di casa, ed era pressoché impossibile trovare qualcuno da solo. Perfino Dralbij, che si ritirava nauseato ogni volta che vedeva una coppia di innamorati, trovava sempre compagnia in mezzo a loro.
E poi, naturalmente, c’era la musica: quando i sei suonatori scomparivano in sala d’incisione, chiunque avesse osato disturbarli rischiava di prendersi una solenne sgridata. Era allora che Estel e Moonlight si ritiravano in qualche posto tranquillo a chiacchierare. Parlavano di ciò che avevano lasciato a Pietroburgo, soprattutto, e cercavano di evitare l’argomento “Lestadt”: erano rimasti tutti profondamente scossi dalla sua morte, e faticavano a riprendersi. Estel, pur affermando di non provare più assolutamente niente per lui, talvolta si sorprendeva ancora a pensare a quello che aveva vissuto con lui. Senza rimpianto, però: le bastava incrociare lo sguardo adorante di Griša per dimenticare tutte le sue meditazioni.
Anche settembre, ormai, stava scivolando inesorabilmente verso la fine: la lunga festa estiva stava volgendo al termine, era ora di ricominciare gli studi. Qualcuno, a Villa Oldfield, già aveva iniziato a sfogliare i libri di testo appena comperati: Dralbij, addirittura, si era iscritto ai corsi propedeutici, e trascorreva buona parte del pomeriggio immerso nei libri. Anche Paul, l’altro grande studioso della compagnia, girava per casa con i fascicoli dell’università sottobraccio.
«È incredibile» commentava Norbert «Studiano tutta la mattina e metà pomeriggio, dove la trovano l’energia per provare, alla sera?».
Le prove per i concerti di dicembre fervevano, giorno dopo giorno. I coristi provavano in altri momenti, ma Dralbij non mancava mai alle prove dei musicisti: non era raro che prendesse una chitarra e si accomodasse un po’ in disparte, cercando di seguire i compagni senza farsi notare, e stava diventando sempre più bravo. Nessuno gli disse niente: sapevano quanto preferisse cantare, piuttosto di dover suonare.
Le prove con Norbert sfociavano sempre nelle prove degli Shining Night, durante le quali non era raro assistere alla nascita di una canzone: Griša, soprattutto, poteva in qualsiasi momento lasciare la chitarra a Dralbij e sedersi al grande tavolo dei mixer con un foglietto e una penna, annotando rapidamente tutto ciò che gli passava per la mente. Dopo una rapida rilettura del testo prendeva un microfono e domandava: «Potete smettere cinque minuti di suonare? Devo farvi sentire qualcosa!». Prima, però, andava sempre a chiamare chiunque altro ci fosse in giro per Villa Oldfield; e, dato che un’alta percentuale delle sue canzoni era dedicata a Estel, voleva sempre che lei sentisse quelle composizioni dalla prima fila. Soprattutto, moriva dalla curiosità di conoscere le reazioni di Sissi: avevano notato che, nel corso di un brano particolarmente bello, sembrava lei stessa esultare. «Vostra figlia sarà una grande musicista» commentavano tutti «Ha già i suoi gusti!».
Il momento più bello della giornata era la sera: quando tutti si sedevano in giardino, tra le fiaccole alla citronella che allontanavano le ultime zanzare dell’estate. C’era sempre chi portava una chitarra o un mazzo di carte, e non era raro che decidessero di rimanere fuori fino alle ore piccole, respirando il fresco prima che il sole portasse lo strascico del caldo.
A Villa Oldfield si tenne, l’ultimo giorno di settembre, la festa di fine estate: era un rituale che tutti loro ricordavano bene dagli anni passati, e che riusciva meglio anno dopo anno.
C’erano tavoli imbanditi di leccornie, un palco stracarico di strumenti e amplificatori, l’aria fresca della notte, la spiaggia baciata dalla luna, un falò intorno al quale riunirsi e cucinare qualcosa; gli invitati continuavano ad arrivare numerosi, e presto il prato più grande che circondava Villa Oldfield fu pieno di ragazzi e amici di Norbert che, sdraiati su coperte e stuoie, guardavano le stelle e chiacchieravano.
Un po’ discosti dal gruppo, Estel e Griša avevano steso un’ampia stuoia in una radura tra gli alberi le cui foglie cominciavano già ad ingiallire; sopra di loro la luna creava i suoi intrecci argentati con i rami degli alberi, e poco lontano sentivano mormorare il mare che forse stava raccontando una storia alle sirene. Intorno a loro occhieggiavano a tratti i verdi puntini fosforescenti delle lucciole, che passavano così vicine da poter essere sfiorate. Ad un certo punto, una lucciola si posò tra i capelli di Estel, dove si soffermò qualche secondo prima di scintillare via, ma quell’istante fu sufficiente per far risplendere in lei un’aura magica e indimenticabile. Griša si incantò a guardarla, in quella tenue luce verde-argentea, i suoi dolci occhi color mare rivolti verso di lui, le labbra morbide dischiuse in un sorriso che, misterioso e fatato, sembrava incoronarla come regina degli elfi del bosco. Timidamente, come temendo di dissolvere quell’incantesimo, le sfiorò i capelli d’oro e si avvicinò a lei, sussurrando: «Amore mio…» «Sono qui» rispose Estel, tirandolo a sé «E non ti lascerò mai più». Gli affondò le dita tra i capelli folti e scompigliati dal vento e lo baciò, cogliendolo del tutto impreparato e sorridendo della sua sorpresa. Per un attimo, solo per un attimo risentì quel dolore dentro, forse parte dello stesso dolore che lui doveva aver provato quando lei e Lestadt… no, non poteva pensarci.
Griša si sdraiò al suo fianco, appoggiandole delicatamente la testa in grembo per sentire sua figlia, e lei non smise un istante di accarezzargli i capelli, mormorando: «Tesoro… vorrei che certe cose non fossero mai successe. Ma questi momenti sono la prova lampante che il nostro amore sa andare oltre ogni sofferenza! Pensa quando nascerà Elisabeth: tra due mesi saremo una vera famiglia…» «Anche ora lo siamo» ribatté lui con un filo di voce: tanta tenerezza lo stava intontendo, e la dolcezza di sentire i movimenti di Sissi faceva di lui un padre felice e dimentico di qualsiasi problema.
D’un tratto alzò gli occhi scuri verso di lei, con un’espressione ansiosa: nel suo galleggiare al di sopra della realtà aveva forse visto qualcosa che l’aveva turbato, ma non lo ricordava. Un cattivo pensiero, un ricordo dimenticato? Estel gli sfiorò le labbra con un bacio e lo rassicurò: «Fidati».

Settembre, ottobre, novembre: l’autunno aveva tinto d’oro e di rosso i boschi di Villa Oldfield, in un tripudio di gradazioni uniche e irripetibili. I lunghi viali alberati, simili a strade di rame, sembravano avvolti da una nevicata di foglie multicolori, ed era un piacere attraversarli senza giubbotti nelle ore tiepide del pomeriggio.
Griša stava appunto correndo lungo il viale principale, facendo il buffone per divertire Estel che, qualche passo indietro, cercava invano di stare seria: «Stando ai nostri calcoli dovrebbero mancare pochi giorni alla nascita di tua figlia!» lo rimproverava affettuosamente «Possibile che tu non voglia preoccupartene?». Griša si girò con un sorriso e gli occhi scuri che sembravano intonarsi ai colori dell’autunno intorno a loro. Anche attraverso i ciuffi disordinati che gli sfioravano il naso era impossibile ignorare quello sguardo così perdutamente innamorato eppure ancora velato di una certa malinconia, e lei non resistette oltre: lo abbracciò, abbandonando il viso sul suo soffice maglione di lana, e si sentì in quel momento perfettamente a suo agio, protetta, serena.
Andarono avanti a piccoli passi, tenendosi abbracciati, e si sedettero su un tappeto di foglie ai piedi di un salice secolare. Per qualche minuto rimasero in silenzio, ascoltando il fruscio del vento tra i rami: era tutto così tranquillo, rilassante, perfetto, che sembrava non dovesse finire mai.
Griša aveva dormito poco quella notte: dovendo affrontare un esame di latino proprio quella mattina, era rimasto sveglio fino alle ore piccole a ripassare, e una volta dissipata l’agitazione nell’euforia di aver preso uno dei suoi voti più alti sentiva distintamente la stanchezza appesantirlo dalla testa ai piedi. Si accovacciò tra le foglie, chiudendo gli occhi nel sole di novembre, mentre Estel gli lisciava i capelli resi quasi biondi da quella luce. «È tutto pronto in casa?» la udì mormorare, e rispose ormai addormentato: «Lettino con le sponde alte vicino al nostro letto, fasciatoio e pannolini, carrozzina, biberon e vestitini…».
Dormiva così profondamente che Estel dovette chiamarlo più volte, e fu l’angoscia nella voce amata a svegliarlo istantaneamente: «Cosa…?» balbettò, anche se già sapeva cosa stava succedendo. La vedeva sull’orlo del panico, accasciata tra le foglie con una mano stretta convulsamente intorno a un ramo, la fronte lucida e gli occhi dilatati. Perse la testa, in preda all’angoscia, e cominciò a farfugliare: «Oh Dio, ti porto a casa, tranquilla, dovessi portarti in braccio… maledizione sta nascendo mia figlia e io non so che diamine fare Signore aiutami!».
Estel gli strinse una mano così forte da conficcargli involontariamente le unghie nella carne: «Corri a casa e chiama un’ambulanza!» disse «E stai calmo, non sei tu che stai per partorire! Ormai non ce la faccio ad arrivare fino alla villa. Fai presto!».
Griša cominciò a correre disperatamente, maledicendo quei viali tanto lunghi e l’immediatezza di quanto stava accadendo. Vide da lontano Dralbij seduto sotto un albero a leggere un libro e gli piombò addosso facendolo cadere dalla sedia. «Nasce!» ansimò in un rantolo incomprensibile «Ambulanza! Ambulanza!».
Dralbij capì al volo e si precipitò in casa, senza riuscire a togliersi un sorriso abbagliante dalla faccia: «Sto per diventare zio!» ripeteva a tutti, aumentando a dismisura l’agitazione di tutti i presenti. C’erano gli amici di Norbert, nel salone, che cominciarono subito a cianciare peggio delle comari del paese alle quali avrebbero presto riferito l’accaduto.
L’ambulanza arrivò quasi subito, sfrecciando lungo il viale in un turbine di foglie d’oro. Estel era calma, sebbene il dolore si facesse sempre più intenso e frequente, e salì sul mezzo senza alcun bisogno di aiuto.
Ancora accasciato sotto l’albero, madido di sudore, Griša vide partire l’ambulanza e si rese conto in un istante di aver perso la possibilità di arrivare in tempo in ospedale. Tuttavia, poco prima che il suo cervello registrasse l’informazione, si udì sbraitare un rauco ma potente: «Fermi!», e cominciò a correre come mai aveva fatto prima in vita sua. Tagliando per i campi raggiunse un promontorio che sovrastava la strada, scivolò fino al bordo e, ben consapevole di essere in quel momento completamente impazzito, si lasciò cadere sul tetto dell’ambulanza come faceva da bambino, a Liverpool, sui tetti degli autobus. Aggrappato ai lampeggianti e incurante delle automobile che inchiodavano in mezzo alla strada tra gli sguardi sconvolti dei passanti, rimase saldo senza alcuna difficoltà, e strinse il suo appiglio talmente forte da riempirsi le mani di vesciche. Notò i segni rossi che le unghie di Estel gli avevano lasciato su una mano. «Ci siamo» boccheggiò «È così terribilmente bello!».
Accostando l’orecchio al tetto e tappandosi l’altro per non essere disturbato dal vento scoprì di poter addirittura sentire le voci all’interno, e si sentì sollevato appurando che Estel non era sola. «Tutto bene?» aveva appena chiesto la voce familiare di Dralbij, e lei aveva risposto: «Potrebbe andare meglio! Mia figlia fa già penare prima ancora di venire al mondo!». Nonostante il dolore, ancora scherzava! Sul tetto, Griša sorrise.
Fermarono con uno stridio nel parcheggio dell’ospedale, e lui scivolò giù dal suo mezzo di trasporto con il fiato corto e il volto arrossato. Un infermiere lo apostrofò duramente, ma lui gli si rivoltò contro con un ringhio feroce: «Sono il padre della bambina che sta per nascere, ed esigo che in una circostanza del genere non mi vengano rotti i…» «Fratellino!» esclamò Dralbij, salvando involontariamente la situazione «E tu da dove salti fuori?».
Estel rimase in sala parto due interminabili ore, che i due fratelli trascorsero nella sala d’attesa mangiandosi le unghie e chiedendo informazioni a chiunque passasse. Dralbij di tanto in tanto esclamava, nel silenzio: «Che dolce! Sto diventando zio!», ma Griša era fuori di sé e rispondeva male a tutti coloro che osavano rivolgergli la parola, tanto che le infermiere decisero di evitare ogni argomento di conversazione per ritirarsi sorridendo: «È giovane, ma dev’essere oltremodo felice di essere papà se è così in tensione…».
In quel momento uscì un medico di mezza età, togliendosi la mascherina, e annunciò trionfante: «Mezzanotte! Ed è appena nata una bambina bellissima, sana e ben messa!».
Lo udì solo Dralbij: Griša, alla vista di alcune macchie di sangue sul camice del dottore, era precipitato a terra svenuto!

La stanza era avvolta nel buio, sebbene una luce da notte diffondesse un chiarore azzurro sui poster di bambini sorridenti appesi alle pareti ugualmente azzurrine. Griša richiuse gli occhi e cercò a tentoni di capire dove fosse finito. Gli faceva male l’incavo del gomito destro, le vesciche sulle mani bruciavano, e aveva la schiena completamente intorpidita. Toccò uno strano bracciolo di plastica, e le sue dita incontrarono un freddo tubicino che – scoprì con la mano meno dolorante – finiva in un grosso cerotto attaccato al suo braccio: aveva una flebo, lui che era sempre stato terrorizzato da tutto ciò che riguardava medici e ospedali! Si riempì i polmoni d’aria, pronto a cacciare un urlo senza precedenti, quando vide i capelli di Dralbij spuntare da una sedia a sdraio accanto alla sua, e si trattenne appena in tempo. «Sono svenuto?» bisbigliò, fissando il fratello «Dove sono? Come sta Estel?».
Dralbij dovette coprirsi la bocca con una mano per non scoppiare a ridere mentre raccontava: «Sei caduto a terra come un sacco di patate, dopo aver imprecato e inveito contro tutte le povere infermiere che cercavano di parlarti! Il dottore ti ha diagnosticato un collasso nervoso, ma lui stesso stava ridendo per la tua reazione esagerata: capisco il primo figlio, diceva, ma questo giovanotto è un po’ troppo nervoso! E poi pensa: diceva che Estel era più tranquilla di te! A proposito: cerca di parlare piano e non fare movimenti bruschi… non vorrai svegliarla! E lì, su quel letto, vedi? Non ti dico quanto abbiamo litigato con i dottori per poter stare qui, dicevano che al massimo si poteva concedere il permesso al padre… ma siccome tu stesso avevi bisogno di assistenza per quando ti fossi svegliato, eccomi qui!».
Griša si alzò pian piano, cercando di frenare i giramenti di testa, e aguzzando la vista nel buio vide Estel, beatamente addormentata con un’espressione fiera e soddisfatta. I capelli biondi, lunghissimi, erano raccolti a coda sul cuscino, ma qualche ciuffo ribelle le ombreggiava il viso: era bellissima così, e lui sorrise innamorato. «Domani mattina vedrò Sissi» sussurrò, felice, dopodiché tornò a dormire.
«Buongiorno, buongiorno!» gracchiò una voce qualche ora più tardi «Cos’abbiamo qui, al letto numero otto? La mamma di Elisabeth Delacroix? Venga, è ora di dar da mangiare a sua figlia!».
Griša fu più rapido di Estel a rispondere, e si intromise: «Eh, no! Stavolta la voglio vedere!». Dopo un rapido ma acceso battibecco con l’infermiera, che non era certo una campionessa di simpatia, Griša si alzò vittorioso dalla brandina e si lasciò docilmente togliere l’ago della flebo dal braccio, anche se impallidì paurosamente. Uscì a testa alta, ma non rinunciò a fermarsi da Estel per baciarle la fronte e dire, con gli occhi che sprizzavano gioia: «Sono orgoglioso di te, amore!».
Rientrò poco dopo, avvolto in un camice verde e con il volto coperto da una mascherina, completamente disinfettato e impressionato da quella situazione. Gli tremavano le mani mentre entrava in un’altra stanza e si avvicinava a piccoli passi ad una culla, senza distogliere lo sguardo da Estel che gli faceva cenno di raggiungerla.
Sissi dormiva succhiandosi un dito, tenendo le manine chiuse a pugno e muovendo di tanto in tanto i piedi avvolti in calzetti di lana rosa. Con l’abitino che le avevano messo, i capelli biondo scuro e quell’espressione seria sembrava già una piccola principessa: Griša era sul punto di inchinarsi, e lo fece non appena vide i medici allontanarsi di qualche passo. La bimba scelse proprio quel momento per sollevare le palpebre, rivelando due occhi scuri e profondi ereditati indubbiamente dal padre. Anche così, a poche ore di vita, si vedeva già l’espressione seria con un fondo ironico.
Estel la prese in braccio, sistemandole il vestitino, e si avvicinò a Griša raggiante: «Su, papà» lo esortò «Prendila tu!». Lui esitava: la vedeva così piccola e fragile che aveva paura di farle del male, ma si convinse e tese le braccia per ricevere quel fagottino rosa che lo osservava con curiosità. «Ciao, Lizzie!» rantolò, commosso, e puntualmente Estel sbottò: «Quante volte ti devo dire di non usare con lei il tuo assurdo dialetto di Liverpool?».
Griša era troppo assorto per ribattere: seguiva delicatamente con la punta di un dito il profilo della bambina, così conosciuto, e sembrava infinitamente lontano dal mondo reale. Solo quando Sissi cominciò a piagnucolare sembrò riaversi e la cedette a malincuore a Estel, borbottando un apprensivo: «Fa’ attenzione!» che li fece sorridere.
Si accoccolò ai piedi del letto, ancora titubante, osservando completamente conquistato quella scena tanto dolce. Da fuori, affacciati a un vetro, gli Smoky Beetles aspettavano impazienti di poter vedere da vicino la “nipotina”: Estel infatti volgeva loro le spalle, e dovevano accontentarsi di vedere la piccolissima testa bionda appoggiata sul braccio della mamma. Griša si voltò verso di loro e sorrise: mai in vita loro gli avevano visto in viso una così genuina e spontanea felicità.
Dopo il latte riprese in braccio Sissi, stavolta con meno soggezione, e la tenne fino a quando vide quegli occhi scuri tanto simili ai suoi riempirsi di sonno fino a chiudersi. «Non piange quasi mai» commentò «Ed è la più bella bambina di tutto l’ospedale!».
Rimasto finalmente solo con Estel, che ancora stanca era tornata a sdraiarsi, Griša si sedette al suo capezzale e la prese per mano, sospirando: «Credevo di amarti. Ora so che quello che provo per te va ben oltre». Le accarezzò dolcemente i capelli, poi d’impulso la baciò… finalmente senza più remore.
Dietro le palpebre chiuse non vedeva più le atroci scene che gli erano state raccontate o che aveva immaginato: Estel insieme a Lestadt… lei da sola a piangere la sua fuga… le settimane lontani e disperati. Era passato tutto, cosa che nessuno avrebbe potuto immaginare.
Certo, a volte la notte gli capitava ancora di svegliarsi con un sussulto in preda all’angoscia, gli occhi dilatati dall’orrore, il fiato corto e le dita che stringevano le coperte, ma ormai per quegli incubi bastava un cenno di Estel a dissiparli.

Sissi era una bambina molto vivace, e fortunatamente per i suoi genitori tutti quanti, a Villa Oldfield, erano sempre pronti ad accudirla a qualsiasi ora.
Di giorno, avvolta in sontuosi abitini di lana, stava la maggior parte del tempo in giardino con Estel, mentre Griša studiava per l’università o lavorava in sala d’incisione. Le piaceva moltissimo, dalla sua carrozzina, osservare le ultime foglie che volteggiavano lungo i viali, e sembrava con la sua sola esistenza rallegrare la grigia tetraggine di quei giorni invernali: tanto che un po’ tutti presero l’abitudine di soprannominarla “raggio di sole”. Passava ore ed ore a studiare con i grandi occhi colmi di meraviglia i passeri che becchettavano intorno alla veranda, i rami mossi dal vento e i giochi del pallido sole di novembre: spesso, vedendola così assorta, Estel aveva commentato: «Non sembra un piccolo elfo?». E come darle torto?
Quando alla sera si trovavano tutti nel grande salone, il più delle volte Griša e Dralbij si accovacciavano vicino al camino con un blocco e una matita, e si dilettavano a ritrarre la bimba in qualunque posa, gareggiando a chi faceva il disegno migliore. Dralbij era molto bravo a regolare i chiaroscuri e le prospettive, mentre Griša inseriva in ogni bozzetto miriadi di dettagli che molto spesso potevano raccontare un’intera storia: così i due fratelli si scambiavano a vicenda gli schizzi eseguiti per completarli reciprocamente.
Ben presto, con dicembre, il freddo si fece troppo pungente per poter trascorrere troppe ore all’aperto: Villa Oldfield divenne quindi il ritrovo di tutta la compagnia, con le sue grandi stanze calde. Vincendo la riluttanza, a poco a poco anche tutti gli ex-nemici di Griša, i temuti Realisti, cominciarono a frequentare il grande salone: i più arrivavano con la scusa di voler portare qualche piccolo regalo per Sissi, ma non mancavano i compagni di corso dei due fratelli che entravano nel salone con i libri di testo sotto braccio, sui quali non avrebbero mai ripassato a Villa Oldfield.
Pochi giorni prima di Natale arrivò anche la lettera del Reader's & Writer's: i racconti di Griša, c’era scritto, potevano essere pubblicati con regolarità ogni due settimane per i successivi quattro anni; e nelle ultime righe qualcuno aveva aggiunto a mano la proposta di spedire a qualche casa editrice anche i quaderni dello stesso autore. «Pubblicare i miei libri?» aveva chiesto Griša, incredulo, appena l’aveva saputo «Sono scritti a mano, ci vorranno secoli prima di riuscire a dattilografarli tutti, il più breve è di più di cento pagine!». Qui però era intervenuta Estel, notoriamente velocissima in quei lavori. «Procuratemi una macchina da scrivere» aveva ordinato, e da quel momento i libri di Griša procedevano ad una rapidità impressionante: uno ogni due settimane.
E intanto i mesi scorrevano: passarono l’inverno e la primavera, fu di nuovo estate e di nuovo le foglie caddero sul viale per poi essere coperte dalla neve silenziosa: preoccuparsi del futuro era inutile, da quando erano diventati tutti così uniti tra di loro, e tutta l’inquietudine passata era solo un brutto sogno.
Griša scrisse la parola “Fine” sull’ultima pagina del libro che aveva appena concluso, ripose la penna e lasciò che il suo sguardo si perdesse tra le fiamme del caminetto. A volte, nelle sue reminiscenze, gli capitava ancora di incappare in qualche triste pensiero… come quella sera.
Scuotendo la testa come per liberarsi del velo malinconico che lo stava imprigionando salì le scale fino in camera da letto, dove Estel stava leggendo un libro, e si sdraiò al suo fianco: Sissi dormiva ancora nella sua culla che lui stesso aveva intagliato, e quel raro momento di tranquillità e di solitudine non poteva essere sprecato.
«Stai bene, tesoro?» domandò Estel, abbracciandolo stretto «Sembri triste». Griša chiuse gli occhi, pensando a quanto aveva sofferto nel perdere quelle tenerezze, ma stavolta anche così non riuscì a rasserenarsi e rabbrividì impercettibilmente. «Non mi lasciare mai più» sussurrò tremante, ma troppo piano per essere udito. Lei gli lisciò i capelli delicatamente, fino a quando lo sentì rilassarsi appoggiato a lei, e mormorò in risposta: «Mai e poi mai».
«Artigli di realtà» sospirò Griša quando si fu ripreso «Ogni tanto mi torna ancora in mente quel… brutto periodo. Mi dispiace tuttora per la tragica fine che ha fatto Lestadt: era troppo giovane per morire, e forse adesso avrei potuto davvero non pensare a quello che è successo nell’estate del 1976. La realtà ha sempre la meglio sui sogni… ma finalmente la realtà non è nostra nemica…».
Estel lo baciò: non avrebbe sopportato oltre quel tono che si sforzava di essere sicuro, ma tremava ancora dell’eco dolori lontani, lugubre come l’ululato di un lupo in una notte eterna nel Nord. «Adesso non dire più niente» bisbigliò spegnendo la luce.
Un attimo prima dell’oblio, Griša intravide nella penombra la culla di Sissi e sorrise.

«Ho finito» sospirò Griša, aggiungendo l’ultimo punto sullo schermo luminoso del computer «Mio Dio, che tirata: quarantacinque pagine corrette e pronte per essere stampate». Dralbij si informò, stiracchiandosi sul letto: «Hai messo il lieto fine, vero?», e dal divanetto sistemato a lato della stanza, Lestadt commentò: «Per forza… un sognatore come lui!».
C’era un velo molto triste nelle loro parole, ma niente a paragone con quello che oscurava la voce di Griša: «Certo, che domande: questi sono gli ultimi brandelli di illusione che mi restano».
Era il 1985: finalmente, dopo nove anni, aveva ripreso in mano Artigli di realtà – brandelli di illusione. Non ne avrebbe mai avuto il coraggio, prima: gli ci erano voluti nove anni per riprendersi sufficientemente dall’aver perso Estel. Nove anni di silenzio, entrambi nella stessa città eppure così lontani da non essersi mai più rivisti: lei dispersa tra locali notturni, discoteche e la solitudine di una casa troppo grande per abitarvi da sola, lui sempre più schivo e disperatamente innamorato. Lestadt invece era tornato: anche lui aveva avuto la sua amara dose di sofferenza – in fondo anche lui aveva amato Estel, anche se per così poco tempo –, ma non avrebbe resistito da solo con i suoi rimorsi. Un pomeriggio d’autunno aveva suonato all’appartamento in Via dei Fiori Bianchi, e da quelle sue pesanti confessioni Griša aveva capito molte cose. Sì, forse Lestadt gli aveva involontariamente fatto ancora del male, ma non aveva fatto che confermare ciò che lui aveva già sospettato per anni. «Posso tornare con voi?» aveva domandato umilmente «Se mi volete ancora».
Dralbij lesse le ultime pagine del lungo racconto, e non poté impedire che gli occhi gli si riempissero di lacrime. «Gesù santo» sospirò «Dovevi essere innamorato perso di lei, per essere arrivato a sognare scene così belle» «Sognare» ripeté Griša, con una voce che arrivava da molto lontano «Non le ho soltanto sognate. C’è un mondo dove i nostri sogni sono così vivi da essere perfettamente credibili: la fantasia. Basta sapersi distaccare dalla realtà, trovare un posto tranquillo e chiudere gli occhi… le immagini vengono da sé, e sono incredibilmente rasserenanti nella sua utopia. Io immagino ancora che un giorno Estel possa tornare qui: anche se ci ritroveremo quando entrambi saremo vecchi, anche se entrambi avremo lasciato Pietroburgo, anche se lei si sarà creata una discendenza, io non dimenticherò mai quegli occhi che ho visto tante volte brillare d’amore per me, e costi quel che costi riuscirò a parlarle ancora almeno un’ultima volta! Forse mi riconoscerà anche lei, e…».
Fu interrotto dal ringhio metallico del campanello, e aprì la porta.
Sulla soglia c’era una signora sulla trentina, con i capelli lunghissimi che brillavano d’oro nella debole luce del condominio. Indossava una giacca di pelle nera che le sfiorava le caviglie, e teneva per mano una bambina suppergiù di una decina d’anni, dai grandi occhi castani incorniciati dai capelli identici a quelli della madre.
Gli occhi della donna, anche in quella scarsa luce, mostravano il colore del mare invernale, illuminati da un sorriso timido e dolce.
Lestadt balzò in piedi, incredulo. Dralbij si alzò a sedere sul letto.
Ma Griša, incurante del resto del mondo, prese tra le braccia Estel e Sissi e lasciò che la realtà svanisse intorno a loro.

Fine.

12 giugno – 6 settembre 1976

* Erica Apolloni nasce a Zevio (VR) il 17 luglio del 1987, e attualmente risiede a Terranegra di Legnago (VR)

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