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mercoledì 18 novembre 2009

Bicchieri di nostalgia (di Erica APOLLONI *)

Bere per dimenticare, per non essere costretto a risentire il peso della sua solitudine, per potersi isolare più facilmente da una realtà troppo dura per essere sopportata ancora.
A questo pensava Grigorij, percorrendo alla cieca le vie deserte di San Pietroburgo alla ricerca di un bar dove poter annegare il ricordo di un triste giorno d’inverno. Quel lontano pomeriggio di dicembre era ancora vivo nel suo cuore sconvolto da un amore troppo intenso, troppo sbagliato per poter durare: una breve estate di sogni che si era consumata nel suo stesso ardore, sparendo nel vapore di un treno che fischiava un addio; e lui, solo sulla banchina della stazione, che ancora stringeva tra le mani un mazzo di fiori appassiti raccolti in giorni che avevano sempre un domani.
Lei era solo un altro dei suoi ricordi, adesso. Il più dolce nei sogni, il più amaro nella memoria.
Si svegliava nel cuore della notte, mentre quel nome gli echeggiava nelle orecchie, coperto dal martellante rimbombo delle rotaie. E allora, con in cuore il dolore sordo di quel saluto, si alzava e usciva nel buio, diretto verso un bar.
Anche adesso, nella sua ennesima notte solitaria, vagava come un fantasma per le strade, avvolto in una lunga giacca nera, tenendo il bavero rialzato per coprirsi dalla pioggia che aveva iniziato a cadere quel mattino. Sceglieva i vicoli più nascosti, rasentando i muri come un ladro, apparendo e scomparendo nelle pozzanghere di luce lasciate dai lampioni sull’asfalto bagnato. Se solo avesse potuto intingere un pennino nel calamaio di quella luce! Ma era uno scrittore finito: la sua musa, la sua arte, era fuggita sullo stesso treno che aveva portato via il suo amore. Quando finalmente giunse al bar che cercava, sul suo volto non si distinguevano più le lacrime dalle gocce di pioggia.
Entrò senza far rumore, spingendo la massiccia porta di legno, e si ritrovò nell’umida penombra di quel locale che, a ragione, veniva soprannominato “La Taverna dei Rimpianti”.
Era quasi confortante: l’ambiente piccolo, conosciuto, ombroso, che nascondeva il suo dolore. Le pareti di legno, il basso soffitto a cassettoni, il pavimento di pesanti assi solide, tutto contribuiva a chiudere fuori la notte, la pioggia, la solitudine.
Avventori solitari sedevano ai tavolini, con una mano chiusa intorno al vetro smerigliato di una bottiglia e foto sciupate nell’altra. Qualcuno teneva davanti a sé qualche vecchia lettera i cui angoli erano stati ingialliti dal tempo. Volti stanchi si intravedevano tra le dense volute di fumo esalate dalle sigarette abbandonate sui bordi dei tavoli: erano persone disilluse e rassegnate, consapevoli di non avere più nulla da perdere, che trascorrevano lì le loro notti di nostalgia, cercando gli angoli più nascosti del locale. Una sola certezza nei loro cuori frantumati: lì dentro, nessuno sarebbe inciampato nei loro pensieri.
Grigorij attraversò la sala a passi strascicati, diretto verso un tavolino libero nell’angolo più buio, e si sedette silenziosamente. Nessuno alzò lo sguardo verso di lui.
Una candela infilata nel collo di una bottiglia non fugava la notte incombente, ma la teneva lontana. Era nel buio fumoso della Taverna che si annidavano i ricordi: bastava spegnere la candela e abbandonarsi con la testa sul tavolo.
Ordinò una bottiglia di rosso; più tardi, nella squallida soffitta da clochard in cui trascorreva le ore di sonno, si sarebbe lasciato andare all’oblio con del whisky.
Alla Taverna, sotto quelle travi scurite, il tempo sembrava fermarsi, cristallizzandosi tra i verdi riflessi delle bottiglie; ma scorreva lentamente sulle fotografie, arricciandone e sgualcendone gli angoli, e faceva tremolare debolmente le fiammelle delle candele che colavano sui tavoli. Di tanto in tanto, qualcuno spegneva la candela per lasciarsi andare alla sua malinconia, e allora il sottile filo di fumo azzurrognolo andava a disegnare strani arabeschi nell’aria.
Nessuno parlava: i frequentatori di quel posto si conoscevano, ma rispettavano la solitudine reciproca. Immobili, soli, bevevano vino e lasciavano che fosse l’alcol a riempire il vuoto che avevano nell’animo.
Il momento in cui avrebbero trascorso l’ultima notte in quel locale si avvicinava, ma per ora non era necessario pensarci: bastava essere lì… ancora per una volta.
Lo scroscio della pioggia sul basso soffitto si era affievolito; Grigorij lasciò sul bancone qualche rublo e una manciata di copechi e uscì senza dire una parola.
Ubriaco di vino e di pioggia barcollò fino a casa e sistemò sul piatto del giradischi un blues già ascoltato in una notte ben diversa. Si sdraiò sul vecchio canapè sdrucito, con un bicchiere di vodka a infiammargli le ferite del cuore, e bevve fino a cadere addormentato. Solo in sogno, ormai, poteva sperare di rivedere colei che aveva amato e perduto. Che l’aveva illuso, poi deriso e umiliato, e infine abbandonato.
Quanto tempo felice era stato concesso loro? Ridicolmente poco. Qualche settimana. Il tempo di fare l’amore con lei, tenerla abbracciata quando gli si addormentava accanto e svegliarla dolcemente all’alba era finito subito. Le parole dolci si erano spente come mozziconi di sigarette, subito riservate ad altri. Le aveva dedicato poesie e canzoni, che lei non aveva mai letto né ascoltato: Grigorij aveva sempre immaginato la calda presenza di lei, nella sua soffitta come quando l’aveva baciata per la prima volta, che lo ascoltava rapita. Cantava con gli occhi chiusi, e quando li riapriva gli sembrava quasi di vederla ancora seduta in fondo al letto, a sorridergli teneramente. Ma erano solo altri sogni.
Tanti altri l’avevano corteggiata, lusingandola e coprendola di regali: non c’era spazio per lui, un povero artista squattrinato: e lei l’aveva quasi subito relegato in un angolo dei suoi pensieri, come semplice numero di una lunga lista di cavalieri serventi. Consapevole della sua bellezza e del suo successo, non aveva bisogno di musica o poesia per sentirsi importante.
Ma Grigorij l’aveva amata e la amava tuttora. Non sarebbe mai più stata sua, se mai lo era stata, e lui aveva imparato ad accettare la situazione.
Si stava lasciando andare lentamente, come le candele che rischiaravano fioche le sue memorie, e la “Taverna dei Rimpianti” era l’unica meta che ancora sapeva anestetizzare quella ferita nostalgia.
I sogni svaniscono al risveglio, ma che importanza aveva? Dopotutto, l’indomani ci sarebbe stata un’altra notte; e ancora una volta, alla “Taverna dei Rimpianti”, gli echi smarriti di passati lontani si sarebbero specchiati nei bicchieri di nostalgia.

* Erica Apolloni nasce a Zevio (VR) il 17 luglio del 1987, e attualmente risiede a Terranegra di Legnago (VR)

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