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venerdì 4 dicembre 2009

Beyond the Sunset - II (di Erica APOLLONI *)

parte II

Se Griša avesse avuto il coraggio di rileggere le pagine che aveva scritto nel suo diario, giorno dopo giorno, il suo pessimismo l’avrebbe indotto a pensare che forse la sua storia con Estel era giunta all’apogeo in quella deliziosa primavera, e che ora potesse solo declinare. Ma non osava: era convinto che su di lui gravasse una maledizione potentissima, che faceva regolarmente fallire senza alcun motivo apparente tutte le sue storie d’amore. E anche suo fratello Dralbij cominciava a convincersi. Studiavano insieme da anni pesanti tomi di magia, ed essendo entrambi dotati di particolari poteri paranormali, avevano acquisito nel campo conoscenze che spesso tornavano loro utili. Si trattava perlopiù di magia nera, in sintonia con la loro indole maligna e vendicativa, ma sapevano perfettamente come annullare le maledizioni e gli anatemi che preparavano grazie agli studi complementari di magia bianca che avevano fatto. Da quando era diventato un vampiro, Griša aveva scoperto che i suoi poteri erano notevolmente aumentati, e approfittando della sua mezza natura di elfo aveva deciso di seguire la magia naturale e l’alchimia delle quali Dralbij era un ineguagliabile conoscitore.
La loro arte, tuttavia, sembrava del tutto inefficace contro il sortilegio che incombeva su Griša. L’unica consolazione di cui la vittima disponeva erano le parole incoraggianti di Dralbij: «È un incantesimo molto potente, e come tale può essere annullato da qualcosa di altrettanto potente. Il figlio tuo e di Estel sarà colui che ti libererà, probabilmente. Quindi sarà la forza dell’amore a distruggere la maledizione che inibisce il tuo amore!». Si fermò, perplesso, ripensando alle sue parole. Gli occhi, di solito blu, gli si scurirono dallo sforzo di concepire quel concetto, e alla fine concluse con un’alzata di spalle: «L’amore, che ridicolaggine. Vivere in funzione di un’altra persona, anteponendola a se stessi e facendosi sottomettere e comandare? Assurdo» «L’amore unisce due persone» lo punzecchiò Griša «Come pensi sia possibile essere dominatori e dominati al tempo stesso? Dipende dalle situazioni, ma allora non si tratta di supremazia!».
Teneva tra le mani la voluminosa agenda che utilizzava come diario. Lì erano racchiusi, come preziose perle in uno scrigno, i racconti dei giorni felici trascorsi con Estel. Tutta la loro storia era riassunta quotidianamente con la sua scrittura che, nelle pagine più belle, era palesemente incerta e tremolante, come se lui stesso non riuscisse a capacitarsi di quanto accadeva. Sfogliando rapidamente le pagine riconobbe alcune delle date più belle, e si sorprese a riviverle con un sorriso vago a distendergli il volto.
Il lunedì dopo Pasqua, per esempio, si erano recati con tutta la compagnia sull’argine della Neva per un picnic, e avevano trascorso la giornata a prendere il primo timido sole. C’erano anche i componenti del gruppo musicale di Moonlight, e qualcuno aveva portato chitarre e percussioni: Griša e Dralbij avevano trionfato con le loro canzoni. Il picnic era stato interrotto però da pesanti nuvole temporalesche che avevano iniziato a portare gocce di pioggia sui prati affollati, e tutti avevano dovuto caricare cesti e coperte sulle macchine per rincasare. Solo Estel e Griša erano rimasti fuori, e prima che l’acquazzone si scatenasse si erano rifugiati in una tenda da campeggio su un’altura, ben riparati dalle rocce intorno e distanti dagli alberi che, in caso di temporale, potevano essere colpiti dai fulmini. Con la pioggia a scandire i minuti avevano fatto l’amore, e dopo la pioggia si erano seduti, abbracciati, ad ascoltare lo sgocciolio del bosco sul quale brillava un glorioso arcobaleno.
E poi, tra quelle pagine erano conservati i racconti dei giorni in cui, non avendo materie importanti, aveva saltato la scuola per andare a casa di Estel. Qualche volta aveva anche studiato là – sebbene Asso non gli credesse nemmeno alla lontana –, e all’inizio di giugno, a meno di venti giorni dall’esame di maturità, già cominciava il grande ripasso degli argomenti di tutto l’anno.
«Non rileggere il diario!» esclamò Dralbij, piombando all’improvviso in salotto e facendogli prendere uno spavento tremendo «Lo sai che porta sfortuna!» «Infatti non l’ho riletto» sbuffò Griša, quando si fu ripreso «Stavo sfogliando distrattamente la pagine, ripensando alle date più belle. Forse anche questo potrebbe far scattare la mia dannazione?».
Stavano per lanciarsi in una discussione sulla superstizione, ma furono interrotti dall’arrivo di Estel: già, la aspettavano. Griša le corse incontro, con gli occhi scuri sfavillanti di un’espressione che riservava esclusivamente a lei, e Dralbij lo guardò con un sorriso indulgente, pensando: «Se lo meritava, un amore così, e se dovesse finire male… non so come la prenderebbe».
Estel li abbracciò entrambi, fuori di sé dalla gioia, e annunciò trafelata, posandosi le mani sul ventre: «È una bambina!». Dralbij si lanciò subito nelle sue retoriche congratulazioni, ampolloso e ridondante, ma Griša era ammutolito dalla felicità: «Sarà una principessa» cercava di dire con la gola secca «Una bambina che abbaglierà con la sua bellezza, una futura regina che farà risorgere due mondi». Un raggio di sole obliquo illuminava Estel come se fosse su un palcoscenico; i suoi occhi di mare, sotto il cappello che portava sempre di giorno, erano il trionfo della gioia.
«Come la chiameremo? Hai già qualche idea?» domandò Griša, dopo un bicchiere d’acqua. Lei annuì: «Pensavo di darle il mio secondo nome, Selene, ma ha un’aura troppo notturna per la futura regina. E poi, voglio che abbia una vita normale come tutte le bambine della sua età, e quindi anche un nome che non sia troppo altisonante senza per questo sminuirla. Se sei d’accordo, vorrei chiamarla Elisabeth, che per noi sarà Sissi». Conoscendo l’ammirazione di Estel per l’imperatrice Sissi, Griša non osò contraddirla: in fondo, Elisabeth era un bel nome, anche se conteneva la radice da cui derivava anche il temuto nome di Bettina. Si guardò bene dal farlo notare, comunque, ma Dralbij indovinò i suoi pensieri e ridacchiò sommessamente.
Sissi, futura regina degli Elfi e dei Vampiri, nonché erede del titolo di generale Antirealista quando avesse raggiunto la maggiore età.
Se avessero detto a Griša che la sua storia con Estel era a un passo dal giro di boa che l’avrebbe portata ad un lento, inesorabile declino su un sentiero di briciole e schegge di ricordi, lui in tutto il suo catastrofismo non l’avrebbe creduto.

Con la fine dell’anno scolastico che si avvicinava sempre di più, Lestadt andava sempre più spesso in Via dei Fiori Bianchi, per farsi aiutare da Dralbij in matematica: voleva avere voti alti in tutte le materie, comprese quelle che gli piacevano meno. I due si mettevano sempre a studiare sul tavolo della cucina, mentre Griša, che non aveva bisogno di scrivere, preparava l’esame accovacciato sul letto, circondato dai libri.
Non era raro che, verso metà pomeriggio, Dralbij si mettesse a studiare per conto suo, lasciando Lestadt e Griša liberi di andare dovunque volessero. I due, nel giro di quelle ultime settimane, erano diventati grandi amici, e passavano le ore a bighellonare per Pietroburgo o, se il tempo piovoso non lo permetteva, stavano in camera a giocare a carte.
C’era però qualcosa, in Lestadt, che configgeva con lo sviluppatissimo sesto senso di Griša: una strana sensazione negativa, un presentimento. Riusciva ad evitarlo con leggerezza, comunque: che male avrebbe mai potuto fargli un ragazzino di soli sedici anni? Lui, dall’alto dei suoi diciotto e dal suo futuro di padre di famiglia, si sentiva molto più grande di lui. Lestadt non si faceva questo genere di problemi: era il più piccolo della compagnia, è vero, ma ben pochi l’avrebbero detto. Era infatti molto alto per la sua età, e dimostrava sempre qualche anno di più. Inevitabile, quindi, che sentendosi così avrebbe voluto conoscere il resto della banda: «Dobbiamo trovarci tutti insieme» insisteva.
A placare i presagi di Griša, poi, c’era anche un altro fatto: Lestadt aveva dimostrato fin da subito, prima ancora di venire a conoscenza dell’esistenza dell’esercito Antirealista, di condividerne appieno gli ideali. Meritava di fare il Giuramento per entrare a farne parte ufficialmente, forse anche con un grado abbastanza alto. Dralbij non era del tutto d’accordo, ma davanti alle insistenze del fratello si arrese: «D’accordo, prepariamo pure lo Statuto in modo che se lo possa studiare. Ti avverto, però: Lestadt non…». Si bloccò, vedendo che Griša lo stava fissando con gli occhi socchiusi, e finì: «…potrebbe non essere del tutto convinto».
Griša, che aveva appena finito di bere un caffè, si alzò per portare la tazzina in cucina e sospirò tra sé: «Anche lui ha il presentimento di qualcosa. Ma cosa, maledizione?». Quindi aggiunse ad alta voce: «Abita poco distante dalla casa di Estel, e io domani devo andare da lei. Posso dire a Lestadt che si faccia trovare davanti alla trattoria che c’è su quella stessa strada: gli darò lo Statuto, e poi tornerò alle mie occupazioni. Ti ricordo che, domani, festeggeremo quattro mesi insieme!». Quattro mesi non sono poi molti; ma li avevano vissuti così intensamente da farli sembrare infinitamente più lunghi. Il loro amore, sempre più solido giorno dopo giorno, veniva coronato ogni mese quando festeggiavano.
3 giugno: si stava così bene, in quella giornata di sole, che Griša a metà strada si fermò per aprire il primo bottone della giacca. L’estate gli riservava bellissime promesse: in piscina con la compagnia, libertà completa dagli impegni scolastici, notti da consumare nell’amore, fuochi d’artificio alle sagre di paese. Superata la tensione per gli esami, il pensiero dell’università gli appariva lontanissimo.
E così, quel pomeriggio, era partito con una scatola di cioccolatini sul portapacchi della bici e il mazzo di carte da gioco in tasca. E il cuore pieno d’amore e di sogni.
Quando Estel gli aprì il cancello, le consegnò i cioccolatini con un galante inchino prima di baciarla dolcemente, e mormorò: «Quattro mesi insieme».
Lestadt, quando arrivò, li trovò fermi l’uno di fronte all’altra, a tenersi per mano, le labbra sulle labbra. Non si erano accorti di lui, e si avvicinò di qualche passo senza sapere come annunciarsi.
Ma non ne ebbe bisogno: all’improvviso, Griša barcollò indietro premendosi le mani sulla fronte, con il volto contratto in un ringhio di dolore. «Dio mio!» gemette, scrollando la testa per cercare di liberarsi dalla sgradevole sensazione che gli aveva congelato il sangue nelle vene. Estel, preoccupata, non sapeva cosa fare: lo abbracciava, sentendolo teso e scosso da brividi.
«Tutto bene?» la voce di Lestadt sembrava arrivare da molto lontano «Posso entrare?». Quando varcò per la prima volta il cancello, il dolore che pulsava nella testa di Griša si fece lancinante ed esplose, filtrandogli fino ad ogni angolo del corpo, aumentando il tremito che gli tagliava il respiro. «Sì, sto bene, sto bene» ripeteva, a denti stretti, più per fare coraggio a se stesso «È stato solo un piccolo malore». Era terrorizzato, la paura l’aveva paralizzato stringendolo tra le sue indistruttibili tenaglie, ma si fece forza ed entrò in casa, lasciandosi cadere a peso morto sul letto di Estel. Cosa l’aveva ridotto così, da un momento all’altro e senza alcun motivo? Era certo di aver visto, per un istante, una scena che l’aveva distrutto, ma non la ricordava.
E le dita di Estel, che gli scorrevano leggere tra i capelli, riuscirono a calmare la sua angoscia a poco a poco. Un quarto d’ora dopo il malessere era passato, e Griša era pronto a consegnare a Lestadt lo Statuto Antirealista: «Abbine cura e studialo» ordinò, col tono ufficiale che riservava solo alle grandi occasioni «Poi dovrai dimostrare davanti a tutto l’esercito Antirealista di essere degno del grado di colonnello che abbiamo intenzione di assegnarti. Il Giuramento vero e proprio lo farai soltanto tra qualche settimana, probabilmente alla Roccaforte». Vedendolo perplesso, spiegò: «La Roccaforte è un bosco dietro casa mia, dove abbiamo costruito una sorta di fortino al quale solo noi sappiamo arrivare. La zona è pericolosa, ci sono rovi e sterpaglie, alberi caduti e un lago circondato da sabbie mobili, ma c’è una strada nascosta per arrivarci che solo un Antirealista conosce». Estel, che aveva già attraversato quel luogo, annuì.
«Mi sento pronto a tutto» assicurò Lestadt, prendendo religiosamente lo Statuto. Nel momento il cui le loro dita si sfiorarono, Griša provò un’altra fitta dolorosa, stavolta limitata solo alle tempie, ma la ignorò.
E quando, la sera, fece ritorno a casa, il preoccupante episodio del pomeriggio era ormai lontano: aveva passato altre ore indimenticabili con Estel.
Ore che presto si sarebbero trasformate in aguzze schegge di dolore. E lui ancora si rifiutava di considerare gli avvertimenti che la sua psiche capace di andare oltre il razionale gli lanciava.

Lestadt guadagnò molto presto il grado di colonnello: la sera dopo si precipitò a casa di Estel, boccheggiante, gridando: «Per carità, apri! Lupi mannari!». Era inseguito da una torma di bestie coperte da un’ispida pelliccia maleodorante, che cercavano di azzannarlo con i denti lucidi di bava. Lestadt era circondato, con le spalle contro il cancello di Estel, e ansimava con la bocca aperta dopo la corsa forsennata che doveva aver fatto.
Il lampione all’altro lato della strada illuminava l’intera scena, ma l’unica cosa che Estel notò correndo fuori con le pistole caricate ad argento spianate furono i canini appuntiti di Lestadt: ecco perché i licantropi lo inseguivano! Era un vampiro come lei e Griša! «Entra» gli disse, urlando per sovrastare le esplosioni degli spari. Sul cemento, tra pozze di sangue scuro, già qualche corpo si contorceva negli ultimi spasmi dell’agonia, e i nemici che ancora erano rimasti vivi fuggirono uggiolando nella notte.
«È la terza volta in un mese» commentò Estel, rientrando in casa «Dovremmo organizzare una spedizione punitiva. E tu» aggiunse rivolta all’inatteso ospite «Devi darmi parecchie spiegazioni. Se sei un vampiro purosangue, come puoi andare fuori di giorno in pieno sole?».
Lestadt era ancora accasciato sul divano rosso: non si era reso conto di dove fosse capitato, sapeva solo che se non avesse saputo che Estel vivesse in quella casa, ora sarebbe stato solo un mucchio di carne dilaniata. «Sono un vampiro» riuscì ad articolare, passandosi le mani tra i lunghi capelli neri che gli ricadevano arruffati sulle spalle «Ma in me c’è anche qualche goccia del sangue di un drago. Mio padre era il signore dei draghi, ucciso un secolo fa, ma in me è prevalsa la natura di vampiro. Sono quello che sono da sei secoli, da quando cioè un vampiro mi ha assalito. Sono sopravvissuto solo grazie alla squama di drago che porto sempre con me». Così dicendo, si sfilò dalla scollatura della felpa una catena d’oro, alla quale era appesa una grossa squama madreperlata.
I due rimasero a chiacchierare fino a tarda notte, parlando delle loro vite in mondi dimenticati e sempre più spopolati. «La gente non crede più a Elfi, Draghi e Vampiri» sospirò mestamente Estel, e Lestadt le fece eco: «Realisti, ecco cosa sono diventati tutti in quest’epoca. Grigorij è un’eccezione: trasformandolo in una creatura come te gli hai in un certo senso salvato la vita».
Fuori, la luna attraversava maestosamente il cielo, signora indiscussa della notte, sui sentieri delle stelle.
Griša la guardava dall’abbaino, incapace di dormire: si sentiva male, male davvero, ma non aveva voluto parlarne a nessuno. Nemmeno a Dralbij. «È l’agitazione per l’esame» mentiva, pur sapendo che non era così. Man mano che la notte avanzava e i suoi sensi si acuivano, aveva iniziato a percepire una potenza nuova, pronta a schiacciare la forza che gli derivava dall’amore. E non era nulla di positivo.
La ragione gli suggeriva, per zittire la voce che lo stuzzicava, di chiamare Estel e farsi rassicurare da lei. Ma allora, perché aveva aspettato tanto? Erano le tre del mattino quando, sapendo di trovarla sveglia, compose il suo numero e si chiuse in salotto. Cosa dirle? Come giustificare quell’improvvisa telefonata?
Fu lei a troncare le sue esitazioni, raccontandogli in un tono che voleva sembrare solo compiaciuto ma che in realtà tradiva un entusiasmo ben più grande: «Lestadt è un vampiro, e grazie a lui stanotte parecchi licantropi non torneranno a casa. È venuto a casa mia, inseguito da un loro branco, e avvertendomi ha fatto sì che io potessi ammazzarne parecchi. L’ho salvato appena in tempo, però: quei mostri l’avrebbero sbranato in men che non si dica. È appena andato via, dopo essersi accertato di avere la strada libera: anche i duecento metri che lo separano da casa mia sono pericolosi. Pensa: è un vampiro, ma grazie ad una piccola percentuale di sangue di drago, rafforzato da una squama che porta al collo, riesce a sopravvivere alla luce del sole».
«Appena andato via?» Griša non riuscì a dire altro. Cosa ci faceva Lestadt in piena notte a casa della sua ragazza? E nel giorno del loro quarto mese insieme! Il presentimento che da giorni lo seguiva accelerò il passo, aumentando il ritmo del suo battito cardiaco. Estel, subito, scoppiò a ridere: «Nessun problema, tesoro, va tutto bene. Lestadt è un bambino, per me, e non devi essere geloso: come potrei mai tradirti? Si è solo fermato a casa mia qualche ora per spiegarmi della sua doppia natura: l’esercito Antirealista può dire di aver fatto una cosa saggia a prenderlo tra le sue file».
«Qualche ora?» Griša non riusciva a capacitarsi della cosa. Era un incubo, doveva essere così. Sicuramente aveva preso sonno, e chissà quanto avrebbero riso lui ed Estel il giorno dopo, parlando di quell’assurdo sogno.
Ma allora perché aveva la drammatica certezza che qualcosa stesse per esplodere? Era come sapere di avere una bomba in casa e non sapere come trovarla e disinnescarla. Strinse più forte il ricevitore e si rannicchiò su se stesso, mentre di nuovo il panico gli stritolava il cuore con le sue gelide dita. «Capisco» si udì dire «D’accordo allora: domani pomeriggio porteremo Lestadt non alla Roccaforte, ma alla Sede Antirealista». Alludeva ad un enorme cantiere abbandonato in Via dei Fiori Bianchi: c’erano due condomini in costruzione lasciati nella loro griglia di impalcature, che lui e Dralbij avevano esplorato da cima a fondo, stabilendo lì la loro sede per le giornate di pioggia. «Gli faremo fare il Giuramento: a quanto pare ne è degno».
Quando tornò a letto, Dralbij era sveglio: «Cosa sta succedendo?» gli chiese. Griša non riuscì più a trattenersi e gridò, colpendo con un pugno il groviglio di coperte sul suo letto: «Succede che Lestadt, ora che sa dove abita Estel, è stato a casa sua fino a qualche minuto fa; e succede che, con la scusa di giocare col computer, ci tornerà molto spesso. E io ho paura, ho un… presagio!».
Dralbij ricadde sul cuscino: ecco, pensò, era successo. Più tardi di quanto pensasse, ma era successo. Conosceva Estel da qualche anno, e l’aveva sempre considerata una ragazza di liberi costumi e rapida nel cambiare idea. Effettivamente gli era sembrato strano vederla così perdutamente innamorata di qualcuno: avrebbe dovuto avvertire Griša, metterlo in guardia almeno, ma non ne aveva mai avuto il coraggio. Come avrebbe potuto dirgli cose simili vedendo i suoi occhi farsi ardenti di passione ogni volta che pensava a Estel? Con l’orribile sensazione che fosse ormai troppo tardi per rimediare, mormorò: «Quando Lestadt sarà dei nostri, io e te come generali saremo suoi superiori e lui dovrà ubbidirci. Potremo tenere la situazione sotto controllo». Non riuscì ad ingannare nessuno.

Il giorno del Giuramento di Lestadt, il sole aveva trionfato sul freddo: si poteva uscire con soltanto una camicia addosso, ma la Roccaforte non era praticabile a causa della pioggia notturna che l’aveva trasformata in un pantano. Decisero quindi di compiere il rituale sul tetto della Sede.
Griša faceva strada, col basco da generale portato di sbieco sulla fronte e il fazzoletto viola al collo, seguito da Estel e infine da Lestadt, che reggeva la bandiera. Quante ne aveva passate, quella bandiera! In fondo era solo un triangolo di stoffa recante il logo degli Antirealisti, una spettrale A disegnata come una fiamma violablu, completa di lineamenti simili a quelli di un teschio distorti in un urlo. E li aveva accompagnati, sempre e dovunque: alle grandi battaglie a Southampton, alla prima Roccaforte dietro casa di Bettina, nel lungo viaggio da Southampton a Pietroburgo e infine negli altri combattimenti tra la neve russa. Il gagliardetto era stato in più punti rattoppato, e lo spago dorato che lo teneva legato al bastone di legno che fungeva da asta si era ormai consumato tra la pioggia e il sole. L’avevano tenuto alto Bettina, poi il suo fratellastro Arthur – già, ora lui doveva essere l’unica generale in Inghilterra – e ora Dralbij. Il quale, però, quel pomeriggio aveva avuto un improvviso contrattempo, delegando quindi anche la sua parte di comando al fratello.
E nello stesso sole di giugno che Griša aveva contemplato in altri momenti grandiosi che, con Estel alla sua sinistra e Lestadt di fronte sotto lo Statuto appeso al muro, una cerimonia solenne di quell’esercito di sognatori si compì in tutta la sua giovanile ufficialità.
Intorno a loro c’erano solo detriti e calcinacci, in quell’enorme condominio abbandonato, ma bastava la fantasia a fare di quel posto una sontuosa sede.
Così, esaltati dalla vena di magia – non poteva essere altrimenti – che li aveva inondati come un fiume in piena, il generale e i due colonnelli lasciarono il cantiere tenendo a tre mani la bandiera, che fissarono sul tetto dell’altro condominio parallelo al primo, e fischiettando le ormai celebri note iniziali dell’Inno Antirealista si diressero verso il centro di Pietroburgo per una tranquilla passeggiata di metà settimana.
E vi rimasero anche alla sera: nessuno dei tre aveva particolari impegni dopo cena, e potevano rimanere fuori finché avessero voluto. Mangiarono ad un chiosco di piadine e patate fritte vicino alla stazione, chiacchierando e scherzando come amici di vecchia data. Estel se ne stava appoggiata a Griša che, beato, non faceva che pensare a quanto aurea fosse quella sua incredibile storia. Era sempre una spanna sopra la realtà, sempre perso nel nuovo sentimento che l’amore gli aveva insegnato a riscoprire: la fiducia. Gli sembrava strano sentirsi così speranzoso e pacifico… così rilassato che non notò lo sguardo famelico di Lestadt. Non vi fece caso, tutto qui, e quello fu il primo dei suoi sbagli più grandi.
Dopo cena tornarono in Via dei Fiori Bianchi, e si sistemarono in camera da letto a discutere degli ultimi film che avevano visto. Griša andò in cucina a prendere dei bicchieri e una bibita fresca, e quando tornò…
…trovò solo il buio, e in un’atavica paura delle tenebre si sentì d’un tratto come un bambino che si sveglia di notte dopo un incubo.
I suoi occhi da vampiro si abituarono istantaneamente all’oscurità, restringendosi come quelli di un gatto, e non gli ci volle nulla per distinguere la scena che gli si parava davanti con violenza, come se fosse illuminata da centinaia di riflettori. Che ridicolaggine, ricordò di aver pensato in quegli istanti immobili, la realtà sapeva distorcersi nelle peggiori allucinazioni. Non vedeva l’ora di abbracciare Estel, e lasciare che fosse lei a fugare con un morbido bacio quell’orribile inquadratura cinematografica.
Ma Estel era distesa sul letto, con gli occhi chiusi; e Lestadt la teneva abbracciata, accarezzandole i capelli con un sorriso a metà strada tra il rapito e l’intimidito.
«No» disse semplicemente Griša, stringendo gli occhi. Non urlò, non pianse, non cercò di aggredire Lestadt: in ogni caso, data la forza draghesca di lui, avrebbe avuto la peggio. Semplicemente rimase fermo sulla soglia, stringendo convulsamente lo stipite della porta, con le mani scosse da un tremito indomabile. Doveva aver lasciato cadere il vassoio con le bibite: anche se Estel e Lestadt avevano spento la luce, un vago chiarore sottolineava i contorni del loro abbraccio, e faceva scintillare i cocci di vetro che invadevano il pavimento. Ecco cos’erano i suoi quattro mesi insieme ad Estel: schegge multicolori che gli si conficcavano, una ad una, nel cuore colmo d’amore e ora di terrore, dolore, morte.
«Andatevene» rantolò, accendendo la luce «Andatevene immediatamente».
Muovendosi come fantasmi, i due oltrepassarono il mucchio di cocci e schegge e uscirono nella notte, tenendosi per mano.
Solitudine. Stupore. Un letto sfatto. Echi di promesse. Fallimento.
Griša riassettò le coperte e stese il copriletto: non sapeva cosa fare, si sentiva la mente completamente svuotata e non riusciva a frenare il tremore. Lentamente, barcollando come ubriaco, andò a sedersi in cucina e prese una bottiglia di Lambrusco che avevano comprato lui e Dralbij in un supermercato italiano. Scelse un bicchiere nuovo, rosso sangue, e cominciò metodicamente a versarlo. Riempiva il bicchiere e lo svuotava in due sorsi, continuamente, meccanicamente. Alla fine della bottiglia la testa gli girava, ma scolò anche una lattina di birra che giaceva abbandonata nell’ultimo scompartimento del frigorifero. Da ultimo, aprì il mobile-bar e si versò un enorme bicchiere di brandy alla ciliegia: dolce per contrastare l’amaro che si sentiva in bocca, o per la birra o per le lacrime trattenute. Anche così, allucinato e bevuto, non riusciva ad arginare il mostruoso lago nero che lo invadeva dentro.
Era mezzanotte quando Dralbij tornò a casa, sorpreso di trovarlo ancora sveglio. «Pensavo fossi esausto dopo un intero pomeriggio con la morosa, sai?» commentò, togliendosi le scarpe «Cosa ci fai in cucina? Spuntino notturno o improvvisa ispirazione per qualche nuova canzone?». Non udendo risposta si voltò a guardarlo e lasciò cadere d’un colpo le scarpe e le chiavi di casa, esclamando: «Cristo santo! Grigorij!». Gli si avvicinò e lo scosse, sentendolo rigido e gelido. Aveva gli occhi sbarrati, fissi nel vuoto, colmi di lacrime che non volevano saperne di traboccare, come se fossero congelate.
Griša non sentiva più niente: era vagamente consapevole del fatto che qualcuno lo stesse scrollando, gettandogli acqua fredda sulla fronte… ma perché svegliarsi? Stava bene in quel mondo ovattato, silenzioso, e non ricordava nemmeno come ci fosse arrivato. Davanti a sé vedeva solo una campagna desolata in pieno autunno, con pochi alberi spogli che apparivano e sparivano tra le volute di nebbia grigia. Freddo. Paura. Incertezza.
Dralbij aveva la fronte imperlata di sudore, e ormai gridava senza ritegno: «Chiamo un’ambulanza! Grigorij, rispondimi, rispondimi! Cosa ti è successo? Dimmi che sei vivo!».
Griša strinse debolmente i pugni per cercare un contatto con la realtà: anche nel suo abisso, non poteva permettere che suo fratello stesse così male. A poco a poco, addentando ogni gradino, riuscì a riemergere. I suoi occhi castani si fecero vividi, duri e disperati, ma coscienti. Aveva i palmi delle mani sudati, o forse gli sanguinavano per la pressione che vi esercitava con le unghie. Come aveva potuto pensare di morire così, in quello stato di trance? Un vampiro è immortale.
Cercò di parlare e non vi riuscì: la nausea lo assalì, ma lui la scacciò. Meglio tenere tutto l’alcol che aveva in corpo, almeno così poteva sperare di superare la notte. Dralbij lo aiutò ad alzarsi, sostenendo tutto il suo peso, e lo accompagnò vero la camera da letto. «No! No!» iniziò a boccheggiare Griša, cercando inutilmente di impuntarsi «Il letto no! Devo prima disinfettare le coperte!».
Accettò di sdraiarsi solo sul divano, contorcendosi dal dolore senza rendersene conto. Dralbij era sbigottito: non sapeva più cosa fare, come chiedergli spiegazioni. Fu Griša stesso a chiarire i suoi dubbi, balbettando con uno sforzo supremo: «Estel… Lestadt… erano lì, sul mio letto, abbracciati… sono andato in cucina e quando sono tornato erano lì al buio, e…» «Basta, basta» sussurrò Dralbij, impressionato «Ho capito, non occorre che tu ti sforzi ulteriormente».
Era successo, alla fine, ecco tutto: la bella storia era finita per sempre. Sentì di odiare Estel, che aveva distrutto quell’idillio. E per quale motivo, poi? Non era felice con Griša? Non stava aspettando una figlia da lui? E ora, la piccola Sissi avrebbe avuto Lestadt come padre adottivo? L’aveva sempre saputo che sarebbe finita così, e si maledisse per non averne parlato prima con Griša.
Griša, esausto, cadde in un delirante sonno alcolico, e Dralbij gli rimase accanto per tutta quella lunghissima notte infernale, aiutandolo quando si svegliava con gli occhi ridotti a due pozzi scuri di disperazione.

Lestadt cominciò ad andare tutti i giorni a casa di Estel; il pomeriggio del 12 giugno, cinque giorni dopo quell’orribile notte, Griša trovò il coraggio di telefonare a Estel (di nascosto: Dralbij non gliel’avrebbe mai permesso) e commise il tragico errore di dire, sconfortato: «Immagino tu sia felice ora, con tuo m… con Lestadt» «Ormai puoi dirlo» gli rispose lei, con una voce irriconoscibile «Mio moroso, da ieri sera». Tutto stonato, tutto sbagliato, tutto fallito.
La girandola dei giorni accelerò, in policromi giochi di bugie, di falsità, di sempre nuovi tradimenti. Due volte Estel lasciò Lestadt, e tre volte tornò insieme a lui. Griša passò gli esami di maturità con un misero 64 per inerzia e per fortuna, dato che da quella sera non riuscì più a leggere una sola riga dei suoi libri scolastici. Non partecipò alla riunione di classe finiti gli esami, incapace di resistere senza crollare di disperazione per più di un’ora. La magnifica rete di copiatura sorretta da lui, Asso e Terry subì un brutto colpo, e fu solo la loro comune buona stella di studenti ad impedire disastri. Non prese più in mano la chitarra per paura di dover affrontare le romantiche canzoni che aveva composto per Estel.
E si chiuse completamente in se stesso, come un riccio, barricato tra le mura che si era costruito usando come mattoni le lacrime che non aveva mai pianto. Aveva scritto uno dei suoi libri brevi, intitolato Fraternity, nel quale raccontava come aveva incontrato Dralbij durante il suo lavoro di croupier al Jolly, il più lussuoso casinò. E dove compariva per la prima volta Estel in un suo racconto: non ancora nelle vesti della sua ragazza, ma ugualmente come un personaggio di spicco… perché già all’epoca aveva provato qualcosa per lei. Lo rilesse, cercando inutilmente di recuperare lo stato di grazia perduto: oh, se solo avesse voluto prevedere il futuro! Ne era perfettamente in grado, sapeva leggere la sfera di cristallo che Dralbij gli aveva regalato a Natale… ma non aveva mai voluto farlo. «L’amore è la più grande avventura e il trionfo delle sorprese» gli aveva insegnato Asso, e quelle parole erano stati più forti dei principi dell’Anti-Amore. Sempre.
A complicare ulteriormente la situazione già di per sé insostenibile contribuiva Estel: aveva preso un atteggiamento insopportabile, altalenante e irresoluto. Lasciava Lestadt, tornava da Griša promettendogli: «Sono tornata, tesoro, non c’è nessun problema, ora è passato tutto», e ogni volta lui scopriva la verità. Si era lasciato tentare dalla sfera di cristallo, e più di una volta sentiva quelle parole rassicuranti osservando scene sempre simili attraverso il liscio cristallo: Lestadt, sul letto insieme a lei, che le faceva cenno di tagliare in fretta la telefonata per poi prenderla tra le braccia e baciarla con veemenza. E lei, con gli occhi chiusi, gli si abbandonava addosso.
Quanto era debole, Griša, e quanto si odiava per questo! Usciva ancora con Estel, e regolarmente lei mentre passeggiavano lo prendeva per mano, coccolandolo e baciandolo. E magari poco prima era stata con Lestadt! Avrebbe voluto lasciarla perdere, fuggire, tornare a Southampton e lasciare che il tempo scorresse via con tutti i suoi tradimenti.
Non potendo lasciare Pietroburgo, si concentrò sulla stesura di un nuovo libro: vedeva la sua ex storia con Estel come un meraviglioso arazzo di seta, che la realtà aveva ridotto a stracci strappati. E così scelse come titolo Artigli di realtà – Brandelli di illusione. Sognava, scrivendo quel libro, e piangeva: gli faceva bene, anche se dopo si sentiva spossato. Parecchie volte Dralbij l’aveva trovato davanti al computer, con le lacrime che gli scorrevano a rivoli sulle guance, intento a pestare freneticamente sulla tastiera, riempiendo pagine su pagine con la forza della disperazione. Solo così sentiva di poter essere ancora vicino a Estel, anche se stava narrando il suo presente di tradito, abbandonato, disilluso innamorato.
Dralbij parlava spesso con la signora Mary che, lasciato da parte il suo atteggiamento da mamma chioccia, sfogava la tristezza che le dava il vedere Griša in quelle condizioni inveendo contro Estel: «Quella stupida, insulsa meretrice!» concludeva sempre, sostituendo ogni volta nuovi sinonimi all’ingiuria conclusiva.
Tuttavia, entrambi erano del parere che quell’ultimo, straziato racconto di Griša dovesse essere un apoteosi della sua arte scrittoria. L’autore, viceversa, non era per niente d’accordo: «Scrivo per non pensare» diceva laconicamente «Non per il gusto di scrivere». Un sera, Dralbij azzardò: «Come puoi non pensare a Estel se scrivi di lei?», e l’amareggiata risposta ebbe il potere di zittirlo: «Scrivo la realtà, ma la addolcisco inserendo quello che sogno la notte, protetto dall’oscurità. Questo libro è a lieto fine: un incontro tra qualche anno, l’amore che rinasce grazie a nostra figlia Elisabeth… e queste settimane che svaniscono come se non fosse mai accaduto niente».
Era sempre più cupo e taciturno, e quando parlava usava sempre un tono lugubre, funereo. Usciva con Estel, passava i pomeriggi con lei ad ascoltare le sue scuse, a rifugiarsi nel suo abbraccio che ormai considerava pubblico, e aperto a chiunque, e rincasava sempre più afflitto. Un sottile strato di polvere aveva iniziato ad adagiarsi sulla sua chitarra.
Passò il suo diciannovesimo compleanno, il 17 luglio, con tutta la compagnia; ed ebbe la possibilità di vedere, anche con la mente annebbiata dall’alcol (come molto spesso gli accadeva, ultimamente), Estel e Lestadt scendere insieme dalla seconda macchina che avevano mobilitato per andare a festeggiare tutti insieme in qualche locale. L’autista era Moonlight; e scese dalla macchina a testa bassa, con gli occhi verdi più scuri del solito, evitando lo sguardo di Griša che aveva viaggiato con Asso e alcuni loro ex-compagni di scuola. «Non abbiamo fatto niente» disse Estel per l’ennesima volta. Griša non le credeva più.
I suoi poteri psichici, accresciuti dalla disperazione, avevano nel frattempo trovato anche un altro sfogo: se non li scaricava in maledizioni e sortilegi su Lestadt o concentrandosi sulla sfera di cristallo, questi gli creavano improvvisi, violenti giramenti di testa, che più volte si erano conclusi in spaventosi svenimenti. Dralbij aveva perso il conto delle volte in cui l’aveva trovato riverso al suolo, con gli occhi chiusi, le palpebre tumefatte e la lingua pendente inerte tra i canini. Quando si svegliava, era sempre così sfinito da dover passare il resto della giornata a letto, in un febbricitante dormiveglia.
Finché, una sera di inizio agosto, Lestadt si presentò in Via dei Fiori Bianchi.
Dralbij avrebbe passato la notte in discoteca con i compagni di università: e Griša era solo. Si affacciò alla finestra, inspirando a fondo l’aria tiepida della notte estiva: Lestadt era lì sotto, con il casco sottobraccio, appoggiato al suo sgangherato motorino nero che sembrava sempre sul punto di sfasciarsi del tutto. Teneva gli occhi castani rivolti verso terra, e si mordicchiava nervosamente un labbro. «Posso entrare?» chiese, come già un’altra notte aveva fatto davanti ad un’altra porta.
«La tua ragazza non è qui» rispose Griša stancamente, e richiuse la finestra mormorando: «Basta, basta, basta, oh Dio, fa’ che tutto questo non accada, io… io non voglio tornare». Ma lo desiderava più di ogni altra cosa al mondo: ritrovare Estel. Così, a malincuore, aprì la porta.
«Non definirla più la mia ragazza» esordì Lestadt, appena ebbe varcato la soglia «Non voglio più saperne di lei, non la sopporto più! È sempre così incostante… e non resistevo più a tutte le sue falsità. Sei un mio amico, generale, non ne potevo più di vederti trattare così. Non immagini quante volte mi sono sentito ripetere cose come “Vieni pure, ma senza Grigorij”, “Non dirlo a Grigorij” e simili. Adesso basta! Voglio che tu sappia tutta la verità: sei stato ingannato fin troppo».

«Perché mi dici questo? Perché sei qui?» la voce di Griša era un rantolo di rabbia e dolore «Il pentimento è tardivo. A cosa ti serve confessare gli avvenimenti di questi ultimi due mesi quando il danno è fatto ed irreparabile? Avresti dovuto pensare ai tuoi sensi di colpa prima di approfittare di lei… razza di bastardo sfasciafamiglie! Mi sembrava di essere stato chiaro: casa di Estel è dalla parte opposta a casa mia, e nessun motivo potrebbe averti spinto fin qua. Non sei contento? Hai Estel: perché vuoi a tutti i costi infierire su di me e comparirmi davanti?».
Lestadt depositò il casco e si sedette sul letto, quello stesso letto dove erano iniziati i disastri, rispondendo: «È superfluo dire che tra me e lei non c’è più niente, ormai te l’ho detto mille…» «Sta’ zitto!» lo interruppe Griša, rivoltandosi come una vipera «Credi che io, come veggente, non abbia abbastanza poteri per leggere le carte, o la sfera? Lo so benissimo quello che è successo, l’ho sentito! Non immagini quanto vorrei, in certi momenti, poter rinunciare alle mie capacità e avere il beneficio del dubbio!». Scostò con rabbia il blocco da disegno e si sedette sul letto, accanto al nemico, sospirando: «Le sei saltato addosso… quella notte in quel locale e anche la “seconda volta”, quando siamo usciti tutti insieme per andare a vedere i fuochi d’artificio… e lei non si è tirata indietro. Per non parlare di tutte le altre volte in cui ho percepito che stava succedendo qualcosa. Ormai anche i tarocchi di Dralbij non mi parlavano che di menzogne e di imbrogli».
Lestadt aspettò pazientemente che finisse; poi, dopo un profondo sospiro, esordì: «Prima di questo sfacelo, non lo puoi negare, io e te insieme ci siamo divertiti, e in fondo io ti ho sempre considerato come un fratello maggiore. È appunto da fratello che, ora, voglio parlarti: ci sono troppe cose che ti sono state nascoste e che è giusto tu sappia, adesso che né tu né io siamo più insieme a Estel». Vedendo che Griša lo ascoltava attentamente, con gli occhi socchiusi e stranamente lucidi, riprese la sua confessione: «In quel locale, la prima volta, non è stata tutta colpa mia né tutta colpa sua. Ci siamo avvicinati l’una all’altro, e quello che è successo lo sai, l’hai visto nella sfera. La sera in cui siamo andati a vedere i fuochi… lì è stata Estel a cominciare. Io non mi sono tirato indietro, ed è questa la mia colpa, ma di mia iniziativa non avrei mai osato fare nulla. Immagino però che tutto ciò tu lo sappia già… e adesso viene la parte più difficile da raccontare. Generale, devi staccarti da lei una volta per tutte! Altrimenti continuerai a soffrire così per niente!» «Ma non posso!» mormorò debolmente Griša «Io la amo…» «Ma non sei ricambiato!» ribatté Lestadt «Ora dimmi: quante volte io e lei siamo stati insieme?» «Due… giusto?» fu la timida risposta.
Se ci fu un momento in cui Lestadt avrebbe voluto mollare tutto fu quello: sapeva che, qualunque cosa avesse detto, l’avrebbe ferito a morte. Non riusciva nemmeno a sostenere quello sguardo disilluso e indagatore! Eppure, si disse, Griša non poteva rimanere all’oscuro di tutto: la sua coscienza gli urlava di confessare tutto, sia per evitare a se stesso i rimorsi, sia per aiutare il suo “fratello maggiore” (così lo considerava) a venir fuori dalla palude in cui era precipitato. «Tre» buttò lì «C’è stata anche una terza volta».
Griša strinse convulsamente le dita sul cuscino e iniziò a tremare impercettibilmente, mentre gli occhi gli diventavano due pozzi senza fondo che arrivavano dritti all’inferno che era il suo cuore, da cui scaturivano le lacrime più amare. «Verso la fine di luglio» stava dicendo Lestadt «Dopo il tuo compleanno. Stavolta è stata completamente opera di Estel: io già iniziavo a non pensare più a ciò che c’era stato tra me e lei, quando ad un certo punto lei… a casa sua… insomma, ci siamo… lo sai» «Stai inventando tutto» disse Griša, tranquillo «Estel non sarebbe mai tornata una terza volta insieme a te, né tantomeno avrebbe pensato di tradirmi ancora». C’era una nota stonata nelle sue parole: per la prima volta il secondo croupier del Jolly aveva fallito il suo bluff. Lestadt non aveva fatto altro che confermare dolorosamente quanto già la sfera di cristallo gli aveva detto. Se prima nei suoi sogni poteva aver sbagliato la lettura, ora era dolorosamente certo di una cosa: Estel aveva gettato alle ortiche la fiducia che per ben due volte le aveva accordato… proprio lui, che non fidava completamente di nessuno! Una nuova delusione, più violenta e più consapevole della prima, lo colpì come una sferzata.
Lestadt distolse lo sguardo e concluse: «Era giusto che tu lo sapessi, ed era giusto che io mi togliessi l’enorme peso che non riuscivo più a sostenere. Come potevo resistere vedendoti sorridere assieme a me, ad esempio mentre giocavamo nelle case abbandonate qui intorno, innamorato di una persona che per te non prova più niente da almeno due mesi, e non fa che raggirarti?» «Sapevo per certo solo che lei, ogni tanto, ti chiamava a casa sua specificando esplicitamente che io non ci fossi» rantolò Griša «Di tutto il resto avevo solo il sospetto. Cos’altro c’è che non so? Voglio i dettagli! Se deve finire, allora finisca senza alcun dubbio».
E Lestadt, odiandosi per il male che stava facendo, ubbidì: parlava di interi pomeriggi d’amore con Estel, di incontri clandestini, di romantici messaggi, e confessava tutte le bugie che gli avevano raccontato. Per concludere, volle riferire una frase che Estel gli aveva detto, e parlò con la voce ridotta ormai ad un sussurro: «Ero sdraiato sopra di lei, ma siccome avevo caldo mi sono spostato; è stata lei allora a… a mettersi come ero io prima, e…».
Griša alzò una mano a fermarlo. «Basta, macellaio!» gemette «Abbi almeno la pietà di tacere le parole che non mi ha detto… non le voglio sapere!». Era come se gli fossero stati piantati dei chiodi arroventati nel cuore: non pensava si potesse soffrire tanto, eppure in fondo se l’era sempre aspettato. Aveva voglia di piangere fino a morire, ma non voleva farlo davanti a Lestadt. Così deglutì, ricacciando indietro le lacrime, e trovò la forza di mormorare: «Grazie».
Lestadt, d’impulso, lo abbracciò e rispose: «Non dirlo neanche per scherzo. Ti ho fatto male, molto più di quanto potessi immaginare di fare, e mi sento un senza cuore ad essere stato così diretto! Sappi però – anche se dubito ti sia di consolazione – che ti sono vicino: appena avrai bisogno di me per qualsiasi cosa, chiamami e sarò pronto… agli ordini, generale!».
Griša non sorrise: si alzò in piedi barcollando e ringhiò, rauco: «No, tu non sei un senza cuore. Tu troverai ancora il sentiero dell’amore, o dell’amicizia, o semplicemente dell’affetto. Le lacrime che non ho pianto per Estel saranno i mattoni di un muro che lei non riuscirà mai più a valicare: il senza cuore, qui, sono io… perché il mio cuore è morto. Ora, ti posso chiedere un favore? Lasciami solo. Non sono arrabbiato con te, anzi, ti sono grato per quello che hai fatto, e stimo il coraggio che hai avuto a parlarmene, ma ora ho bisogno soltanto di me: devo cavarmela da solo in questa situazione, non posso permettermi di contare ancora su altre persone».
Lestadt uscì dalla stanza a piccoli passi, impacciato: avrebbe voluto rimanere con Griša, ben sapendo come si sentisse in quel momento, ma osservandolo si decise ad andare via. Griša era irriconoscibile: pallido, con gli occhi cerchiati e innaturalmente scuri, le pupille dilatate, il corpo scosso da brividi incontrollabili. C’era però qualcosa di inquietante, in lui: un sogghigno perverso. Il mondo lo voleva cattivo? Bene: sarebbe stato spietato. Sentiva la tagliola della disillusione stritolare tutti i buoni sentimenti che ancora poteva provare: avrebbe voluto trovare una vittima da ferire, qualcuno di cui distruggere le speranze. Solo provocando dolore negli altri sentiva di poter arginare il male irrefrenabile che gli esplodeva dentro.
Come vampiro, non era ancora abbastanza esperto da potersi trasformare in un pipistrello dagli occhi di ghiaccio azzurro, aveva solo l’agilità felina che gli avrebbe consentito di atterrare in piedi senza alcun danno anche cadendo dai piani più alti di un palazzo; ma, pur essendo alle prime armi, aveva tuttavia sufficienti abilità per affrontare una notte di caccia.

I canini si erano allungati man mano che il sole tramontava, e ora sfavillavano sinistri nella luce dei lampioni della strada. Sogghignò, godendo di quel bagliore assassino: avrebbe ucciso, quella notte, ma prima aveva voglia di far soffrire la sua vittima. Gli sarebbe piaciuto prendere il pesante mantello nero, ma dopo un ripensamento gli parve troppo classico: optò quindi per i soliti vecchi abiti che usava quando si recava alla Taverna dei Rimpianti. Mai più sarebbe tornato in quel posto senza tempo a piangere sui suoi sogni infranti: era l’ora della malvagità.
Uscì di casa, dirigendosi a passo sicuro verso il parco più grande di Pietroburgo, e trovò subito ciò che cercava: una coppia di innamorati seduti su una panchina. «Mi dispiace di doverti lasciare così presto, tesoro» stava dicendo lei «Purtroppo questa sera devo tornare a casa presto». Lui, abbracciandola, aveva risposto: «Non ti preoccupare, domani sera saremo ancora insieme, e ti porterò nel miglior ristorante di tutta la Russia!». Si salutarono con un bacio, prima di allontanarsi in due direzioni opposte.
Griša aveva ottimi poteri paranormali: grazie a loro aveva percepito qualcosa di negativo in quella coppia, e fiutando già il male che stava per fare seguì la ragazza fino ad un angolo nascosto del parco, dove la vide correre tra le braccia dell’amante, bisbigliando: «Se n’è andato, la notte è nostra!». I due si sdraiarono abbracciati sul prato, e Griša scivolò furtivamente nella notte alla ricerca del primo ragazzo che aveva visto. Lo trovò in fondo al viale, e gli si avvicinò a testa bassa, in modo che la visiera del basco gli coprisse il volto cadaverico e i canini ai lati della bocca. «La tua ragazza è sdraiata su quel prato laggiù insieme all’amante» annunciò. Il ragazzo impallidì e balbettò: «Chi sei? Come fai a sapere dei miei sospetti e di… mio Dio!». Si mise a correre, disperato. Griša, più veloce e più agile, tagliò per una scorciatoia e raggiunse la coppia sul prato.
Piombò su di loro come un turbine, e azzannò la gola di lui cominciando subito a succhiare il sangue e la vita che scorrevano fuori. Le urla della ragazza erano una musica, se mescolate agli schiocchi della carne che stava lacerando. Squartò l’amante sotto gli occhi di lei, poi le ringhiò scoprendo i canini grondanti di sangue denso e viscoso: «Se muovi un solo passo o parli, sei morta anche tu. E la tua morte sarà più lenta e dolorosa della sua!».
Stava arrivando anche il ragazzo tradito, e Griša scomparve nelle tenebre a godersi la scena. La ragazza gli corse incontro, strillando e singhiozzando: «Un vampiro! Te lo giuro, era un vampiro!».
Griša li aggirò e li aggredì da dietro con un urlo disumano, gocciolando sangue dalla bocca; si godette qualche secondo l’espressione di atterrita consapevolezza del ragazzo al quale aveva fatto la spia mentre riconosceva il cadavere. «Era il mio fratello minore!» piangeva «E lei mi tradiva con mio fratello!». Griša scoppiò a ridere, divertito. «So cosa vuol dire» ridacchiò «Sono ridotto così per lo stesso motivo, amico!». Detto questo, gli azzannò il collo e lo uccise, tenendo per ultima la ragazza. «Tra qualche mese sarebbe nata mia figlia» raccontò «Se sua madre non avesse… ah, al diavolo!». Una nuova ondata di rabbia lo travolse: sgozzò la giovane affondandole i denti nella gola e scrollando violentemente la testa per ridurre a brandelli la carne.
Bevve molto sangue, quella notte, ma non servì a colmare il vuoto che aveva dentro: quello sarebbe rimasto fino a che il rancore non l’avesse riempito del tutto. Una parte di lui era morta, e ora nel vuoto che aveva lasciato si stava installando un demone di odio inarrestabile. Nulla sarebbe più stato come prima.
Pur essendo sazio, si allontanò silenziosamente nella notte, trotterellando nella direzione che gli indicava il vento. Percepiva la presenza di un altro vampiro non molto distante da lui, ma nell’ebbrezza del sangue non si premurò di identificarlo. Se fosse stato Lestadt, avrebbe potuto aggredirlo certo di avere la meglio. «Oh, sì» mormorava «Ha fatto un gran bel gesto, riferendomi tutta la verità. E ha aspettato per essere ben sicuro di non poter ottenere più niente da Estel. Certo! Se lei se lo fosse sbaciucchiato un altro po’, lui non avrebbe mai avuto questo attacco di onestà!».
Gli venne improvvisamente voglia di ridere: si accasciò contro il tronco di un albero e cominciò a sogghignare, cercando invano di trattenersi. Il cielo, che era stato coperto di nuvole per tutta la settimana, si aprì per lasciar piovere sulla terra la luce di una bellissima luna marmorea.
E nella bianca luce, spettrale e silenziosa, si materializzò Estel. Selene, la Regina dei Vampiri. Il vento della notte le scorreva tra i capelli neri come l’inchiostro, sottolineando le lunghe ciocche color della luna che li rigavano come solchi di lacrime. I canini ai lati della bocca avevano le punte arrossate: anche lei doveva essere appena andata a caccia.
A Griša la folle risata demoniaca morì istantaneamente in gola, soffocata da un singulto represso. Non sarebbe riuscito a parlare nemmeno se l’avesse voluto. Gli si accapponò la pelle e si vergognò di se stesso: delirante e impiastricciato di sangue. Aveva pasteggiato rozzamente come un licantropo, e schizzi di sangue ancora fresco gli erano colati lungo la gola. Sentì la paura dominare la sua mente, ma non riuscì a fuggire: gli occhi glaciali di Estel, luminosi quanto la luna stessa, lo stavano stregando. Conficcò le unghie nel tronco dell’albero a cui ancora era aggrappato: anche ipnotizzato, riusciva a contrastare con i suoi poteri psichici il magnetismo che lei esercitava sulla sua mente.
Lenta, aggraziata e maestosa come una leonessa, Estel gli si avvicinò. I lembi del lungo abito nero fluttuavano alle sue spalle, e le loro pieghe nel chiaroscuro argentato sembravano non toccare nemmeno il sentiero su cui camminava. Nella mente paralizzata di Griša combattevano due imperativi: fuggire e correrle incontro. Se solo fosse riuscito a muoversi! E invece non riusciva nemmeno a tremare. Fremeva di bramosia, però: l’abito attillato di Estel e la luce della luna evidenziavano la regale perfezione del suo corpo, che così tante volte era stato un tutt’uno col suo. Strinse i denti: ormai la distanza tra loro era sempre più scarsa, ma non abbastanza da sfocare lo sguardo fisso in quegli occhi. Quegli occhi.
Estel gli si accostò, muovendosi piano contro di lui e immobilizzandolo con le spalle contro l’albero, poi iniziò a baciarlo adagio, sempre senza abbandonargli gli occhi. A poco a poco, come una gatta, leccò via il sangue di cui era imbrattato. Era perversamente consapevole del suo respiro strozzato, del suo cuore accelerato, del desiderio e del terrore che signoreggiavano in lui.
Ma non aveva fatto ancora i conti con se stessa: anche lei, dovette ammettere, aveva sognato per settimane un simile momento. «Lestadt non esiste più per me» mormorò, sfiorandogli le labbra con i denti «Né voglio più sentirlo nominare. Intesi, amore mio?». Vinto, Griša si gettò nel suo secondo e definitivo sbaglio, che mise in moto il gigantesco orologio della sua vita volto ormai alla fine della sua carica: «Te lo giuro, mia dea».

La brutta avventura di Lestadt, che aveva sfracellato il loro amore in così poco tempo, cominciò presto ad assumere i contorni indistinti di un vago sogno che inizia a dissiparsi al risveglio. Sembrava davvero che fosse stata loro concessa una seconda occasione.
E mentre l’estate si incamminava a passo di marcia verso il suo culmine, giunse il 19 agosto, giorno del ventunesimo compleanno di Estel. «Faremo una grande festa notturna in discoteca» progettava da mesi insieme a tutta la compagnia, poi invariabilmente si rivolgeva a Griša: «E quando torneremo a casa, ti fermerai a dormire con me». I suoi occhi brillavano di una maliziosa, promettente, stuzzicante attesa.
Il tanto programmato sabato sera non giunse abbastanza in fretta per Estel, che cominciò la mattina stessa a prepararsi per la notte. Volendo tra l’altro vivere con Griša ore indimenticabili, arredò la camera da letto con gli ardenti colori della passione: le lenzuola dell’ampio letto ad una piazza e mezza erano rosse, così come le tende pesanti e i cuscini disseminati sui tappeti orientali. La lampada di sale in un angolo della stanza diffondeva un’accogliente chiarore caldo, e quella sera a completare l’atmosfera avrebbe contribuito qualche cono di raffinato incenso indiano dal carattere particolarmente afrodisiaco. Indecisa se preparare o meno due tazze di cioccolata bollente al peperoncino – specialità suggerita involontariamente da Dralbij, ispirata da alcuni libri che aveva letto –, preparò gli ingredienti a portata di mano in cucina e cominciò pigramente a scegliere i vestiti da indossare per la discoteca.
A casa, intanto, anche Griša stava dando gli ultimi ritocchi al suo personalissimo regalo per Estel. Aveva comprato, mesi addietro, un’enorme tela da pittore, e vi aveva abbozzato sopra a carboncino i ritratti di tutti i componenti della compagnia. Peccato che ci fosse raffigurato anche Lestadt: non aveva più preso in mano il disegno, durante i due infernali mesi di tradimento, ed era troppo tardi per correggerlo. Per bilanciare il calo di stile che comportava il dipingere anche colui che per primo l’aveva rovinato, decise di aggiungere un personaggio: Sissi. Cominciò allora ad abbozzare la figura di una bambina suppergiù di cinque anni, eterea e solenne come la madre, e la completò nel giro di mezz’ora. Dopo gli ultimi ritocchi al carboncino, prese la tavolozza, i colori e un fascio di pennelli e iniziò a dipingere rapidamente, riempiendo ampie zone di tela senza mescolare del tutto i colori che spremeva dai tubetti per accentuare il gioco cromatico. Lavorava in fretta, avendo cura di mantenere la tela sempre esposta al sole d’agosto in modo da far seccare più in fretta la tempera.
Di tanto in tanto chiedeva qualche suggerimento a Dralbij che, avendo frequentato per cinque anni una scuola d’arte, era la persona più indicata. E fu grazie a lui che, dopo una spruzzata di fissante per colori, il maestoso disegno venne ultimato entro sera. Griša, in una sottile vena di vendetta, l’aveva intriso di significati accusatori: Lestadt, ad esempio, era rappresentato di profilo con lo sguardo rivolto verso Estel; e lui, accovacciato a fianco di Dralbij, aveva i capelli leggermente arruffati che gli formavano sulle tempie due ciuffi simili a corna. Tradito! Si sentiva marchiato a fuoco dal quel tradimento, anche se non voleva darlo ad intendere.
Adornato il quadro con un nastro argentato (come la luna), Griša lo sistemò avvolto in carta da giornale sui sedili posteriori della macchina, quindi tornò controvoglia in casa per affrontare l’unica parte spiacevole della situazione: scegliere i vestiti per la nottata. Odiava le discoteche, detestava ballare e soprattutto non sopportava di doversi agghindare come la maggior parte dei ragazzi della sua età. Adorava i jeans logori, le scarpe con le suole consumate e le ampie maglie di parecchie taglie più grandi della sua.
Dralbij, che per tutta la giornata aveva aspettato quel momento, si fregava animatamente le mani. Lui era già pronto: jeans e maglia nera, attillata, di marca. Si era pettinato i morbidi capelli biondi all’indietro, lasciando che solo qualche sottile ricciolo gli sfiorasse la fronte, e aveva chiesto alla vicina di casa di raccogliergli il codino in una treccia. Ignorando lo sguardo martire del fratello, lo costrinse a indossare un paio di jeans nuovi, privi di qualsiasi gratificante sdrucitura, e una sfavillante camicia bianca. Poi, sempre senza dire una parola, gli porse il flacone della lacca. «No, i capelli no!» supplicò Griša «È già abbastanza essere addobbato come un qualsiasi damerino da discoteca!» «Stai benissimo» lo interruppe Dralbij «Farai strage di cuori, stanotte. Chissà che sia la volta buona che lasci perdere Estel, dopo tutto quello che ti ha fatto». Chissà per quanto sarebbe andato avanti a ripeterglielo, ora. «E se dessi una sistemata anche alla criniera che ti ritrovi, potresti fare da fotomodello per qualche calendario!». Si defilò prima che Griša, offeso, riuscisse a colpirlo con un cuscino.
Verso le nove e mezza della sera, i due fratelli uscirono diretti verso il luogo di partenza comune di tutta la compagnia: la casa di Estel. Avevano comprato per lei un bellissimo ciondolo d’oro, che purtroppo teneva Lestadt (era anche lui tra gli invitati, ma solo perché aveva ricevuto l’invito circa un mese addietro), e il quadro giaceva accostato ai sedili posteriori, sotto lo sguardo critico dell’autore. «Le piacerà?».
Furono i primi ad arrivare. Estel, vedendo Griša e indovinando quanto dovesse essergli costato agghindarsi in quel modo, gli elargì un lungo bacio e mormorò seducente: «Sei bellissimo! Posso provare a sistemarti i capelli?». Dralbij cominciò a ridacchiare senza ritegno immaginando già la risposta, ma dovette ricredersi: suo fratello, docile e mansueto, si sedette su uno sgabello in bagno e lasciò che lei gli impastasse i capelli di brillantina, modellandoglieli a sottili, irti ciuffi sparati in tutte le direzioni. Dietro la testa, poi, gli sagomò una sorta di cresta che collegava gli aculei al lungo codino che sembrava accentuare tutta la pettinatura: non c’era nulla da dire, stava veramente molto bene così. Vedendolo comunque piuttosto depresso per quel look a lui alieno, cercò in tutti i modi di lusingarlo: «Se non fossimo già insieme io e te, stanotte farei di tutto per conquistarti!». Schifato, Dralbij si voltò da un’altra parte, ma Griša si concesse un timido sorriso.
Quel tanto che bastava, insomma, per presentare il suo enorme disegno. Estel rimase incantata a guardarlo, e lo prese quasi con reverenza, sussurrando: «Lo farò incorniciare e lo terrò appeso sopra il mio letto: è un capolavoro unico al mondo ed è assolutamente sbalorditivo! Anzi» soggiunse poi, con un sorrisetto allusivo «Credo che il pittore, dopo la discoteca, avrà il giusto compenso!».
In quel momento arrivarono anche gli altri invitati: Lestadt e Moonlight nello stesso momento, seguiti qualche minuto più tardi anche da Frizz, con la quale Griša aveva parlato pochissimo nei mesi vissuti con quella compagnia. Rimediò quella sera, scoprendo che Frizz era un’abilissima suonatrice di fisarmonica. «Nessun gruppo musicale, qui a Pietroburgo, dispone di uno strumento così raro e suggestivo» commentò a bassa voce, in modo che solo Dralbij lo sentisse «Perché non proporle di suonare con noi? Se poi riuscissimo a trovare un chitarrista e un pianista avremmo anche la base per una buona band! Sarebbe il salto di qualità degli Shining Night!».
Poco prima di partire per la discoteca, Frizz era già stata assunta per la prima prova con gli Shining Night.
Erano le undici quando, organizzati in due macchine, i sei amici lasciarono il ritrovo, e ci volle un’ora abbondante di viaggio prima di giungere in vista dell’immensa insegna blu al neon. Tutti esultarono, tranne Griša: non avendo mai messo piede prima in una discoteca non sapeva cosa aspettarsi, ma sarebbe morto piuttosto che ammettere di essere intimorito.
E quella notte non ballò, nonostante le suppliche e le minacce di Dralbij: preferì starsene tranquillo a bordo pista, bighellonando per l’immensa discoteca circondata addirittura da un parco completo di panchine e fontane, ascoltando le canzoni che conosceva e soprattutto contemplando Estel. Era se possibile ancora più bella del solito, la regina della discoteca, che ballava benissimo sotto le luci colorate del palco in fondo alla sala. Anche Dralbij, che aveva come vocazione il ballo insieme al canto, faceva la sua splendida figura, scatenato più che mai, con la fronte lucida di sudore e il volto arrossato.
«Magari un giorno gli chiederò di insegnarmi a ballare come lui» si ripropose. Chi l’avrebbe mai detto che un luogo tanto aborrito potesse arrivare quasi al punto di piacergli? Sorrise divertito: la vita era sempre in grado di riservargli sorprese.
Ad un certo punto Moonlight, stanco di ballare, lasciò la pista e lo raggiunse: passarono il resto del tempo a chiacchierare fino a quando, alle quattro del mattino, la discoteca chiuse.
«Ci vorrà un’ora abbondante per tornare a casa» calcolava Estel «Se trovassimo un bar che apre alle sei, potremmo andare a fare colazione». Tutti erano d’accordo, e salirono sulle due macchine esausti ma felici.
Anzi, troppo felici: forse per la stanchezza, forse per l’ebbrezza di essere tutti insieme, cominciarono a ridere come ubriachi, con le lacrime agli occhi, scompisciandosi senza ritegno anche per le battute più stupide. Lestadt, Estel e Griša, inoltre, conclusero la nottata aggredendo un ignaro passante e brindando col suo sangue, dopo essersi allontanati dagli altri con una scusa per proteggere il loro segreto.
Infine, dopo una colazione a base di cappuccino e brioches, i sei si divisero per tornare alle loro case. Dralbij non si preoccupò nemmeno di interpellare il fratello: gli leggeva negli occhi la deliziosa attesa che Estel gli aveva promesso, e se ne andò scotendo la testa e pensando: «Fino a un paio di settimane fa sembrava che non si sarebbero più rivisti. E sarebbe stato un bene!».
Estel e Griša, nonostante il sonno, trovarono le forze di sfruttare appieno il nuovo arredamento della camera da letto: e fecero l’amore come mai prima, dolcemente, sensualmente, voluttuosamente, prima di cadere addormentati l’una tra le braccia dell’altro, avvolti nel raso delle coperte rosso sangue.
Se prima di quella notte il fantasma di Lestadt giungeva ancora a tormentare gli incubi di Griša, in quello stremato sonno ristoratore svanì completamente: era stata solo una dolorosissima parentesi, che per fortuna si era chiusa. Ora, nessuno più avrebbe potuto dividerli.

Altro passatempo caro alla ricomposta compagnia era recarsi agli spettacoli pirotecnici che accompagnavano la fine delle sagre di paese. Partivano intorno alle dieci della sera, organizzati in due macchine, e bighellonavano tra giostre e banchetti di frittelle e dolciumi.
Sulle prime, Griša era refrattario a quel genere di uscite: non riusciva a togliersi dalla mente il fatto che, alla fine di giugno, il secondo tradimento di Estel con Lestadt si era perpetrato proprio subito dopo i fuochi d’artificio. Trovare Lestadt alle altre sagre lo inquietava sempre, anche se lo vedeva in compagnia di un gruppo di amici; e se per caso Estel, dopo averlo salutato, si soffermava a parlare con lui, si ritirava in disparte con gli occhi carichi di accusatoria consapevolezza: «Tre volte…» ripeteva a se stesso.
Così successe anche quella sera di tardo agosto: la compagnia era al gran completo, perfino la signora Mary si era lasciata convincere a partecipare, nonostante la presenza della tanto odiata Estel. «Perché devo venire a vedere quella disgraziata che rovina il mio povero Grigorij?» aveva tuonato proprio quel pomeriggio, quando Dralbij si era recato a casa sua per invitarla. «Perché tu hai due figli adottivi» le aveva risposto lui, giocando sul ben noto istinto materno e volgendo verso di lei gli occhi blu, ironicamente supplichevoli «Se Grigorij viene con la sua ragazza che tu odi, fai a meno di guardarlo!». Poi aveva aggiunto, piegando meditabondo la testa «Comunque, stasera sarà con noi anche Asso, dato che sembra avere una mezza avventura con un’amica di Estel: dubito che mio fratello riesca ad ignorarlo, nemmeno per amore!». Così la signora Mary aveva accondisceso.
E quella sera si ritrovarono ad essere più numerosi che mai, poiché si erano aggiunti a loro anche altri amici incontrati per le vie del paese. Camminavano tutti insieme, e perfino Estel e Griša non erano in disparte, anche se si tenevano per mano e si perdevano ogni tanto a guardarsi negli occhi incantati. «È proprio preso fino in fondo il nostro Griša» commentava Asso ridendo «Senza alcun risvolto malizioso nelle mie parole, beninteso!».
Verso mezzanotte si diressero tutti verso il prato sul quale avrebbe avuto inizio lo spettacolo. Qualcuno aveva portato delle coperte, che vennero stese a terra in modo da formare un largo tappeto per tutti. Estel, però, non volle subito sedersi: ormai era al sesto mese di gravidanza, e la piccola che portava in grembo era pronta a scalciare non appena lei si sedeva. Griša, allora, si spostò dietro di lei e la abbracciò, in modo da darle almeno un appoggio, subito imitato da Moonlight che, sempre felicemente insieme a Stella, si era appartato dagli altri con lei.
Estel sospirò, appoggiando la testa su una spalla di Griša, e lui le baciò il collo, socchiudendo gli occhi. Aveva giurato a se stesso di non lasciarsi più andare così… ma come impedirlo? Sentiva il profumo dei suoi soffici capelli mossi appena dal vento della sera, le sue mani delicate che guidavano le sue a sentire la piccola vita che li aveva uniti. Poi sentì le loro labbra congiungersi tra le esplosioni multicolori che illuminavano la notte, e il senso della realtà si distrusse come si spegnevano le scintille dei fuochi d’artificio.
Estel rabbrividì stringendosi più forte tra le sue braccia, gli affondò le dita tra i capelli della nuca, più corti degli altri. Era solo distrattamente consapevole del fatto che Lestadt, qualche metro più lontano, li stesse osservando stupito. Le sembrava di sentire i suoi pensieri: «Non era finita tra loro?» «No» gli rispose mentalmente, chiudendo gli occhi per abbandonarsi completamente a Griša «Il nostro era un amore troppo forte perché una cimice come te potesse veramente distruggerlo. L’hai scalfito, è vero, ma contro di noi avevi perso in partenza».
E intanto intorno a loro i fuochi scoppiavano facendo rimbombare l’acqua nera della Neva. Era meraviglioso rimanere lì a baciarsi in quello scenario: si poteva avere ancora l’illusione dell’eternità. Griša le accarezzò timidamente i capelli, senza riuscire a sostenere il suo sguardo, e sussurrò: «Non mi lascerai mai più, vero?». Non sapeva che risposta aspettarsi, ne era consapevole, e la cosa lo turbava molto. «Tu sei tutta la mia vita, e se dovessi perderti ancora… non so se riuscirei ad andare avanti. Ho rischiato di perderti quando, a marzo, sembrava che tu dovessi andartene per sempre. Ti ho persa per quel bastardo di Lestadt. E adesso che tra noi sembra essere rinato tutto, so di non essere in grado di affrontare un altro dolore». Una cascata di scintille d’oro piovve su di loro. Estel gli sorrise, rassicurante: «Mai e poi mai» disse semplicemente, sfiorandogli il viso intimorito con una carezza.
«Niente promesse che poi non si sanno mantenere» avrebbe detto Dralbij «Se proprio dovete pensare a sciocchezze come l’amore, almeno fatelo con un minimo di decenza!». E Asso gli avrebbe risposto, magari già pensando a come trasformare le sue parole nei versi di una canzone: «L’amore è sempre la più bella delle avventure. Non possiamo sapere come andrà a finire, solo sperarlo, ma dobbiamo sempre crederci fino in fondo per dedicare il meglio a colei che si ama».
L’Anti-Amore ormai non faceva più per Griša. La ragione insisteva nel dirgli che le teorie di Dralbij erano l’unico modo per non soffrire ancora, e lo sapeva. Ma così avrebbe perso quei giorni indimenticabili, quei pomeriggi d’amore che trionfava su tutto; avrebbe lasciato inaridire la sua vena creativa, che lo portava sempre più spesso a scrivere canzoni e racconti molto belli… e avrebbe finito per perdere la sua capacità innata di sognare ad occhi aperti.
Dralbij si era rassegnato, chiudendo l’ultimo discorso con un teatrale: «Scegli tu la strada che preferisci; io ti ho dato il mio consiglio, e tu stesso hai dovuto ammettere che raramente, in questo genere di cose, ho sbagliato. Vada come deve andare!». E Griša aveva lasciato tutto da parte per dedicarsi esclusivamente a Estel, facendo di lei il cuore di tutta la sua esistenza.
Quella sera, dopo i fuochi di mezzanotte, la compagnia si sciolse con qualche problema: erano più numerosi di quando erano partiti, e qualcuno rischiava di rimanere appiedato. Estel, per esempio, che abitava piuttosto fuori mano per i tragitti che i guidatori dovevano compiere. Fu Asso a salvare la situazione, offrendole con scherzosa galanteria: «Le serve un passaggio, leggiadra signora?». Aveva detto apposta “signora” per non irritare Griša, ma non aveva fatto i conti con la diffidenza paranoica dell’amico, che subito si girò verso di lui con un’espressione tragica e disperata. «Anche tu!» gli si leggeva negli occhi scuri allibiti «Devo annoverare anche te ora tra gli amanti di Estel?».
Si stupì lui stesso di quel pensiero, e scoprì con orrore l’amara verità, all’improvviso, dopo una serata così bella. No, non si fidava di Estel, per il momento non sarebbe riuscito a credere alla sua fedeltà. Se era stata capace di tradirlo non una ma tre volte, e perdipiù con un suo amico e in casa sua… come poteva fidarsi di lei? E che dire di Asso: erano davvero bastati due mesi di tradimenti per abbattere cinque anni di incrollabile amicizia?
La tristezza prese il sopravvento su di lui, che salì docilmente in macchina senza dire una parola. Dralbij, insospettito, si mise al volante e chiese: «Non vuoi nemmeno fermarti a salutare tua morosa?» «Ho da fare a casa» mentì laconicamente, ma per accontentarlo gridò, rivolto agli amici che ancora sostavano sul prato: «Buonanotte, ragazzi!».
Asso cercò di fermarlo, ma si era accorto troppo tardi della sua partenza per essere udito. «Passerò da lui appena avrò portato a casa Estel» decise, aprendo la macchina. Era preoccupato: sapeva del paio di corna che Griša si era trovato in testa, certo. Ma come aveva potuto Griša sospettare di lui? Si sentiva in parte deluso, in parte sorpreso: sì, doveva assolutamente parlargli.

Guidò come un folle, con i grandi occhi chiari fissi sulla strada. Estel, ammutolita, si limitava a indicargli la strada: non l’aveva mai visto così teso e preferiva evitare di distrarlo per non rischiare un incidente. Asso pigiava l’acceleratore a tavoletta, e il vento che entrava dal finestrino abbassato era così violento da scompigliargli i capelli scuri, che portava tagliati molto corti.
Si fermò davanti a casa di Estel e la salutò distrattamente, con la mente già rivolta a Via dei Fiori Bianchi: «Buonanotte anche a te. Ora scusami, non posso fermarmi a chiacchierare, devo andare da Griša» le rispose, e attese per educazione che lei entrasse in casa prima di sgommare via in una nuvola di polvere.
Come prevedeva, Griša era perfettamente sveglio: c’erano tutte le luci della casa accese, segno che i due fratelli dovevano essere intenti a prepararsi per andare a letto. Parcheggiò frettolosamente e suonò il campanello, col cuore stretto dall’angoscia: cosa mai poteva aver pensato il suo migliore amico?
Dralbij fece per invitarlo a salire, ma lui lo fermò: «Non ho molto tempo prima che i miei genitori a casa inizino a chiedersi dove sono sparito. Puoi dire a tuo fratello che scenda cinque minuti, per favore?».
Un attimo dopo Griša era già sulla porta, ancora vestito, con la testa bassa e i capelli che gli nascondevano gli occhi: brutto segno. Asso gli si fece incontro allegramente, ma già da subito cambiò atteggiamento: non era il caso di fare tanto lo spiritoso. «Ho fatto presto» esordì con un sorriso «Penso che tu abbia bisogno di un amico con cui parlare. Come quando, anni fa, ti sei trovato nei guai con Bettina. Io sono qui, e lo sai che per te ci sarò sempre». Griša non si lasciò sfiorare dalle sue parole: almeno questo dall’Anti-Amore gli era rimasto. «Una sveltina piuttosto rapida, devo dire» ringhiò, senza scoprirsi gli occhi «Complimenti a tutti e due». Non c’era alcun sentimento nella sua voce, soltanto l’ombra della delusione.
Asso si sistemò gli occhiali sul naso e si sedette accanto a lui, sul primo gradino del portone. «Grigorij Ivanovic Delacroix» disse, in tono che non ammette repliche «Credi davvero che proprio io, colui che ti è stato accanto per così tanti anni, possa giocarti un tiro così meschino? Non me l’aspettavo da te. Ho offerto un passaggio a Estel proprio perché tu ti sentissi tranquillo: cos’avresti fatto se l’avesse accompagnata Lestadt in motorino? In fin dei conti, abitano nella stessa strada, e lui deve per forza passare davanti a casa sua per tornare a casa. Mi dispiace, amico mio, della situazione che si è creata: non oso immaginare come devi sentirti, per aver sospettato di me. Ora: ti posso dire la mia opinione da amico, come sempre abbiamo fatto?». Griša annuì, già conoscendo il seguito del discorso, e ciò che gli disse Asso fu il riassunto di ciò che lui stesso pensava: «La tua storia con Estel è un disastro. Credi davvero di poter definire “amore” un rapporto che si basa sulla sfiducia e sulla certezza che lei ti possa tradire ancora, appena le capiterà l’occasione? Non metto in dubbio il fatto che tu la ami: se così non fosse, non saresti mai stato in grado di tornare insieme a lei. Il problema è: se è la tua ragazza, devi dimenticare tutte le incertezze e andare avanti come se Lestadt non fosse mai esistito. Oppure avere il coraggio di lasciarla. Non puoi vivere una situazione intermedia che ti porta a dubitare dell’unica persona che – questo te lo posso giurare – mai e poi mai cadrebbe così in basso». Mai e poi mai. Le stesse parole che Estel gli aveva detto per tranquillizzarlo. Era un segno?
Griša finalmente alzò la testa, incrociando lo sguardo sincero del suo migliore amico. «Hai ragione» mormorò «Dovrei vergognarmi per aver pensato che tu… il punto è questo: ripensandoci, mi rendo conto di aver solo sospettato che tu potessi cedere. Da quanto ho saputo, è stata Estel ad avviare le faccende con Lestadt: credevo che, stasera, avrebbe fatto lo stesso con te. Non mi fido di lei, devo confessarlo. Nonostante tutto il mio amore, ancora non mi sono ripreso dal trauma del tradimento. Chissà quanti anni mi ci vorranno per dimenticare, e forse non ci riuscirò mai del tutto».
I due amici si abbracciarono. Ormai avevano ancora poche settimane per stare assieme: poi, l’università li avrebbe inesorabilmente divisi. Asso infatti sarebbe andato molto lontano da Pietroburgo, a differenza di Griša che già si era iscritto all’università più vicina. Archeologia subacquea il primo, Lettere e Filosofia il secondo. Almeno l’impronta classicista l’avevano mantenuta entrambi.
«Ti ho portato un regalo» disse improvvisamente Asso, riacquistando la sua consueta espressione sardonica e furbesca «Ti ricordi agli albori dei Mad Moons, quando ti ho prestato la mia prima chitarra, quella bianca e nera? Ne ho comprate delle altre nel giro di un anno: ti piacerebbe averla?». Griša strabuzzò gli occhi, incredulo: «La tua storica chitarra?» balbettò, con gli occhi lucidi dall’emozione.
Si avvicinò alla macchina e prese quasi con reverenza la sottile custodia nera che Asso gli porgeva: era in assoluto il dono più bello che avesse mai ricevuto in tutta la sua vita. «Grazie!» gridò nella notte.
Quando Asso ripartì, scomparendo dietro la curva, dovette asciugarsi gli occhi: era commosso o già pensava a quando lui e quel suo grande amico non si sarebbero più visti? Ancora fermo sotto casa, Griša rimuginava la stessa cosa.

Settembre, ultimo mese di vacanza prima dell’inizio dell’anno accademico, si consumò in un tripudio di foglie nel vento che celebrarono la fine dell’estate. Griša aveva finito di scrivere il suo Artigli di Realtà – Brandelli di Illusione, e l’aveva subito consegnato a Estel in modo che fosse lei la prima in assoluto a leggerlo, così come per prima aveva letto Fraternity. Rivivere nelle eloquenti parole di Griša i lunghi mesi in cui l’aveva tradito con Lestadt fu un’impresa ardua, ma la superò. Tra quelle pagine ritrovava se stessa, e così come in alcuni punti aveva riso allegramente, rivedendo scene vissute, versò anche qualche lacrima sui capitoli più tristi. Non c’era niente da dire: Griša aveva un grande talento come scrittore, e il fatto che ne fosse consapevole lo portava a dare il meglio di sé per trovare le frasi più incisive.
A ottobre cominciò anche per lui l’università: si trattava di un mondo completamente nuovo, per uno abituato al liceo, e il primo giorno di scuola riuscì a perdere la corriera per tornare a casa. Nessuno, infatti, gli aveva detto che la fermata di discesa non era la stessa in cui passava la corriera del ritorno: sentendosi un perfetto imbecille, si era trascinato alla fermata giusta sperando che nessuno l’avesse visto.
Conobbe fin da subito qualche compagno di corso, e ovviamente legò con coloro che – si capivano tra simili – erano come lui. Il suo primo amico fu Diego, un vampiro puro che si proteggeva dal sole con spessi occhiali scuri e utilizzando i lunghi capelli lisci e nerissimi come una tenda per nascondersi il volto. Era sempre vestito di nero, con pantaloni di pelle e anfibi, e amava indossare magliette recanti immagini inquietanti di morte su scenari gotici (cosa che Griša e Dralbij adoravano). Era uno studioso di magia nera, ma a differenza dei due fratelli aveva approfondito le sue conoscenze nella direzione del satanismo.
Diego, paradossalmente, fece amicizia con una giovane suora che frequentava il loro stesso corso, e non era raro durante la pausa per il pranzo vederli seduti insieme nel grande giardino della facoltà, chiacchierando e mangiando.
Al trio si aggiunsero ben presto due ragazze, elfi puri dai grandi occhi verdi, e un giovane silenzioso che si presentò come uno dei migliori amici di Diego. Aveva i capelli ricciuti e il viso coperto da una fitta barba ispida. Gli occhi erano grigi, e si incupivano verso sera. «Non sembra un vampiro» commentò Griša un pomeriggio, mentre con Diego aspettava l’inizio della lezione serale, incubo che li costringeva a rincasare dopo le otto. Lui sulle prime aveva esitato a rivelarlo – sapeva bene che Griša era, grazie alla sua unione con Estel, il Signore dei Vampiri –, ma alla fine aveva spiegato: «Maximilian, alias Max, è un mio carissimo amico da almeno un paio di secoli. Ha solo un piccolo problema: non sopporta le notti di luna piena, perché… vedi, è un licantropo». Griša aveva fatto tanto d’occhi: quel collega col quale spesso divideva il pranzo era dunque un suo nemico di sangue? Assurdo, si era detto, e senza più porsi il problema aveva continuato lo studio come se niente fosse accaduto.
Max e Diego divennero nel corso di quella prima settimana due ottimi compagni per Griša: conoscevano perfettamente la città, e si offrirono di fargli da ciceroni per insegnargli dove si trovassero i posti più importanti come bar, biblioteche, cartolerie e cinema. Scovarono una piccola fumetteria nella quale si tenevano tornei di giochi di carte, gli stessi giochi di ruolo che Griša e Lestadt si erano tanto divertiti a fare “prima”. E poi, naturalmente, c’erano le confidenze: nelle lunghe ore di pausa tra una lezione e l’altra (il lunedì, ad esempio, che li vedeva liberi da mezzogiorno alle cinque), i tre amici se non erano troppo impegnati a bazzicare per le strade si sdraiavano al sole del giardino e parlavano di sé e delle loro avventure. Il racconto di Griša su come era diventato un elfo-vampiro ebbe un notevole effetto sui due amici, che più di ogni altra cosa però apprezzavano il sentir parlare della sua tormentata ma in fondo bellissima storia con Estel. Era un piacere vedere come Griša, quando parlava di lei – molto spesso –, si illuminava al solo pensiero: e dopo il fine settimana trascorso ciascuno a casa sua, i racconti del lunedì mattina erano attesissimi.
Finché, un lunedì, Griša arrivò a scuola teso e nervoso, con gli occhi cerchiati, e faticò molto a seguire il professore di letteratura. Max e Diego, al termine della lezione, vollero subito sapere cosa mai gli fosse successo, e lui mormorò in risposta: «Vorrei saperlo anch’io». Ci vollero giorni di tormento prima di riuscire a cavargli di bocca una preoccupata rivelazione: «Estel ha scoperto un nuovo locale, fuori dal centro di Pietroburgo, perso nei meandri delle campagne. Number One, mi sembra che si chiami. Un pub completo di karaoke, nel quale lei e la nostra amica Frizz vanno molto spesso. A quanto ho capito hanno fatto amicizia con il dj, e si divertono a cantare insieme ad un altro ragazzo che trascorre molte serate lì dentro. Sono un po’ impensierito, lo ammetto: chi mi dà la certezza che… il passato non ritorni?» «L’amore» rispose Max, convinto «Credo che se Estel, dopo averti tradito, è tornata insieme a te… non ripeterebbe mai l’errore. Diavolo, ormai manca circa un mese alla nascita di vostra figlia, siete già una famiglia!» «Lascia a me il diavolo» lo redarguì Diego, poi tornò a rivolgersi a Griša: «È vero. Probabilmente si tratta solo di un amico, non dovresti essere sempre così sospettoso! Perché non vai con lei in questo Number One, una sera? Così potrai dare un’occhiata alla situazione e, in caso, tenere a bada questo ragazzo misterioso».
Griša annuì, ma si vedeva che non era convinto: mai prima di allora aveva visto negli occhi di Estel uno sguardo così felice come quando gli aveva raccontato del Number One e del karaoke. Chiunque, al suo posto, si sarebbe preoccupato… anche se non fosse mai stato tradito. Si ripromise di seguire il consiglio di Diego, sempre che Estel non cercasse di impedirglielo. Doveva sfoderare tutte le sue arti di giocatore d’azzardo per confezionare un bluff impossibile da scoprire. E doveva partire a digiuno, per essere più rapido a sgozzare il nuovo amico di Estel e Frizz se solo avesse osato suscitare in lui anche solo un minimo sospetto. Ora che sapeva cosa aspettarsi da Estel, era costretto a raddoppiare la guardia.
Il resto della settimana trascorse senza eccessivi problemi, tra lezioni e pacchi di fotocopie dei libri da studiare per gli esami di gennaio e febbraio. «Purché non fissino un esame proprio il 3 di febbraio» borbottava Griša ogni volta che un professore annunciava l’imminente dettatura delle date «Sapete, vorrei festeggiare il primo anno insieme alla mia ragazza senza l’angoscia di avere o non aver passato qualche esame».
Se solo avesse potuto sapere che ormai i giorni insieme a Estel che gli rimanevano si potevano contare sulla punta delle dita! Come già a giugno era successo, aveva avuto qualche presentimento, ma l’aveva scacciato rabbiosamente mentendo a se stesso fino a riuscire ad ingannarsi: «È solo paranoia, sto diventando maniaco!».
Aveva sempre avuto il brutto vizio di volersi illudere fino in fondo: Estel, però, sarebbe stata l’ultima in grado di spingerlo a tanto.

E la catastrofe arrivò, puntuale, verso la fine di ottobre, quando Griša con l’aria più noncurante possibile attese che Estel e Frizz si mettessero d’accordo per recarsi al Number One, e disse: «Mi piacerebbe vederlo, questo locale. Ho proprio voglia di cantare su qualche base!».
Estel e Frizz si lanciarono uno sguardo magniloquente, poi Estel si sedette con lui sul divano e spiegò, come se gli stesse raccontando la cosa più insignificante del mondo: «C’è un altro nella mia vita. Non è ancora successo niente tra di noi, ma ci sono parecchi segnali che mi lasciano supporre di interessargli. Si chiama Andrej, e al Number One è una specie di re: tutti lo conoscono, è forse il più bravo cantante del karaoke, e ultimamente viene ogni volta a salutarci. Ho scoperto da poco che ha già la ragazza: si chiama Lea e lavora lì come cameriera… ma forse ho qualche possibilità ugualmente. Non ti sto lasciando, e forse tutto questo è solo una mia impressione esaltata, ma per onestà è giusto che tu lo sappia» «Onestà» gemette Griša, esasperato, in un vano tentativo di fare del sarcasmo «Dove ho già sentito questa parola?».
Di nuovo nella stessa situazione. Solo che Lestadt, in fondo, non era pericoloso, essendo solo un bambino. Andrej no: doveva avere la loro età, se non essere addirittura più grande. Contro di lui, già lo sentiva, non avrebbe avuto la minima speranza. Sentì la disperazione gocciolargli nel cuore, simile alle lacrime che gli avevano inondato le guance. Non stava singhiozzando: semplicemente non riusciva a impedire che rivoli di acqua salata gli scorressero sul viso. E nemmeno se ne rendeva conto.
L’aveva sempre saputo, se l’aspettava da un momento all’altro: dentro di sé, anche nei momenti più felici aveva sempre avuto a livello inconscio quella premonizione. Era come se un passo felpato l’avesse seguito fin da quando, allontanato Lestadt, lui ed Estel erano tornati insieme: ora quel passo invisibile l’aveva raggiunto, appollaiandoglisi su una spalla come un avvoltoio, e non l’avrebbe più abbandonato.
«Ho capito» disse con voce ferma, asciugandosi gli occhi. Sì, aveva capito: i suoi giorni con Estel erano ormai giunti al tramonto, se non addirittura al crepuscolo. Peccato che poi, oltre il tramonto, la notte sarebbe stata eterna e mai l’alba l’avrebbe seguita.
Frizz osservava la scena sconvolta: come aveva potuto quella sua amica che ricordava tanto dolce e sincera comportarsi così? Era stata onesta a dire la verità a Griša, ma era stata orribilmente diretta. Le parve di rivedere le scene di quegli ultimi mesi: Estel e Griša, insieme, che passeggiavano abbracciati con tutta la compagnia intorno, gli occhi scintillanti d’amore e un sorriso incantato che li illuminava. Erano stati felici, questo sì. Ma ora bisognava svegliarsi dal bel sogno: ancora una volta la Realtà sovrana aveva vinto la sua battaglia.
Frastornato dagli avvenimenti, Griša non aveva nemmeno la forza di reagire: forse, se avesse urlato disperato o si fosse comportato come una belva scatenata, avrebbe salvato qualcosa. Ma non riusciva a fare niente, già consapevole fino in fondo della sua sconfitta.
Salì in macchina senza dire una parola, accovacciandosi sui sedili posteriori, e non aprì bocca per tutta la durata del viaggio. Anche se non se ne rendeva conto, stava cercando di memorizzare la strada per il Number One, mentre la gelida idea di un assassinio gli balenava nelle tenebre della mente distrutta. «Sto impazzendo» si ripeteva. E di nuovo quei sentimenti: l’inquietudine, la delusione, la paura.
Venti minuti dopo, Frizz si fermò davanti ad una porta di legno con i vetri opachi, davanti alla quale un gruppo di ragazzi chiacchierava: dunque era quella l’entrata dell’inferno. Griša ricordò la notte in cui, a pochi giorni dall’esame di maturità, aveva ripassato l’Inferno di Dante Alighieri per letteratura italiana: e quasi si aspettò di vedere scolpiti i primi versi del terzo canto sopra la porta del Number One. Subito un’ilarità incontenibile lo afferrò, e lui cominciò a ridacchiare in silenzio, senza accorgersi che quel ghigno nella luce giallognola di due lanterne che incorniciavano la porta sembrava già il preludio di una dannazione. Si nascose dietro il bavero della giacca, pur non avendone ormai alcun bisogno: aveva imparato a trasformarsi a comando in un vampiro dai denti acuminati, come gli aveva insegnato Estel, anche se ancora non riusciva ad arrivare al punto di diventare un pipistrello o una temibile creatura dai luminosi occhi azzurro magnetico.
Appena entrati nel locale semibuio, subito vennero accolti da cenni da parte di tutti i clienti: ormai Estel e Frizz erano di casa, lì. Griša si sentì spaesato e abbassò lo sguardo, passando davanti ai grandi specchi appesi alle pareti di legno senza osare guardarsi intorno. Seguiva le sue due accompagnatrici, e le vide dirigersi a colpo sicuro verso il tavolino che doveva essere ormai il loro posto consolidato.
Una cameriera dai lunghi capelli ricci li raggiunse subito per prendere le ordinazioni; e Griša, osservando l’espressione furibonda di Estel, indovinò a colpo sicuro di aver appena visto Lea. «Chissà dov’è il fantomatico Andrej» si chiese, saettando lo sguardo intorno. I suoi occhi si fermarono alla consolle del dj, posta su una sorta di piccolo palco recintato da una balaustra di legno in stile western. C’era un enorme mixer, e lui non poté impedirsi di pensare con un sorriso triste ad una strana scena che lì per lì gli parve una reale allucinazione: gli Shining Night intenti ad esibirsi lì sopra.
Un ragazzo si avvicinò al dj, prese il foglio che questi gli porgeva e scrisse qualcosa; qualche minuto dopo tornò alla consolle, prese un microfono senza fili (ciò che Dralbij sognava, notò Griša) e cominciò a cantare, scatenandosi in un brano molto famoso. Cantava benissimo, e ci metteva tutta l’anima. Griša lo osservò: aveva tutta l’aria di chi ama la musica. E chissà se suonava qualche strumento? Un chitarrista in più, meglio ancora se un pianista, sarebbe stato una manna per gli Shining Night.
Il giovane intanto continuava a cantare con passione, tenendo gli occhi chiusi dietro un paio di occhiali dalla spessa montatura rossa. Poi, a brano finito, restituì il microfono, si ravviò i corti capelli castani e rivolse a Estel e Frizz un cenno di saluto.
Griša rimase di sasso. Lentamente lanciò un’occhiata a Estel e la vide avvampare, aggrappandosi concitata ad un braccio dell’amica. Le brillavano gli occhi. Si voltò di nuovo con un’espressione feroce verso il ragazzo che aveva osato tanto… e lo vide appoggiato ad una parete, intento a baciare appassionatamente una ragazza riccia. Lea.
«Andrej!» Quel ringhio violento gli uscì dalla gola, lacerandolo dal di dentro. Estel gli prese una mano, ma lui non la sentì nemmeno. Alzandosi di scatto marciò fino alla consolle, afferrò una penna e il blocco che serviva a prenotare le basi del karaoke e scrisse il titolo di una complicata canzone che lui e Dralbij avevano imparato a due voci dopo decine di tentativi. Vide con una sorta di maligna soddisfazione che Andrej, quintessenza del suo odio, spalancò gli occhi nel leggerne il titolo. Tra parentesi scrisse il nome con cui si voleva presentare: Blacky, ossia il diminutivo del cognome che aveva usato negli anni trascorsi in Inghilterra: Blackbury. John Blackbury: il ragazzo di Bettina per anni.
«Sei impazzito?» sibilò Estel, quando lo vide tornare al tavolo «Lo sapevo che non avrei mai dovuto portarti qui! Ora mi farai sfigurare!». Quello era troppo: Griša era consapevole di essere un cantante piuttosto bravo, e detestava (forse in un eccesso di vanagloria) chiunque osasse parlargli così. Qualunque cosa, ma la musica e i suoi racconti no. Guai a chi li toccava! Non le rispose e si accomodò sulla sedia in attesa del suo turno, lanciando sguardi di sottecchi verso Andrej: voleva essere sicuro di riconoscerlo, nel caso l’avesse rivisto. Già pregustava il momento in cui gli avrebbe tolto la vita, dilaniandogli la gola.
Quando finalmente vide comparire sullo schermo del karaoke il testo della canzone che aveva scelto, si avvicinò alla consolle e deglutì. Era maledettamente agitato, senza la voce solista di Dralbij: un minimo errore avrebbe potuto compromettere l’intera esibizione, e la tensione giocava brutti scherzi. Oh, se solo Estel gli avesse rivolto un cenno di incoraggiamento! La guardò senza speranza: come previsto, i suoi bellissimi occhi azzurri erano rivolti adoranti verso Andrej che, seduto ad un altro tavolino, aspettava curioso la prossima canzone. Fu Frizz, invece, a indirizzargli un ampio sorriso, sillabando: «Vai, Blacky! Fagli vedere chi sei!».
E così Griša cominciò a cantare quella dolce, famosa canzone nel silenzio che improvvisamente si era creato all’interno del Number One. Tutti volevano sentire come quello straniero se la sarebbe cavata. Usò una voce pensosa e malinconica, che tremò appena nella prima strofa, per poi farsi sempre più sicura. Teneva gli occhi chiusi, senza bisogno di seguire il testo, sicché non si accorse che le ultime due strofe non rispettavano lo schema originale del brano. Il panico lo prese, e un pensiero imperativo gli riempì la mente: «Sei un artista di strada per natura. Improvvisazione!». Si rivide per un attimo come era stato dieci anni addietro: un bambino senza casa, seduto su un ormeggio al molo di Liverpool dietro una chitarra più grande di lui, intento a scrivere le sue prime canzoni improvvisando sulle corde non con tecnica, ma con passione. E fu la passione a salvarlo in extremis: finì la sua esibizione gloriosamente, al punto che parecchi applaudirono. Andrej compreso.
«Si sente che l’inglese è la tua lingua madre» commentò Frizz, non appena lui si fu seduto al suo posto con un profondo sospiro «Qui dentro nessuno canta mai in lingua straniera, solo in russo». Con un sogghigno soddisfatto, Griša buttò giù d’un fiato il resto del bicchiere di vodka che aveva preso. Riflesso nello specchio vide Andrej che ancora lo guardava, e bisbigliò: «Ti ho battuto, bastardo».
Anche così, con una bolla di dolore che gli si gonfiava nel cuore, riuscì a sorridere vittorioso. Specialmente quando Estel (probabilmente nel tentativo – inutile – di fare ingelosire Andrej) si appoggiò a lui e lo baciò.
Quella bolla era in procinto di scoppiare, se ne rendeva conto. Chissà cosa sarebbe successo e fosse esplosa.

Anche ottobre si trascinò avanti in qualche modo. Griša continuava ad andare a casa di Estel, e il più delle volte passavano il pomeriggio abbracciati sul divano a baciarsi e a parlare della loro figlia. «Sissi conoscerà mai suo padre?» era l’interrogativo più pressante, e la risposta non era mai favorevole.
La situazione degenerava, in una lunghissima agonia che sembrava non dover mai finire. Griša sapeva benissimo, quando Estel lo baciava con tanta passione, a chi lei stesse pensando: non si sarebbe stupito se, per un lapsus, avesse iniziato a chiamarlo Andrej.
Il 31 ottobre, giorno di Halloween, al Number One si teneva una serata in maschera. Streghe, folletti e vampiri, lupi e altri mostri bazzicavano per le strade, ma ben pochi di loro appartenevano davvero a quel mondo. Quella sera, della compagnia rimanevano solo Dralbij, in un incredibilmente verosimile abito da prete; Griša, avvolto in un mantello nero fermato da una catena da cui pendeva un grosso teschio d’oro; Estel e Frizz, che avevano trovato due stranissimi costumi che sembravano sommare parecchi personaggi in uno solo.
Al Number One, quando arrivarono, si resero conto che l’unico ad indossare qualcosa per Halloween era il dj. Estel e Frizz si guardarono l’un l’altra sgomente: «Che figuraccia!» ripetevano. Dralbij, invece, non faceva che rimirarsi allo specchio, e quando un gruppo di avventori gli si avvicinò incuriosito, lui rivolse loro un ironico: «Pace e bene», che fece scoppiare a ridere tutti quelli che l’avevano udito. Griša, silenzioso nel suo angolo, rivolgeva al locale occhiate di sfida: i canini gli spuntavano agli angoli della bocca, baluginanti nella penombra giallognola, e lui sperava che Andrej gli chiedesse come avesse fatto ad ottenere un effetto così credibile. «Avvicinati che te lo dimostro», gli avrebbe risposto un istante prima di ucciderlo. E dicesse pure Estel quello che più le piaceva: lui non si sarebbe fermato che da morto.
Andrej si avvicinò al quartetto, vestito normalmente con un paio di jeans e una maglia a righe. «Scrivete subito le basi che volete cantare» suggerì «Stasera c’è parecchia gente». Griša ingoiò a fatica il desiderio di sventrarlo, me tutto quell’odio represso non fece che ingigantire la bolla che dentro di lui diventava sempre più grande.
«Fratellone?» chiamò, rauco. Dralbij, che naturalmente era al corrente di tutta la situazione ma che altrettanto ovviamente si era astenuto dal commentare, fu subito pronto: «Vuoi che cantiamo qualcosa insieme, io e te, per farlo sfigurare? Sono pronto. Il nostro cavallo di battaglia, vero?». Griša si avvicinò alla consolle, scoprendo i canini in un sogghigno crudele, ma si accorse che il blocco su cui annotare i titoli era in mano ad Andrej, che leggeva attentamente quanto vi era scritto. «Me lo passi, per favore?» ringhiò, facendo uno sforzo incontenibile per restare calmo. Andrej ubbidì subito, e gli porse anche la penna che teneva in mano.
Nell’istante in cui le loro dita si sfiorarono, però, si tirò indietro di scatto esclamando: «Ho preso la scossa!». Griša non gli rispose nemmeno, scrisse il titolo e tornò a sedersi, trionfante: i suoi poteri paranormali dovevano essere alle stelle, quella sera, per essere riuscito a fargli del male solo toccandogli per errore una mano. Oh, se solo gli fosse capitato a tiro a sufficiente distanza da Estel!
I due fratelli cantarono dando il meglio delle loro capacità, e di nuovo il Number One divenne un locale silenzioso e carico di attesa. Le due voci, alchimia perfetta, erano diventate una sola. Griša, a metà brano, lanciò uno sguardo di sufficienza ad Andrej, pensando: «Allora, galletto, chi è il migliore qui dentro?».
Un minuto dopo, tra gli applausi, Andrej gli rivolse un cenno e lo lodò: «Bravissimo!».
Estel sgranò gli occhi, mentre Dralbij e Frizz non riuscirono più a trattenersi e cominciarono a ridere fino ad avere gli occhi pieni di lacrime. «No!» balbettava Griša, con le pupille strette dalla rabbia «Volevo demolirlo… e lui mi fa anche i complimenti? No! No! No!». Si sentiva un fallito.
Deluso e amareggiato appoggiò la testa sul tavolo, incurante del fatto che Estel gli stesse accarezzando dolcemente i capelli, lisciandogli il codino che gli risaltava arricciato sul mantello di raso nero ereditato dal fratello. «Non è possibile» continuava a ripetere «Mi chiedo se quel tizio sia un idiota a non capire o troppo furbo per darlo a vedere».
«Avrai altre occasioni» cercò di consolarlo Dralbij, sebbene la situazione fosse davvero comica «Perché non provi ad imparare qualcuna delle canzoni che di solito sceglie lui? La sua voce è monocromatica, la tua invece sa spaziare dalle più dolci ballate agli esplosivi brani di rock!». Rincuorato, Griša annuì. Ma sapeva di aver giocato una delle sue ultime carte. E di avere perso.
Trascorse il resto della serata seduto al tavolino, giocherellando distrattamente con il lumino che era stato posto in mezzo al tavolo. Aveva perso interesse per quel locale, e aveva perso anche tutte le speranze che aveva di salvare la situazione. Ora, l’unica cosa da fare era aspettare.
Aspettare che Estel lo lasciasse definitivamente, e che quella parentesi lunga nove mesi finisse per sempre.
Ormai non doveva mancare più molto tempo.

E il momento arrivò, inaspettato ma non troppo, il 3 novembre di quel terribile indimenticabile 1976.
«Nove mesi insieme» pensò Griša alzandosi quel mattino, facendo piano per non svegliare Dralbij che ancora dormiva. Si preparò la colazione in fretta per non rischiare di perdere la corriera, e pensò a cosa dire a Estel nel caso l’avesse sentita. «La chiamerò oggi pomeriggio, dopo la scuola, se non altro per farle gli auguri» concluse poi «Sempre che mi risponda. È da un paio di giorni che non ci sentiamo».
Trascorse così tutta la mattinata a scuola, ascoltando diligente le lezioni e chiacchierando nella pause con Max e Diego. Entrambi erano al corrente della spinosissima situazione che si era creata, e come lui attendevano, senza poter fare altro, che qualcosa giungesse a togliere tutto da quell’irreale sospensione.
Al pomeriggio, Griša era ormai tesissimo. Aveva il presentimento sempre più marcato che fosse infine arrivata l’ultima pagina della loro storia. Sollevò la cornetta del telefono con un colpo deciso e tremante e compose il numero che sapeva a memoria.
Estel sembrava di ottimo umore, tanto da indurlo a proporre, azzardando più che mai: «Posso venirti a trovare oggi?». Sempre senza abbandonare il tono leggero e solare, lei rispose: «Fino a Mosca?».
Era peggio di quanto si fosse aspettato, e capì subito come stavano le cose, prima ancora che il fatto si compiesse del tutto. «Alla fine ti sei trasferita» commentò con la voce piatta, e non credette a nulla di ciò che lei ribatté: «Non ci penso nemmeno! Vedi, sono qui a casa di mia sorella, ma tornerò lunedì pomeriggio. Non ho intenzione di venire ad abitare a Mosca, non preoccuparti». Griša non avrebbe mai più creduto ad una sola delle sue parole. Eccetto un addio. E sentiva che non mancava poi molto.
Estel sarebbe stata in grado di uccidere Lea tanto quanto lui avrebbe potuto sgozzare Andrej: c’era solo da vedere chi sarebbe stato il primo ad agire. In ogni caso, la loro avventura era al traguardo.
Dopo un momento di pausa, un silenzio che concentrava tutti i più tristi suoni del mondo, Estel annunciò, gaia: «Ho incominciato anch’io a scrivere racconti». Perché in una potenziale bella notizia tutto suonava così falso? «La vera storia della mia vita» continuava lei, imperterrita «Io, Estel, alias Selene Dumond, che dopo una lunga, secolare vita di buio e sofferenze incontro l’amore: Matthew».
Matthew? Che novità era mai quella? Griša non riuscì ad impedire che un raggio di speranza si insinuasse nel suo animo distrutto. Se Andrej era già dimenticato, allora forse… «Ti devo delle spiegazioni» disse Estel, senza mai scomporsi «Ad aprile ho conosciuto un amico di Moonlight, Matthew. Sapendo di non avere possibilità con lui e aiutata dal tuo genuino amore non ho più pensato a lui, fino a quando qualche giorno fa l’ho rivisto e ci siamo rimessi in contatto. Andrej gli assomiglia moltissimo, fisicamente, e io ne sono rimasta abbagliata. L’amore della mia vita era, è e sempre sarà Matthew» «Ti sei innamorata di un riflesso!» esclamò lui, esterrefatto. Ogni singola parola che aveva udito negli ultimi cinque minuti era stata una pugnalata, ma non era ancora arrivato il colpo di grazia. Oh, ora sì che capiva tutto! Nove mesi passati ad essere il fantoccio di uno sconosciuto, il tappabuchi di turno! E lui, l’idiota, l’imbecille, il cretino, il deficiente che aveva accettato di sacrificare se stesso – la sua vita! – per avere l’eternità da trascorrere con Estel.
Ora non gli rimaneva davvero più niente. Qualcosa di gelido gli inondò il cuore: le fiamme dell’amore che ancora vi divampavano si congelarono in quegli attimi cristallizzati come diamanti nella roccia nera delle miniere. Poi di tutto quello che aveva provato per lei non rimase che un misero mucchio di cenere tiepida: era finita, non sentiva più niente.
«C’è un’altra cosa» stava dicendo Estel, stavolta quasi esitante «Io e te… io non sopporto più tutta questa storia di essere o non essere insieme. Troppe scenate di gelosia: mi sentivo incatenata da te e dai sentimenti che per te, lo ammetto, ho provato. Ho cercato di imbrogliarti, all’epoca di Lestadt, ma non ci sono riuscita. Tu avresti svelato comunque tutto con la sfera di cristallo o con i tarocchi di Dralbij; ma ti ho sempre voluto bene al punto di non essere in grado di farlo. Credevo che, ferendoti e superando i successivi sensi di colpa, avrei saputo lasciarti andare, ma mi sbagliavo. Ora, però, è davvero finita. Sabato sera io e Matt andremo insieme in discoteca, e lì comincerò a vedere quanto posso combinare. I nostri comuni amici stanno complottando con me per aiutarmi».
Griša sobbalzò: ecco, era giunto il momento. La bolla che gli pesava dentro tremava, ormai sul punto di esplodere. Cercò affannosamente di resistere, di non lasciarsi andare, anche se gli occhi gli si chiudevano e sentiva calare paurosamente la sua lucidità mentale. Aveva un gran sonno. «Grazie di avermelo detto» si costrinse a dire, squarciandosi il palmo di una mano con una forbice per restare sveglio «E soprattutto, grazie per i bellissimi momenti che mi hai regalato in questi nove mesi: non li dimenticherò mai, e ricorderò sempre colei che sei stata quando, quasi un anno fa, ti ho conosciuta. Io ti amo, Estel, e non smetterò mai di amarti. Sei stata per me l’amore più grande di tutta la mia vita, la migliore amica dei momenti peggiori, la sorella maggiore di quelli in cui avevo bisogno di un consiglio. Mi mancherai. Eravamo consapevoli, vero, del fatto che tutto stesse finendo? Lo sapevamo da mesi. Anche quando, tra le lenzuola aggrovigliate ci abbracciavamo esausti e felici dopo aver fatto l’amore… già allora lo spettro della fine ci guardava nel suo perverso voyeurismo tra le ombre della camera da letto. È stato a giugno l’inizio della fine: e dunque la nostra felicità – ma era poi davvero anche la tua? – è durata solo quattro mesi? No, mi rifiuto! Voglio credere in nove mesi di paradiso, per quanto doloroso potrà essere. Cercherò di dimenticarti, ma non riuscirò ad impedirmi di cercarti. Mi anestetizzerò con tutte le avventure che riuscirò a trovare, e ogni volta mi troverò più deluso, più debole, più rassegnato. Un fallito. Ti scriverò centinaia di lettere che poi mai avrò il coraggio di spedirti. Da un giorno all’altro Estel, o meglio colei che conoscevo io sotto questo nome, ha iniziato ad allontanarsi. Dov’è scomparsa la mia amata? Dove sono finite le nostre dolci parole – false peraltro – che non siamo stati in grado di mantenere? All’improvviso ho perso tutto, con la differenza che stavolta ci avevo creduto sul serio. Grazie anche per avermi insegnato a non fidarmi delle persone e a non credere nell’amore, mai più. Dralbij ha sempre avuto ragione su tutto. Vorrei soltanto averlo ascoltato prima. Prima di illudermi e prima di farti sprecare nove mesi della tua vita infinita, Lady Vampira, Oscura Signora, Sovrana della Luna. Addio, amore mio. E grazie di avermi fatto conoscere colei che eri in realtà, oltre gli altisonanti titoli di Regina».
Estel non seppe cosa rispondere, o forse semplicemente già non pensava più a lui. Nella sua eternità aveva un nuovo capitolo davanti, un nuova famiglia, un nuovo amore. Una nuova vita. «Sono come la fenice…» iniziò. Poi non volle dire altro. «Ciao, Grigorij» concluse, chiudendo la comunicazione. Non lo udì mai mormorare: «Buona fortuna per tutto, soprattutto per quando nascerà nostra figlia. Salutala per me… e, quando sarà il momento, ti prego, mandami almeno una sua foto…».

Novembre fu un mese durissimo per Griša: seppe solo per sentito dire che la piccola Elisabeth era nata il 9 novembre, a mezzanotte. Estel non si fece sentire, né mai rispose alle sue lettere sempre più rare e rassegnate. Su tutti i giornali comparve in prima pagina la notizia di uno stranissimo avvenimento atmosferico: il sole aveva perso gran parte della sua lucentezza per circa un’ora, e la luna era sorta con sette ore di anticipo, posizionandosi a fianco dell’astro fratello. Griša l’aveva capito subito col cuore del padre che era diventato in quell’ora.
Dralbij e la signora Mary gli stettero molto vicini in quelle atroci settimane. Lo costringevano a mangiare quando digiunava per troppo tempo, gli stavano accanto quando aveva bisogno di piangere e ruggire il suo dolore e cercavano di non lasciarlo mai solo per timore di ciò che avrebbe potuto fare con quello sguardo perso in se stesso e nel suo dolore. Moonlight e Frizz, anche loro sconvolti dal repentino cambiamento di Estel, cercavano di suscitare in lui qualcosa di diverso dall’amore disperato che lo uccideva. «Diceva di tenere a noi, di volerci bene» dicevano «Ed è stata pronta ad abbandonarci così».
Ma fu Lestadt ad ottenere da Griša una reazione, anche se fu qualcosa di spaventoso che atterrì e agghiacciò tutta la compagnia. «Estel ha passato tutti i ragazzi di Pietroburgo» affermò tranquillo «Non è altro che una puttana!». Compiaciuta, la signora Mary aggiunse: «Il che è esattamente ciò che abbiamo sempre detto noi!».
Griša alzò di scatto gli occhi, le cui pupille si erano pericolosamente ristrette mascherate dall’iride scura. Scoprì i canini, trasformati in zanne aguzze, e d’un colpo gli occhi castani furono attraversati da un lampo folle. Poi si fecero azzurrissimi, luminosi, glaciali come diventavano quelli di Estel, della Regina dei Vampiri. «Lei non è una puttana!» latrò, scaraventando a terra con un colpo tutti i libri di testo che invadevano il tavolo a cui lui e Dralbij stavano studiando. I denti e gli occhi erano tutto un baluginare elettrico: nessuno avrebbe osato avvicinarsi a lui in quel momento, nemmeno Lestadt, che era l’unico vampiro presente.
Con un ringhio disumano, Griša spalancò la porta e fuggì nella notte: solo con un abbondante pasto a base di sangue avrebbe potuto calmarsi. Era lui stesso spaventato, sconvolto, scioccato: era riuscito a trasformarsi in un vero vampiro, senza che Estel gliel’avesse mai insegnato.
Quella fu una notte pazza, di corse nell’autunno russo sotto una fittissima nevicata, di urla strozzate, di schizzi di sangue contro i muri dei vicoli. Una notte di morte.
Quando, all’alba, Griša fece ritorno a casa, stramazzò sul divano del salotto e cadde in un profondo sonno senza sogni, agitato. Nel delirio chiamava: «Estel!», come se ancora lei potesse tornare.
Come distrarsi, ora? Tutto gridava il ricordo di lei, la sua vita era in funzione del passato. La compagnia lo temeva, lo vedeva come un pericoloso assassino. Solo Lestadt ebbe l’intuizione: era destinato ad essere il successore di Estel a Pietroburgo, ma per il momento nessun altro sembrava averlo capito. E lui tacque.
Finalmente, verso la fine di novembre, Griša ebbe un’idea. Aveva lanciato incantesimi terribili su Andrej, e chissà quanti già erano andati a segno. Quel povero ragazzo non aveva alcuna colpa, anzi, era sempre stato affabile con tutti loro: il minimo che lui poteva fare era rivolgergli almeno un gesto gentile che avrebbe potuto fornirgli una protezione contro le maledizioni.
In quei giorni l’ex 5^A Classico si stava organizzando per una grande rimpatriata di classe, ma era ancora da stabilire come sarebbe stato il programma della serata dopo una pizza in compagnia. E Griša decise cos’avrebbe proposto a tutti gli ex compagni: il Number One.
Solo tornando lì poteva sperare di distrarsi. E parlare con Andrej sarebbe stata una sorta di piccola vendetta nei confronti di Estel.
Qualche giorno più tardi cominciò il giro delle telefonate: la pizza di ex classe si sarebbe tenuta quel venerdì sera, il 24 novembre. E la serata del venerdì era la serata degli habitué del Number One.

Quando l’ex 5^A del classico si riunì davanti ai cancelli chiusi della scuola, cadeva una leggerissima pioggerellina ghiacciata. C’erano proprio tutti: quindici ragazzi, con in più un loro compagno che aveva cambiato scuola in terza. E naturalmente non poteva mancare la sorella gemella di Morgana: la famigerata Bettina era lì, di fronte a Griša, dopo anni di guerra e distanza.
Si salutarono nervosamente, studiandosi a vicenda: se Bettina era completamente agghindata da terribile e sensuale dark lady come a suo tempo aveva saputo essere Estel, anche Griša non era da meno. Pallido e ancora distrutto dall’essere stato lasciato, con il lungo mantello nero gonfiato dal vento che non riusciva a scompigliargli i capelli pietrificati in sottili ciuffi irti come aculei, e il ciondolo che Estel gli aveva prestato (già, chissà quando mai gliel’avrebbe restituito?) che gli pendeva sul petto. Erano cambiati, tutti e due: e se l’amore era diventato odio, i ricordi di un’estate felice vissuta insieme erano ora come spine arroventate. Dai loro occhi fissi in profondità si sprigionava un gelo pauroso che rendeva l’atmosfera crepitante di tensione.
Furono Asso e gli altri ragazzi della classe a obiettare: «Dopo cinque anni di galera, possibile che non ci siano altri posti che il portone della scuola per chiacchierare? Avanti: cerchiamo un bar. Qualche proposta?».
Fu istintivo, per Griša, distogliere l’attenzione dagli occhi d’inchiostro di Bettina e proporre, come in trance: «Perché non il Number One? È un pub non molto distante da qui, con il karaoke e…» «C’è alcol?» lo interruppe Kazami, e al suo entusiastico «Ci mancherebbe!» concluse: «Aggiudicato. Sali in macchina con noi e facci strada: sai come arrivarci, vero?». Lui fece mente locale: certo, gli sembrava di saperci arrivare anche da solo… ma non poteva non pensare che tutte le altre volte che ci era andato era stato con Estel. A contemplare lei, più che la strada. Così soggiunse, a mezza voce: «Saprei indicarvi la strada con un dieci per cento di margine d’errore, ora come ora; ma se ci avviamo, penso di riuscire a riconoscere tutte le svolte e le rotonde». La 5^A decise all’unanimità di recarsi al Number One, posto che tutti conoscevano solo per nome.
Accovacciato sui sedili posteriori della macchina come era sua abitudine, Griša dettava: «Alla rotonda dopo il distributore di benzina svoltate a destra e andate dritti fino a quando vi vedrete davanti un bivio. C’è il cartello che indica di girare a sinistra seguendo la strada principale, e da lì dovrei riuscire a trovarlo ad occhio». Di tanto in tanto qualcuno, in macchina, gli chiedeva se stesse andando nella direzione giusta, e lui invariabilmente si guardava intorno e rispondeva, sorridendo ma con il pianto nella voce: «Sicuro. Mi ricordo questa strada». Oh, se se la ricordava! Era proprio lì che, una tiepida sera d’estate, mentre la macchina di Moonlight sfrecciava tra le case, che aveva baciato Estel mormorando: «Se dovessi perderti non so cosa farei». E lei gli aveva risposto: «Tu non mi perderai mai, perché anche se morissi rinascerei mille volte per riuscire a ritrovarti». Ora lo sapeva: non era più vero. E conosceva anche la risposta alla domanda che si era posto per mesi bui e senza fiducia: persa Estel, sarebbe tornato comunque al Number One, anche senza di lei. Era destino: troppi ricordi in quel posto, ricordi che non era ancora disposto a lasciarsi scappare.
Nel buio della notte gli sfuggì un sorriso amaro: era venerdì sera, e sicuramente avrebbe visto Andrej. Peccato che ormai l’astio che provava nei suoi confronti fosse svanito in una mite rassegnazione. Nell’abitacolo della macchina risentiva ancora le parole stupite che aveva pronunciato riassumendo incredulo quanto Estel gli aveva detto poco prima di partire per Mosca: «Vuoi dire che tutto il tuo presunto amore sconfinato per Andrej era solo un riflesso del più grande amore della tua vita? Dicevi di provare chissà che cosa per lui solo perché assomiglia fisicamente a Matthew?». Assurdo. E lui aveva sprecato maledizioni su un ragazzo che non c’entrava assolutamente niente, a rischio che gli si ritorcesse tutto contro! Sentì la rabbia montargli dentro, avvolta però dal solito dolore pulsante. «Imparerò ad odiarti, amore mio» recitò mentalmente. Chissà se Estel l’avrebbe sentito, magari in sogno.
«John!» la voce di Bettina lo fece sobbalzare sul sedile «Ti vuoi decidere a rispondere? Abbiamo girato a sinistra al bivio: ora dove dobbiamo andare?» «Dritti fino alla prossima rotonda, e poi girare a sinistra per andare a parcheggiare le macchine» balbettò Griša, tornando bruscamente in sé.
Dunque c’era riuscito: era arrivato al Number One completamente da solo, riconoscendo le strade guidato dalla forza del ricordo. Ma c’era qualcosa di stonato: la 5^A… loro non appartenevano a quel mondo. Si sarebbe sentito più a suo agio da solo con gli habitué del locale, piuttosto che con gli ex compagni. E soprattutto con Bettina. Il Number One era il regno di Estel… ma, forse, la novità avrebbe potuto aiutarlo a dimenticare. Forse.
Il gruppo di ragazzi si fermò sul ciglio della strada per non lasciare indietro nessuno. Asso si avvicinò all’amico e sussurrò, tirandolo in disparte: «Sei ancora in tempo per tirarti indietro. Nessuno sa dov’è questo pub, puoi fingere che sia chiuso. Andiamo da qualche altra parte. So quanto dev’essere arduo per te, e mi sembra che tu stia esagerando con la tua guerra contro il passato: non minimizzare il fatto che i ricordi che vuoi seppellire sono innumerevoli, e tu sei solo e indebolito dal dolore che combatte al loro fianco» «Voglio entrare qui dentro» ringhiò Griša, fissando con determinazione la porta di legno e le piccole lanterne gialle che illuminavano l’entrata «E lo farò a costo di spaccarmi il cuore». Quindi aggiunse, con una falsa baldanza: «Ci siamo tutti? Bene: la porta è quella laggiù, di legno e vetro opaco». Qualcuno commentò: «Non l’avrei vista nemmeno passandoci davanti mille volte. Su, allora: ci hai guidati fin qui, e spetta a te l’onore di entrare per primo».
Asso gli si avvicinò, ma tacque. E Griša, ignorando i ricordi che lo assalivano ferocemente, chiuse le dita intorno alla fredda maniglia di ottone, ma non riuscì a tirarla. Per un attimo alzò lo sguardo al cielo, abbagliato dalle lanterne gialle, e notò per la prima volta che la piastrella del numero civico, 37, era appesa capovolta. Grato a quella fugace distrazione, aprì la porta e si lasciò investire dalla zaffata calda di quell’odore familiare. Odore di casa, gli parve. Di notte, di passato, di un amore fallito miseramente. Cristo, come faceva male.
E com’era strano varcare quella soglia di legno senza Estel e gli altri! Era combattuto tra due sensazioni opposte: la familiarità che ormai gli dava il Number One e il disorientamento di vedere i suoi ex compagni intorno a lui. In quel momento un gruppo di avventori abituali lo salutò con un cenno, riconoscendolo: prevalse l’intimità del luogo.
«Dove ci sediamo?» domandò Terry «Johnnie, quali sono i posti migliori?». Griša deglutì, guardandosi intorno. Sedersi al “loro” tavolo sarebbe stato troppo, ma… c’era la tavolata nella nicchia in fondo, vicino alla consolle del karaoke. Ed era libera. «Laggiù» sospirò, incamminandosi. Si sedette deliberatamente in modo da voltare le spalle all’intero locale: così, ammise tristemente a se stesso, se Estel fosse capitata lì a sorpresa…
Una mano furtiva scivolò a stringere la sua, facendolo quasi urlare dalla sorpresa. Si voltò, con gli occhi che scintillavano di speranza… e si trovò tra le braccia di Bettina. Dunque non aveva tardato molto a scoprire quanto stesse male, e aveva deciso di colpirlo. Peccato che non avesse considerato l’entità della sua disperazione: insensibile a tutto, Griša si tirò indietro e sibilò, spietato: «Vattene, maledetta!». Liberò le dita e si appoggiò al tavolo, sperando che nella penombra del Number One non si vedesse che gli occhi gli si erano nuovamente riempiti di lacrime. Bettina si ritirò, con lo strascico di un ghigno soddisfatto sulle labbra accarezzate dal rossetto nero.
Qualcuno, al karaoke, stava cantando un’appassionata canzone d’amore: accidenti. Griša sospirò, e partecipò distrattamente al brindisi collettivo. Che madornale errore aveva fatto a proporre il Number One! Avrebbe dovuto saperlo quanto sarebbe stato difficile sopportare il peso che lo schiacciava da giorni, potenziato da quell’atmosfera evocatrice. E Bettina, altro fantasma di amori perduti, peggiorava ulteriormente le cose.
«Dio mio, Estel» sussurrò Griša, coprendosi gli occhi con le mani «Perché?». Aveva davvero creduto di poterne venire fuori da solo? Aveva bisogno di qualcuno accanto che lo sostenesse: da solo non era più in grado di andare avanti, e giunge per tutti il momento di chiedere aiuto. Il suo orgoglio di ragazzo di strada l’avrebbe frenato, ma non per molto ancora. Ingoiando l’ennesimo nodo in gola riaprì gli occhi e guardò, uno per uno, i suoi compagni di cinque anni di scuola. Un debole sorriso gli illuminò il volto teso: almeno per una sera, una sola sera, decise di provare a non pensare a Estel.
La pareti di legno rossiccio del Number One erano coperte, in quell’area, da ampi specchi trafitti da piccole lampade gialle come le lanterne dell’ingresso. E, nel riflesso scuro di uno specchio, Griša intravide Andrej, appena arrivato, che prima ancora di togliersi la giacca di pelle nera si era fermato alla consolle per chiedere le basi da cantare.
«No!» gemette, girandosi verso di lui «Non lui e non ora!». Subito, però, si ricordò dell’ultima coltellata: era Matthew la scintilla che aveva incendiato il pagliaio. Per un istante quasi provò simpatia per Andrej: gli aveva scagliato certe maledizioni impressionanti, per niente! E magari qualcuna si era anche avverata! Avrebbe potuto trasferirle su Matthew, certo: ma non ne aveva più la forza. Prima si era sentito tradito – e lo era anche stato, purtroppo –, ma ora era tutto diverso. «Estel ti ha lasciato» gli ricordò, gioiosa, la voce insolente della memoria «E può scegliere chi vuole senza più tradirti. Non che prima si sia fatta problemi di fedeltà, comunque».
«Devo cantare qualcosa» decise, all’improvviso. Barcollando pur non essendo ubriaco si trascinò alla consolle, e il dj gli sorrise: «Chi si vede!» esclamò affabilmente. Andrej alzò la testa dal foglio su cui stava ancora elencando le basi che preferiva, e si affrettò a porgergli la penna, chiedendo: «Mi canteresti la canzone che hai fatto la volta scorsa? Mi è davvero piaciuta!». Era un boss, lì dentro, conosciuto da tutti e da tutti benvisto. «A dire il vero sono un po’ rauco per quella canzone» si giustificò Griša, ma la scrisse: con una vodka o due in più era sicuro di riuscirci.
Quando fu il suo turno, Andrej prese i due microfoni e gliene porse uno, ammiccando: «Se sei un po’ senza voce ti darò una mano a cantare, se non ti dispiace. In fin de conti, questa canzone è a due voci». Griša strabuzzò gli occhi: era consapevole di essere avvampato dall’ira. Quello era troppo! Ma stette zitto e annuì, sforzandosi di apparire calmo. Ah, se Estel avesse potuto vederlo in quel momento!
La base partì. I due contarono diligentemente l’arpeggio iniziale, e dopo una rapida occhiata di intesa iniziarono il brano nello stesso istante, come se per tutta la vita non avessero fatto altro che cantare insieme al Number One. Le loro voci si fondevano perfettamente, tanto che tutti i clienti del pub smisero di chiacchierare per starli a sentire. Con gioia maligna, Griša notò che l’assoluta alchimia vocale che sapeva raggiungere con Dralbij era mille miglia lontana da quella pur ottima esibizione. Non stava tradendo gli Shining Night: era solo un perverso gioco del destino.
Gli applausi scrosciarono su di loro prima che le ultime note svanissero nella luce fioca. Andrej e Griša, nemici involontari senza saperlo, si scambiarono un incredulo ghigno. Chissà cos’era passato tra loro in quei minuti sospesi oltre la realtà. Perfino Bettina, eternamente intenta a tendere trappole, era rimasta allibita. Se Griša era stato capace di cantare così insieme ad una persona che in fondo non sopportava, doveva essere straordinario insieme a Dralbij. Le sarebbe piaciuto sentirli, dovette ammettere.
E anche Griša stava confessandosi con se stesso: dopo un’incombente esitazione, porse il microfono ad Andrej e accettò l’evidenza: «Canti bene» gli disse «Questa canzone ti è riuscita benissimo».
Scacciare il pensiero di Estel era impossibile, ma ora lo stava vedendo sotto una luce cattiva, più crudele: se davvero una sera si fossero ritrovati al Number One, casualmente, e l’avesse scoperto a duettare allegramente con Andrej! Sogghignò, lucido e cosciente: la disperazione lo azzannava più debolmente, ora.
Anzi, era quasi euforico; e quando si rese conto di come stava procedendo la serata, si convinse completamente che fosse tutto uno stranissimo sogno. Com’era possibile ritrovarsi seduto al tavolino con il suo ex peggior nemico, ridendo e chiacchierando davanti ad una vodka? E a parlare di musica, perdipiù! Andrej era stato un chitarrista, prima di dedicarsi esclusivamente al canto: e gli Shining Night avrebbero avuto bisogno di un chitarrista, in modo che Dralbij potesse concentrare il suo talento sulla voce. La proposta venne alla luce in modo assolutamente indolore, come se entrambi se lo fossero sempre aspettato.
A mezzanotte, quando Griša lasciò il Number One, era già sabato: mancavano solo tre giorni ad una data importantissima per gli Shining Night. Il martedì successivo, infatti, Andrej si sarebbe recato in Via dei Fiori Bianchi con la sua vecchia chitarra per una sorta di audizione.

Dralbij non fu entusiasta della cosa. «Non lo voglio quel tipo» dichiarò subito «L’hai sentito bene cantare? Non ha timbro, è perfettamente anonimo. E se se la cava così anche con la chitarra?» «Lasciamolo provare» obiettò Griša, corrucciato «Se ha fatto qualche lezione, posso carpire da lui la tecnica che mi è sempre mancata. Dimmi che ci sarai, martedì sera! Non te ne andare!». E Dralbij, anche se a malincuore, promise: «Va bene, come preferisci, se è per farti un favore. Se questo ti può aiutare a non pensare a Estel, proviamo anche a prendere Andrej nel gruppo. Mi chiedo però come tu faccia a non pensare a lei, sapendo che l’inizio della fine è partito proprio da questo ragazzo col quale di punto in bianco hai fatto amicizia».
Il giorno stabilito, Andrej arrivò in ritardo, e subito si giustificò: «Sono tornato alle otto dal lavoro! Dovrò pur mangiare e concedermi una doccia, no?». Nonostante il freddo pungente, indossava solo un maglione e un gilet imbottito senza maniche, ed era in bicicletta. «Non devi abitare molto lontano da qui» osservò Griša, ma in realtà il suo pensiero era un altro: perché Andrej non aveva la chitarra con sé? «Vivo appena al di là del ponte sulla Neva» stava dicendo il nuovo arrivato, accendendosi una sigaretta con aria pacifica «Allora: volete farmi sentire queste vostre canzoni?».
Dralbij intervenne in tono tagliente: «Purtroppo dopo una certa ora a casa nostra non si può fare rumore. Anche se siamo all’ultimo piano, disturberemmo la gente che abita sotto di noi. Prendo la macchina e andiamo al parco pubblico» «Al parco?» Griša non capiva la reazione del fratello «Moriremo di freddo! Voi due potete tenere le mani in tasca, ma io devo suonare: congelerò!». Andrej alzò gli occhi scuri al cielo carico di neve e commentò: «Dovremmo essere intorno allo zero, fa piuttosto caldo per essere fine novembre. Andiamo pure».
Salirono in macchina, con la tensione che si faceva sempre più pesante. Andrej e Griša chiacchieravano a bassa voce, ma Dralbij non apriva bocca e guidava rabbiosamente, prendendo le curve quasi su due ruote. Pessimo segno.
Il parco era buio e gelido. I tre si sedettero su una panchina: Andrej e Griša uno di fronte all’altro, e Dralbij piuttosto che stare in mezzo a loro si alzò in piedi, ordinando in tono secco: «La danza dei giorni, Inverni lontani, Stelle sotto il mare, Non lasciarmi e Ultime rotaie».
Ubbidiente, Griša iniziò a suonare, lanciandosi nei soliti duetti. Andrej li ascoltava serio, soffiando nuvole di fumo nella notte e raddrizzandosi di tanto in tanto gli occhiali. Guardava attentamente la chitarra che aveva davanti, e sembrava non considerare per nulla il gioco delle due voci. Alla fine dell’esibizione giudicò: «È molto bello come ad un certo punto la voce di Grigorij diventa solista, e la musica è davvero ben fatta. Tu, Dralbij, non suoni niente?». Al suo cenno di diniego, riprese: «Allora non hai un ruolo particolarmente rilevante all’interno del gruppo. Perché non ti iscrivi a qualche corso ad esempio di pianoforte? Un gruppo per essere tale ha bisogno di voci, un paio di chitarre, una tastiera e soprattutto una batteria. Inoltre, non vi consiglio di presentarvi solo con le vostre canzoni: buttatevi sulla musica tradizionale, quella che tutti conoscono».
Griša tremò: aveva visto gli occhi di Dralbij colmarsi di rancore. Andrej non sarebbe mai entrato a far parte degli Shining Night. Come aveva potuto parlare così, con quel tono saccente? Forse non ne aveva avuto l’intenzione, poteva essere il suo modo di fare: in fondo non lo conoscevano che per nome.
In quel momento un cane randagio color miele attraversò il parco e si soffermò a guardarli distratto, come chi non ha più nulla da perdere. «Almeno non potremo dire che alla nostra esibizione non c’era neanche un cane» scherzò, cercando di sdrammatizzare. Dralbij chiuse il quaderno con i testi delle loro tanto amate canzoni e si incamminò verso la macchina. «Devo andare a casa, io, domattina ho la sveglia alle cinque per prendere il treno delle sei. Ho delle faccende da sbrigare a scuola. Voi due, se non avete sonno, potete benissimo tornare a piedi o andare a farvi un giro per Pietroburgo». Detto questo, con una voce asciutta e sferzante, salì in macchina e partì impennando.
«Nervosetto, mio fratello» mormorò Griša, imbarazzato «Che dici? Andiamo a fare una passeggiata in centro o torniamo a casa anche noi? Non abbiamo nemmeno una macchina per andare fino al Number One. Tu che macchina hai?». Andrej assunse un’espressione di falsa modestia, rispondendo: «Ho comprato da poco un’Alef Juliet 651, grigia». Si trattava di una della più care auto in commercio, dal design sportivo e aggressivo, ed era la preferita di Estel «Se avessi saputo che sarebbe andata così, avrei potuto venire fin qui con lei» «Lei chi?» esclamò improvvisamente Griša, perso nel ricordo di Estel. Involontariamente era scattato sulle difensive: patetico. Andrej lo guardò perplesso, prima di specificare: «Con la mia splendida Alef, che diamine. Cosa pensavi, che mi portassi la ragazza per sentire il gruppo col quale forse suonerò? Comunque: è inutile stare qui a prendere freddo, ci conviene trovare un bar aperto qui vicino e prendere qualcosa di caldo. Non farti problemi: offro io!».
Si incamminarono insieme verso il centro, Griša e Andrej, i due amori riflessi – o i due burattini – della stessa persona. Chiacchieravano fitto, parlando delle loro vite: mentre il primo era per natura portato alla vita di strada, il secondo era sempre stato un teppista di prima categoria. Raccontò parecchi aneddoti della sua vita scolastica (come quando, sbattendo la porta dopo essere stato cacciato fuori dal professore, l’aveva completamente scardinata; o quando invece di restare in corridoio in castigo scendeva al bar del pianterreno) o le sue avventure di ogni giorno (ad esempio la breve vita di un suo telefonino, perso due ore dopo averlo comprato, o l’indistruttibilità del suo primo cellulare che aveva aggiustato più e più volte con nastro adesivo e silicone, sopravissuto a mirabolanti vicissitudini). Era spiritoso e amichevole, quasi familiare in certi momenti.
Era quindi impossibile, davanti a due fumanti tazze di tè, scivolare nelle confidenze; ma a Griša ci vollero, dopo il tè, tre bicchieri di rum prima di cominciare a raccontare quasi senza accorgersene la sua lunga, dolceamara storia con Estel. Parlava in fretta, con lo sguardo fisso sul ghiaccio del bicchiere, incredulo: proprio lui, in tutta la sua storica diffidenza, si stava svelando a colui che fino a un mese prima era il fulcro del suo odio omicida.
«Dunque se n’è andata ad abitare lontano senza preavviso, senza parlarne con nessuno e senza farsi troppi problemi nei confronti degli amici che lasciava» concluse Andrej, pensieroso. Sarebbe morto, se Lea avesse fatto qualcosa di simile. «Avete provato a parlarle, a convincerla a tornare?». Griša assentì mestamente, tracciando con un dito il contorno del bicchiere: «Certo. Le abbiamo telefonato, ma ha sempre fatto in modo che sua sorella ci dicesse che lei non era in casa. Le ho scritto almeno una mezza dozzina di lettere, e lei mi ha risposto una sola volta… per raccontarmi di come ormai tra lei e Matthew si stia creando qualcosa. Qui però la faccenda cambia: Moonlight, che conosce Matthew da parecchi anni ormai, dice che lui per Estel non prova nulla di diverso dalla semplice amicizia. Nessuno qui a Pietroburgo ne sa niente, e le scarse notizie che ci arrivano non sono mai del tutto attendibili». Si fermò un istante per finire il suo terzo rum, prima di riprendere, riflettendo ad alta voce: «È strano come una storia d’amore possa sembrare incrollabile, e poi finire così. Quando tra noi è incominciato tutto, credevamo davvero che sarebbe durata chissà quanto; e invece, già da aprile le cose avevano iniziato a mettersi male: da quando Estel ha incontrato Matthew. Io però voglio ricordare quei nove mesi con tutti i loro momenti memorabili, voglio potermi ritenere un padre… e dedicare a colei che non c’è più – è come se fosse morta per me – l’ultimo libro che sto scrivendo: Beyond the Sunset. Forse un giorno lo leggerà».
Per tutta la durata della sua solitaria meditazione, Andrej era rimasto in silenzio, osservando la cenere della sigaretta che aumentava sopra il bagliore delle braci per poi cadere nel posacenere di vetro poggiato tra loro due, al centro del tavolo. Ogni tanto indugiava distrattamente a ravviarsi i corti capelli pettinati con il gel, o giocherellava assorto con gli occhiali che gli scivolavano sul naso. Si vedeva che stava tramando qualcosa. «Vorrei poter fare qualcosa per aiutarti» disse infatti con un sospiro. Non riusciva a togliersi dalla mente il pensiero di Lea: se se ne fosse andata… «In fondo, forse sono stato proprio io, involontariamente, a dare l’avvio a tutto. Dici che secondo Estel assomiglio a Matthew, e che per questo si era invaghita di me. Un atteggiamento del genere è insulso, ma non voglio indagare: probabilmente avrà avuto le sue buone ragioni. L’amore, a volte, fa fare cose che non si farebbero mai altrimenti. Mi sentirei in debito con te, tuttavia, se non provassi almeno a rimediare. Quando vi vedevo al Number One abbracciati o per mano o… beh, forse è meglio se non ti riporto alla mente certe notti… insomma, quando vi vedevo assieme, mi ricordavate l’inizio della mia storia con Lea, proprio su quegli stessi tavolini. Se solo avessi saputo! Ora ascoltami: dubito che tuo fratello approverà la proposta che sto per farti, quindi la decisione spetta esclusivamente a te in questo momento». Griša, che ancora una volta solo sentendo pronunciare il nome di Estel si era perso nelle sue reminiscenze, si fece improvvisamente lucido e attento. I suoi occhi scuri brillarono quando quel suo nuovo amico, ex nemico, propose: «Tra due settimane, all’8 di dicembre, sarò a casa dal lavoro per le feste. Passerò a prenderti all’alba di quel venerdì, in macchina, e in un modo o nell’altro riusciremo ad arrivare a Mosca e trovare la casa in cui Estel ora abita. Se qualcosa ancora si può fare… noi non dobbiamo arrenderci!».
Forse fu quel “noi” ad abbattere definitivamente il rancore nell’animo di Griša, che sorpreso alzò gli occhi ad incrociare quelli di colui che si offriva di compiere un viaggio così lungo. Dralbij si sarebbe arrabbiato a morte, però, e se gliel’avesse tenuto nascosto l’avrebbe scoperto con i tarocchi. Cosa anche peggiore. Oltretutto, ad essere onesto, non provava più l’enorme desiderio di rivedere Estel. Si era rassegnato, e difficilmente sulle sue labbra sarebbe tornato il sorriso speciale che riservava solo all’amore: se lei ora aveva in mente solo ed esclusivamente Matthew – in effetti riusciva a parlare di lui e di nessun altro, ossessivamente e perdutamente innamorata come mai era stata in vita sua –, perché continuare a torturarsi? Aveva degli amici, ora, e la nuova formazione degli Shining Night a cui pensare. Stava iniziando lentamente a superare il trauma: la vita continuava lo stesso, anche se più a fatica, e con secoli e secoli davanti era sicuro di poter dimenticare. Non voleva altro. «Sei un amico» rispose infine «Ma credo di non essere pronto a rivederla. Già ho recintato questi ultimi nove mesi in un angolo sicuro dal quale non riusciranno a fuggire. Chissà quanto mi ci vorrà per riavermi da questa disavventura! Per il momento preferisco lasciarla stare: per lei non significo più niente, se mai un tempo ho significato qualcosa per lei, e sarebbe inutile tornare da lei per sentirla cantare le lodi di Matthew. Adesso ho bisogno di me, soltanto di me e di pochi fidati amici. Vuoi assolutamente fare qualcosa quel giorno? Troviamoci al Number One e cantiamo!».
Andrej si arrese: «Questo lo faremo sicuramente!» dichiarò, stringendogli la mano destra come per suggellare un patto invisibile. Non aveva mai sentito, dall’alto dei suoi ventiquattro anni, nessun diciannovenne parlare con tanta coraggiosa rassegnazione: da quel momento cominciò a considerarlo un vero amico. Come avevano fatto, abitando da anni nella stessa città, a non essersi incontrati prima?

Dralbij era più arrabbiato di quel che pensava Griša. Impossibile parlargli di Andrej o nominare anche solo alla lontana il fatto che lui potesse unirsi al gruppo. «Non tocco la chitarra da qualche anno» aveva confessato, quando si erano salutati «Potresti darmi tu qualche lezione!», e lui aveva accettato senza esitazioni. Il problema ora era: come dirlo al fratello?
Scelse la stradia più breve: parlargli direttamente. E lo fece quel pomeriggio, a pranzo, lanciandosi in una complicatissima orazione in difesa di Andrej. Dralbij lo lasciò finire, mentre i suoi lineamenti si indurivano sempre di più e gli occhi gli si facevano simili a due affilati diamanti blu. «Ha detto che non valgo niente» ringhiò, pestando un pugno sul tavolo «Dopo mesi di carriera come duetto doveva arrivare un qualsiasi anonimo a rovinare tutto? Se anche si fosse unito a noi, sarebbe stato solo un’aggiunta: gli Shining Night siamo io e te!» «Ma abbiamo bisogno di un secondo chitarrista!» sbottò Griša, innervosendosi a sua volta, al che Dralbij sibilò in tono gelido: «Abbiamo bisogno di altri strumenti, non dei consigli di un megalomane pieno di sé che si crede tanto bravo solo perché è un leader all’interno del Number One!».
Stava per esplodere un litigio della peggior specie… e stavolta non c’era Estel a cercare di farli riappacificare. Griša si costrinse a mantenere la calma: per la prima volta sentiva di poter essere in grado di ingannare suo fratello. «Dovessi trovarmi a provare con Andrej di nascosto» pensò «Non mi lascerò sfuggire quest’occasione. Dralbij inizierà la prossima settimana la sessione d’esami a scuola: non sarà mai a casa di giorno, e la sera andrà sicuramente a ripassare da qualche amico». Aveva imparato a nascondere i suoi pensieri al fratello, aggirando la loro potentissima telepatia: se fosse stato sufficientemente bravo da non destare sospetti, non gli avrebbe nemmeno dato modo di sfoderare i formidabili, affidabili tarocchi.
Dralbij scaraventò sul piatto la forchetta e si alzò di scatto, urlando infuriato: «Scegli: o me o lui!».
Quelle terribili parole agghiacciarono Griša: un ultimatum era l’ultima cosa che avrebbe potuto aspettarsi. Non era giusto! Ora che finalmente aveva trovato un chitarrista! Si udì rispondere, in un brontolio sommesso: «Come puoi mettermi di fronte ad una scelta impossibile? Sai bene che sceglierei te, mio fratello. Ma… io… io voglio suonare in compagnia di qualcuno, qualche volta! Pensaci: tu non prendi in mano la tua chitarra da più di un anno, e nel coro della chiesa io sono l’unico chitarrista. A volte mi pesa questa situazione. Ora che ho l’occasione di trovare compagnia… perché vuoi impedirmelo? D’accordo, hai ragione, è stato piuttosto scortese con te, ma si fa sempre in tempo a rimediare».
Dralbij non aggiunse altro: sparecchiò la tavola, mise i piatti nella lavastoviglie e si ritirò in camera, annunciando: «Ho molto da studiare».
Perché diamine le cose non andavano mai per il verso giusto? Griša sprofondò nel divano massaggiandosi le tempie. «Uno trova la ragazza e scopre che lei gli sta insieme nove mesi solo per pensare più concretamente sotto le lenzuola a colui che ama davvero» sbuffò, frustrato «Poi trova un chitarrista disponibile e si scontra contro l’astio del fratello. È destino: non riuscirò mai a trovare distrazioni, sono condannato a pensare a Estel per il resto dei miei giorni. Peggio, per tutta l’eternità!». Mai come ora gli pesava il sapere che quella vita di rimpianti e piccole gioie già incatenate alla ghigliottina non avrebbe avuto fine. Sconsolato, infilò il giubbotto nero e uscì per una passeggiata distensiva, avvolgendosi la sciarpa viola intorno al collo.
Il cielo era grigio e uggioso da giorni: qualche spruzzata di neve svogliata, prontamente lavata via dalla pioggia, e un vento insistente, gelido. Che depressione. Griša sospirò pensando alla Taverna dei Rimpianti: quello che gli ci voleva era una sbornia solitaria, tanto più che non faceva visita a quel posto da… da quando? Da almeno un anno. Da prima di conoscere Estel. Dannazione.
Decise di dirigersi vero il centro: gli addobbi di Natale per le strade l’avevano sempre messo di buonumore. Peccato che, ora, la sua mente galoppasse inesorabilmente al dicembre dell’anno prima. 17 dicembre, la festa di compleanno di Dralbij. Se quel giorno non fosse mai esistito, lui ed Estel non si sarebbero mai incontrati. Ma era davvero un bene? Avrebbe perso emozioni irripetibili e indimenticabili, ne era consapevole: era uscito malissimo da quell’avventura, anche se coraggiosamente si ingegnava di trascinarsi avanti in un modo o nell’altro.
Pensò a quant’era spensierato e pieno di voglia di vivere prima di incrociare quegli occhi azzurri; e pensò alla pura felicità che aveva conosciuto tra le braccia di Estel, così vivida da oscurare tutto il resto. Ora in quell’abbraccio c’era qualcun altro, inutile tergiversare. Quanto si era illuso! Gli venne da ridere per la sua stoltezza, anche se sentiva il vento mordergli più forte gli occhi invasi dalle lacrime. Sì, era distrutto. Di più: devastato. Si sentiva eternamente sull’orlo della follia, sempre immerso in un’atmosfera da sogno, come se stesse vivendo una vita non sua. E forse in fondo era così.
«Hai avuto la puttana gratis per mesi» non si stancava di ripetergli Lestadt, e in breve anche i brandelli dell’antica compagnia presero a seguire il suo filone di pensiero: «Diceva di volerci bene e ci ha abbandonati come giocattoli vecchi, diceva di amarti e anche nei momenti più intimi pensava a Matthew».
Fu durante una di queste conversazioni intrise di rabbia e di delusione che Griša rispose in tono pacato: «Estel non mi ha mai detto “ti amo”». Non aveva usato una voce particolarmente carica di sorpresa, sebbene quella fosse una verità alla quale lui stesso era appena approdato, né aveva voluto comportarsi come un attore o un oratore. Semplicemente l’aveva affermato, evidenziando come ancora una volta non aveva voluto cogliere un segnale che gli avrebbe risparmiato tanti sogni che ora facevano male.
«Qualcosa per te deve pure aver provato» aveva mormorato allora Asso, ma era rimasto inascoltato.
Griša si fermò davanti ad una vetrina arredata con un luminoso albero di Natale, neve di polistirolo e immagini di famiglie felici: padre, madre, figli. Ciò che lui era arrivato a un passo dall’avere. Guardandosi intorno, vide parecchie persone affaccendate per le vie del centro, e un acuto senso di solitudine gli trafisse il cuore: erano tutte coppie, qualcuna anche con bambini per mano, e borse piene di doni di Natale. I pochi che giravano da soli o in compagnia di amici stavano quasi certamente preparando i regali per la persona che amavano. E lui cos’aveva da fare, una volta comperati i regali per tutti gli amici? Sarebbe stato un triste Natale, più triste ancora di quelli che aveva trascorso all’orfanotrofio o come un gatto randagio lungo i moli.
Si immaginò poi i mesi successivi: vivere il 3 febbraio pensando che, trecentosessantacinque giorni addietro, era iniziata la vita del suo amore più intenso, più vero e al contempo più falso, e non riuscì più a trattenersi. Affondando il viso nella sciarpa cominciò a singhiozzare in silenzio, mentre un rubicondo Babbo Natale ammiccava e sorrideva dietro la vetrina.
Tra le lacrime capì cos’avrebbe regalato a Estel per Natale, a costo di spedirglielo per posta: un libro. Sarebbe partito dalla notte in cui l’aveva incontrata per concludere con il giorno stesso in cui avrebbe scritto l’ultima parola del libro. Beyond the Sunset, oltre il tramonto: avrebbe narrato tutta la sua storia con Estel, senza velare la sua vita notturna di vampiro. Fino al tramonto dell’amore, e anche qualche pagina in più.
Quando arrivò a casa, con il volto inondato di lacrime ormai gelate, si sedette subito alla scrivania con un voluminoso pacco di fogli e cominciò a scrivere come mai aveva fatto prima: le parole fluivano sul foglio come se sapesse a memoria ciò che doveva dire, non c’erano cancellature né rimandi, le date descritte non si accavallavano nella sua mente. E le pagine si riempivano rapidamente: dieci, venti, quaranta. Giorno dopo giorno, mentre fuori si alternavano la neve, la pioggia e il sole, lui continuava testardamente a scrivere. Anche se non dormiva da notti intere. Anche se era allo stremo. Anche se i ricordi di quei tempi felici gli depredavano il cuore.
Dralbij, che sulle prime aveva cercato di distrarlo, si arrese dopo pochi giorni, concludendo: «Se può servire a farti stare meglio…».
Sì, gli serviva. E molto. Solo così Griša stava riuscendo ad esorcizzare l’incubo che era diventato il passato.

Così, oppure con l’improvvisa apparizione di Andrej. Erano diventati molto amici nel giro di poche sere trascorse a cantare al Number One, e ormai i loro venerdì sera – unico giorno sicuro per trascorrere le ore piccole in quel locale – si svolgevano secondo una routine autonomamente consolidata: partivano prestissimo, si fermavano in macchina davanti alla porta buia e aspettavano che arrivasse Lea o qualcun altro ad aprire, ingannando l’attesa raccontandosi i racconti che scrivevano entrambi. Appena dentro monopolizzavano la consolle, senza però tralasciare di suggerirsi a vicenda eventuali trame per altre storie o addirittura capitoli di qualche libro. Se Dralbij l’avesse saputo!
Scrivere insieme a qualcuno era per Griša uno sfogo senza pari; e Andrej sapeva inventare pagine che avevano sempre il potere di risollevargli il morale solleticando il suo lato più maligno e vendicativo, come quella in cui loro due comparivano nelle vesti dei sicari che organizzavano l’assassinio di Matthew:
Andrej si sedette sul muretto di casa e si accese una sigaretta. Guardava lontano, verso il sole di novembre ormai scomparso dietro i tetti delle case, ascoltando il silenzio perso nelle sue meditazioni. Seduto un paio di metri prima ma sullo stesso muretto, Griša seguì il suo sguardo e si perse oltre il tramonto con un gran sospiro. Non aveva più lacrime per Estel, ma ugualmente sentì la tristezza dilagargli nel cuore come un’onda gelida. Almeno lei e Matthew se ne erano andati da Pietroburgo: non sarebbe stato costretto a vederli insieme.
Era difficile accettare la cosa: nove mesi che non avrebbe mai, mai dimenticato, finiti così miseramente come se non fossero mai esistiti. Osservando il nuovo compagno degli Shining Night, così simile a Matthew, chiuse gli occhi: l’aveva odiato di riflesso, così come di riflesso Estel l’aveva amato. Ridicolo… patetico.
Indovinando i suoi pensieri, Andrej cercò di rivolgergli un sorriso incoraggiante, ma nella cornice rossa della montatura dei suoi occhiali, le iridi scure erano prive di convinzione in quanto diceva: «Non è detto che non possa tornare da te» cominciò, sforzandosi di assumere un tono sicuro «Non può aver dimenticato così tutta la vostra storia. Matthew si rivelerà forse un aiuto per te: resasi conto di chi ha perso, Estel tornerà a cercarti…» «Neanche nei miei sogni» lo interruppe Griša, tagliente «L’unico modo in cui quell’infame può servirmi è dentro una bara, per poter ballare sulla sua tomba».
Andrej soffiò una nuvola di fumo azzurrognolo contro il cielo sanguigno che ormai volgeva al viola. Chissà quante volte quel suo nuovo amico aveva detto cose così crudeli su di lui… ma non era il caso di rivangare. Il passato è passato, stava per dire, ma si fermò appena in tempo: una frase del genere poteva suonare oltremodo cinica in quella situazione. Poi all’improvviso ebbe un’idea genialmente malefica, e sogghignò: «Matthew deve essere eliminato, giusto?». Era sempre stato un ragazzaccio, un teppista, fin dai primi anni di scuola; e Griša stesso aveva quella medesima indole, insita in lui e con lui cresciuta tra i moli di Liverpool.
Griša capì le sue intenzioni, e gli occhi gli scintillarono cattivi. «Oh, sì» ringhiò «La Signora con la falce è l’unica che può aiutarmi. E l’ultima possibilità che ho. Ma tu… saresti disposto a diventare un assassino? Voglio dire, un conto è sgozzare o fucilare i licantropi, ma Matthew è… è una persona reale. Sarebbe disastroso se ci scoprissero» «Se ci scopriranno mai» ribatté Andrej, gettando il mozzicone di sigaretta con un ghigno satanico «Saremo insospettabili: un incidente d’auto può capitare a chiunque, specialmente ad un ragazzo che guida ad alta velocità e per di più ubriaco. Mettere olio sulla strada è ormai banale, ma… hai mai pensato alla benzina? Il mio piano è questo: qualcuno uscirà con lui ed Estel, qualcuno di insospettabile, e appena lo vedrà accendere una sigaretta gliela chiederà. Questo inviato, poi, la spegnerà di nascosto sostituendola subito con un’altra. Poi ci apposteremo sulla strada di casa del nostro amico, dopo aver sparso una pozza di benzina “per una perdita casuale”: riaccesa la sua sigaretta, la butteremo in mezzo alla pozza… e Matthew salterà in aria! Le prove del DNA sulla sigaretta non daranno sospetti: chi la prenderà avrà cura di indossare un paio di guanti per non lasciare impronte digitali, e la scientifica troverà solo le sue impronte e il suo DNA. Morale della favola: Matthew, ignaro del serbatoio difettoso della sua auto, ha lanciato dal finestrino il mozzicone e ha preso fuoco. Semplicissimo e sicuro. L’unico problema è: chi farà l’inviato? Io ormai sono troppo legato a te, primo indiziato, per salvarmi. Idem per tuo fratello».
C’era dolore negli occhi di Griša, ma ora la luce della più lucida follia aveva preso il sopravvento. «Lestadt» rispose senza esitazione «È in buoni rapporti con Matthew – i due clienti! –, e credo esca ancora con Estel. È comunque dalla nostra parte, e poi ha già la ragazza da mesi: la scusa della gelosia non reggerebbe».
I due amici, senza rendersene conto, avevano coperto lentamente la distanza che li separava sul muretto: era la prima volta che si trovavano così vicini senza che qualcuno provasse il desiderio di aggredire l’altro. Ormai erano una squadra, non più nemici giurati – anche se prima lo erano stati per caso e non per qualche motivo sensato – e pronti a dare fondo alla loro delinquenza latente, per troppo tempo tenuta nascosta. «Andiamo da Lestadt» concluse Andrej, stritolando col piede il mozzicone ancora fumante sul cemento. Griša si chiuse il giubbotto e soggiunse, a mezza voce: «Certo. Ma non facciamolo sapere a Dralbij: lui chiamerebbe subito la polizia, sentendoci parlare così. Questa è la nostra strada».
Che eresia!, pensò, non appena l’ebbe detto. Anni di indistruttibile fratellanza, e ora per un amore deluso tradiva la fiducia di Dralbij e il loro essere fratelli. La sagoma aggressiva della macchina di Andrej, grigia nella luce dorata della sera, ebbe l’ipnotico potere di sancire la sua totale convinzione: Matthew doveva morire.
Partirono, il motore che ruggiva nel silenzio di Via dei Fiori Bianchi, sfrecciando lungo la strada che portava da Lestadt. Avrebbero fatto una piccola deviazione, per non essere costretti a passare davanti a casa di Estel che abitava duecento metri prima: giusto il tempo di preparare il discorso che avrebbero fatto a colui che, attanagliato dai sensi di colpa e dall’affetto quasi fraterno per Griša, sarebbe stato una pedina perfetta nelle loro mani…

La presenza di Andrej all’interno degli Shining Night era ormai un fatto dimenticato per Dralbij: non l’aveva più sentito nominare, e si era persuaso che Griša avesse ubbidito al suo aut-aut perentorio che, a dire il vero, non lasciava molta scelta.
Finché, l’8 dicembre, Griša si alzò da tavola dopo cena e cominciò a prepararsi per uscire. Nulla di strano, se non fosse che lui stesso, di sua spontanea volontà, aveva scelto i vestiti migliori che aveva e si stava pettinando accuratamente i capelli con la brillantina. Come solo per andare in discoteca al compleanno di Estel aveva fatto. Insospettito, Dralbij indagò: «Dove vai stasera così agghindato? Credevo andassi al bar qui dietro l’angolo con Frizz e qualcun altro». Griša si voltò a guardarlo e, ricordando le lezioni quinquennali di Asso, ribatté: «In effetti sì; ma siccome avevamo intenzione di fare anche una passeggiata per il centro, ho pensato bene di sistemarmi in modo da trovare qualche ragazza. Non posso deprimermi costantemente per una che in fin de conti non mi ha mai amato veramente, no?».
Uscì, osservando nella sua ombra proiettata da un lampione se i capelli gli stavano perfettamente irti sulla testa; quindi, soddisfatto, salì sulla macchina di Frizz salutandola allegramente e ridacchiò, sfregandosi le mani: «Rotta verso il Number One!». Già pensavano a cosa cantare insieme al karaoke, e si divertivano come al loro solito a modificare i testi delle canzoni più note per riderci su.
E finalmente, dopo due settimane, Griša riuscì a ritrovarsi davanti al Number One, sotto le piccole lanterne gialle. I ricordi non facevano più tanto male: il dolore era stato tale da allontanare dal suo cuore e dalla sua mente Estel.
Andrej gli corse incontro, compiaciuto: «Credevo di non vederti più qui» commentò, e lui rispose ammiccando: «Pochi giorni fa avevo la stessa impressione anch’io». Si fermarono qualche minuto a chiacchierare, dopodiché Griša e Frizz entrarono per sedersi al solito tavolino e raggiungere gli altri componenti della compagnia che li stavano aspettando.
«Tu conosci Andrej?» esplosero tutti subito, ben sapendo quanto fosse famoso al Number One «Se lo venisse a sapere Estel morirebbe di invidia!». Griša fece spallucce, lanciando un’occhiata pigra alla consolle dove Andrej stava trafficando insieme al dj, poi sospirò: «Non è un mio problema. Ragazzi, Estel non è più dei nostri ora che si è trasferita così lontano. Ha una nuova famiglia, una nuova compagnia e una nuova vita: non la rivedremo mai più qui tra noi, e l’unica cosa che possiamo fare è dimenticarla. Nel caso la sua storia con Matthew dovesse finire male, può anche darsi che la ritroviamo qui a Pietroburgo a sorpresa. Nel frattempo, io sono del parere di non farsi venire il sangue cattivo per una che è stata pronta ad abbandonarci così…».
Fu interrotto dall’arrivo di Andrej, che gli porgeva un microfono con un sorriso raggiante. «Ehi, no!» protestò, cercando di allontanarsi «Lo sai che non conosco le canzoni che piacciono a te!» «Ti assicuro che la conosci» insistette l’altro. Griša si rassegnò, con aria martire, ad alzarsi. «Parola di chitarrista che canterai assieme a me» sbuffò «Da solo non saprei nemmeno da dove partire».
Salirono entrambi sul palchetto, ascoltando le note introduttive di una celeberrima canzone e scambiandosi solo una vaga occhiata quando fu il momento di cantare.
Estel entrò al Number One scotendosi la neve dai capelli neri come la notte, e si guardò intorno per vedere se ci fosse qualcuno di sua conoscenza. Sulle prime non riuscì a credere ai suoi occhi: possibile che quel giovane di spalle, con i capelli dritti e il codino, fosse proprio Griša? E se sì, com’era possibile che stesse cantando insieme ad Andrej?
La compagnia la vide, e tutti rimasero pietrificati con lo sguardo rivolto a quell’apparizione così simile ad un fantasma. I due cantanti, invece, non si erano accorti di niente, entrambi intenti a seguire il testo della canzone che scorreva sullo schermo. Un solo imperativo prevalse su tutti loro, e fu Frizz a ritrovare la voce per prima: «Fate in modo che Grigorij non la veda!» balbettò, alzandosi. Fece un cenno a Griša per indicare la pausa sigaretta fuori dal locale, e lui annuì distrattamente. Ignaro di tutto.
Gli girava la testa, questo sì, e da due giorni aveva uno strano presentimento che non riusciva a delucidare, ma mai gli sarebbe passato per la mente il pensiero di Estel: la dava per morta e faceva del suo meglio per commemorarla il meno possibile.
Estel se ne era resa conto, e una coltellata le aveva trafitto il cuore da parte a parte. Non solo Griša non si era fatto alcun problema a farsi amico proprio Andrej; ora nemmeno più la considerava! E lei era rimasta tragicamente sola, constatò incrociando lo sguardo gelido dell’intera compagnia. Matthew non c’era più: anche il loro grandissimo amore si era rivelato un fiasco, una pagliacciata, tutto ridicolmente patetico. Gli era corsa dietro per troppo tempo; e Matthew, stufo di quell’avventura assillante, aveva pensato bene di scomparire dalla circolazione. Si vedevano ancora, qualche rara volta, e solo quando lui non trovava nulla di meglio da fare: la trattava come una qualsiasi prostituta rimorchiata all’angolo della strada, e non sembrava assolutamente considerare la bambina che era diventata sua figliastra.
Sissi: lunghissimi capelli biondi che rilucevano al sole pronti a trasformarsi di notte in un soffice, setoso manto nero screziato da ciuffi d’argento. Era una bambina bellissima, che chiunque si sarebbe incantato a guardare, ed emanava un’aura solenne e regale: si intuiva il suo sangue di principessa. Una cosa però in lei turbava la mamma, unica persona al mondo che la considerasse: gli occhi. Erano grandi, profondi, color caffè, e la loro espressione sembrava eternamente sospesa tra la malinconia e il sogno: uguali a quelli del padre.
Tuttavia Griša, in quel momento, non sembrava avere niente di malinconico: appoggiato alla consolle con Andrej, sfogliava l’elenco delle basi musicali e cercava di decidere con lui che cosa cantare. Chiacchieravano e scherzavano, indicando i titoli e suggerendosi a vicenda la melodia, senza porsi alcun problema. Erano lì solo per divertirsi.
La compagnia aveva accerchiato Estel, nel frattempo, e cercavano di ottenere spiegazioni tenendola al contempo fuori dalla portata visiva di Griša. Stupita ma non troppo da tanta ostilità, lei fece qualche passo indietro, trovandosi con le spalle accostate alla porta di legno. «Perché?» ripeteva, disperata. Fu Frizz a rispondere, interpretando i pensieri di tutti: «Perché non è giusto, Griša non merita di soffrire ancora per te. Ti ha dato, da solo, più sentimenti di quanto tutti noi messi insieme saremmo mai stati in grado di darti, e guarda cosa gli hai fatto. Senza motivo, senza preavviso, ci hai abbandonati tutti quanti dopo tutte le tue belle parole…».
Improvvisamente nel locale divampò una musica sfrenata, esplosiva, sparata a tutto volume. Tutti si girarono istintivamente verso la consolle, davanti alla quale Andrej e Griša, con un sogghigno complice e un microfono per ciascuno, aspettavano di lanciarsi in una difficilissima canzone caratterizzata da un testo estremamente veloce da cantare con la voce più dinamica possibile. Partirono nello stesso momento, duettando abilmente, scatenandosi sul rialzo, l’uno appoggiato allo specchio di fondo e l’altro alla balaustra, in modo da non perdere di vista né il compagno né il testo sullo schermo. Il dj li osservava ammirato, e leggendo le sue labbra mentre parlava con un gruppo di amici gli si sarebbe sentito dire: «Sembra che non abbiano mai fatto altro in tutta la loro vita».
Estel si sentiva inchiodata in fondo al Number One, vicino alla porta: non sarebbe riuscita a muoversi nemmeno se l’avessero costretta. Capì solo allora quante cose possono cambiare all’improvviso, e si persuase di quanto poco Griša avesse ormai bisogno di lei: era riuscito ad andare avanti, aggrappandosi a tutti gli appigli che era riuscito a trovare, ed era ormai vicino all’uscita del baratro senza ritorno in cui era precipitato. Se prima c’era stata la Taverna dei Rimpianti, ora il suo regno era diventato il Number One.
Cominciò senza rendersene conto ad avanzare verso di lui, e stavolta nessuno cercò di fermarla: il loro protetto aveva appena dimostrato di essere diventato quella sera un’altra persona.
Griša aveva appena depositato il microfono rantolando: «Ce l’ho fatta!», e si era appoggiato ad un tavolino. Intorno agli specchi del Number One erano state disposte numerosissime luci da albero di Natale, che gli creavano giochi multicolori sui capelli lucidi di gel e facevano scintillare i boccali di birra che i due cantanti avevano preso per rinfrescarsi la gola irritata. Brindarono a qualcosa che capirono solo loro e che ebbe il potere di farli scoppiare a ridere come matti, poi riposero i boccali e decisero di raggiungere gli altri fuori dal locale, anche per vedere se la nevicata sembrasse disposta a smettere.
Andrej si voltò ed emise un verso strozzato, lasciando quasi cadere la sigaretta che teneva tra le dita. Griša aveva alzato gli occhi verso lo specchio per accertarsi che i capelli gli fossero rimasti ben immobilizzati anche dopo la vulcanica performance in cui si era lanciato… e non riuscì più a muoversi.
Estel lo fissava.
Che strano, pensò. Aveva conosciuto Andrej la sera in cui sperava di non incontrarlo lì – impossibile, dato che si trattava di un venerdì sera, matematicamente impossibile – e se l’era visto capitare davanti riflesso nello specchio. Accidenti a quegli specchi.
«Tu!» ringhiò, fulminandola con rabbia e paura. Stringeva la balaustra con le mani tremanti, e cominciava ad acquisire una frustrante consapevolezza. Davvero aveva creduto anche solo per un istante di essere in grado di dimenticarla? Illuso! Gli era stato fin troppo facile ingabbiare i ricordi: doveva aspettarselo, che gli sarebbe bastato rivederla per caderci di nuovo. Ma chi l’avrebbe mai detto che l’avrebbe rivista? Gemette: l’incubo non era ancora finito. «Perché sei tornata?» la aggredì in tono accusatorio «Non mi hai ferito abbastanza? Non mi hai preso in giro a sufficienza? Non ho mai significato niente per te e non voglio essere ingannato ancora. Ora ho un’altra vita, che non ha niente a che vedere con la tua. Torna a Mosca, torna a casa tua qui a Pietroburgo, insomma fai quello che vuoi… ma lasciami stare! Dimenticami! Non puoi rivolgerti a me quando non hai altro da fare o quando Matthew è troppo impegnato per usufruire della sua… della sua ragazza. Io non sono l’amante di nessuno! Ti ho dato tutto il mio amore, la mia vita, e non è servito a niente. Ho pianto fiumi di lacrime inutili che per te non erano altro che acqua salata in un mare sconfinato. E non ripeterò l’errore».
Andrej si allontanò a piccoli passi, confuso. Per lui, che da anni divideva la sua vita con Lea, scene e parole del genere erano quasi insostenibili. La cercò con lo sguardo e la vide dietro al bancone, intenta a riporre accuratamente i bicchieri lavati. Non avrebbe mai osato abbracciarla in un momento così, ma gli bastava sapere che c’era.
Estel abbassò lo sguardo, ma non riuscì a nascondere i rivoli delle lacrime che sembravano brillare di tristi luci di un ancor più triste Natale. «Ora sono le mie lacrime a non significare nulla per te» bisbigliò «È vero, Grigorij, sei cambiato, molto cambiato. Io sono tornata per portarti un piccolo regalo di Natale, ma non so se lo accetterai… ora».
Griša sentiva che la sua resistenza stava crollando come un castello di sabbia. Perché non abbracciarla e porre fine a tutto? Coprirla di baci e sparire con lei nella notte, volare fino alla luna e lì dimenticare tutti gli inganni? Ricominciare da zero come se niente fosse successo? Diede fondo alle sue riserve di crudeltà, ma un nodo in gola gli impedì di pronunciare le terribili, falsissime parole che si era programmato: «Per quanto io e te siamo stati insieme, tu non mi hai mai conosciuto veramente. È questo il vero Grigorij, uno spietato cuore di pietra!».
Si avvicinò, e lei gli porse un pacchetto rettangolare con un piccolo fiocco rosso. «Buon Natale» disse con un filo di voce, dandogli un lieve bacio a fior di labbra. Poi si voltò e uscì, tra gli avventori che si spostarono per lasciarla passare.
Griša rimase immobile a testa bassa in mezzo al palchetto su cui pochi minuti prima aveva trionfato. Il Number One. Prima regno di Estel, ora suo trono. Un pacchetto tra le mani e una lacrima non sua su una guancia.
Andrej gli allungò il boccale di birra, e a poco a poco tutti si avvicinarono alla solitaria figura immobile. Griša scosse la testa, mentre una goccia simile ad una perla spariva sul pavimento di legno. Bevve la birra e guardò con aria assente la porta. Poi, con uno scatto, si precipitò fuori.

Lontano da occhi indiscreti, lasciò che il dolore diventasse la forza necessaria a trasformarsi come già un’altra notte aveva fatto sotto la spinta dell’ira. Gli occhi gli si fecero di nuovo azzurrissimi, i canini affilati, e la notte divenne il suo potere.
Saettò sotto la neve, cercando affannosamente una traccia di Estel, ma non trovò nemmeno un’impronta. Volata via. Svanita. Alzò lo sguardo, convinto di vedere un pipistrello color della luna volteggiare sopra di lui, ma l’unico biancore era quello dei fiocchi di neve che cadevano fitti, ingiallendo come foglie notturne davanti alle lanterne del Number One.
«Lasciala andare», gli suggeriva la razionalità. «No» grugnì, con gli occhi che sprizzavano scintille blu «Un Antirealista crederà sempre nei suoi sogni, fino alla fine! E io… io continuo a sognare!». Riprese a correre, silenzioso e veloce, fino a quando si rese conto che così non avrebbe mai risolto niente. Così si fermò, con il mantello nero che gli creava l’ombra di un paio di ali mosse dal vento che ormai era diventato un unico soffio continuo, e cercò di raccogliere tutta la concentrazione possibile. Facendo affidamento sui suoi poteri psichici, individuò una sorta di mappa della zona, ma non riuscì a percepire la presenza di Estel.
Sulla neve fresca, però, c’erano tracce di pneumatici, e lo sconforto lo colpì come una bastonata. Certo: Matthew doveva essere stato lì fuori ad aspettarla mentre lei gli consegnava il regalo di addio. Chissà ora quanto se la ridevano, quei due, delle sue nuove ferite.
Si sedette su un muretto, sotto la nevicata, trattenendo le lacrime come un bambino. L’energia che gli serviva per restare trasformato venne meno, e lui ritornò quello di sempre. I capelli gli erano ricaduti a ciuffi sulla fronte, e il gel cominciava a colare via mentre la neve si scioglieva e gli rigava il viso.
Era stato tutto così rapido: perché la vita non si poteva fermare? Perché non cristallizzare il momento in cui l’aveva rivista – non quel fugace bacio: quello era troppo, troppo bello anche per i suoi sogni – e morire così?
In quel momento si accorse di essere circondato, nel buio, da nuvole di respiri affannosi e coppie di occhi argentei. Si alzò di scatto, trattenendo il fiato, e si rese conto di essere circondato da licantropi. I loro musi imbrattati di bava erano contorti nella medesima espressione: un ghigno vittorioso.
Griša non si mosse: sapeva di non avere possibilità, ma non si sarebbe arreso senza combattere. Anche se in quel momento avrebbe voluto farla finita. Poi gli si riaffacciarono alla mente i volti di tutti gli amici che erano rimasti e i progetti di tutto ciò che avrebbero fatto con la bella stagione: non poteva alzare bandiera bianca!
«Avanti allora!» ruggì, mentre gli occhi gli tornavano luminosi. Scoprì i canini e si mise in guardia, confidando nella sua agilità. Avrebbe squarciato loro la gola se si fossero avvicinati.
Due lupi mannari lo assalirono nello stesso istante, ma lui fu abbastanza rapido a schivarli. Individuato un varco nel cerchio di zanne che lo circondava spiccò un balzo incredibilmente lungo e vi si buttò a capofitto, rotolando nella neve e rialzandosi subito.
Cominciò a correre, percorrendo a ritroso la via che aveva fatto. Se fosse riuscito a raggiungere un centro abitato, i licantropi non avrebbero mai osato inseguirlo lì: doveva uscire dalla campagna, ma aveva percorso parecchia strada e la città doveva essere lontanissima.
Accelerò, pestando la neve con tutte le sue forze. Se qualche lupo mannaro cercava di aggredirlo di lato, lui lo sgozzava lasciandolo riverso nella neve arrossata, tra i guaiti e i latrati degli altri.
Erano troppo veloci, però: le loro zampe sembravano non toccare nemmeno la neve, mentre i suoi scarponi sprofondavano ad ogni passo. Se avesse avuto con sé dei proiettili o anche solo una lama d’argento!
Poi vide un’alta torre edificata in mezzo ad un campo: il cielo sapeva a cosa potesse servire, ma sembrò provvidenziale: vi si inerpicò, appollaiandosi sulla cima con il respiro ridotto ad un rantolo, mentre i licantropi cercavano inutilmente di seguirlo.
La bufera di neve intanto aveva aumentato la sua intensità, e il vento fischiava sempre più forte. Così forte da coprire, sulle prime, il rombo di un potente motore. Un attimo dopo sul ciglio della strada si fermò l’Alef di Andrej, dalla quale scese Estel con due pistole in pugno. Con freddezza e determinazione iniziò a sparare, senza mai sbagliare un colpo, e i lupi mannari cadevano uno dopo l’altro. I capelli le formavano un mantello dietro la schiena, e gli occhi sfavillanti erano due durissimi zaffiri, mentre sbaragliava i nemici.
Acquattato dietro il volante, Andrej non riusciva a credere a quel che vedeva. Temeva per l’incolumità della sua macchina, ma ancor più temeva per la sua stessa vita in mezzo a sparatorie, licantropi e vampiri. Un attimo dopo arrivarono anche gli altri, in macchina, ed ebbero la stessa reazione. Vedendo che anche Griša, sceso dalla torre, combatteva al fianco di Estel, fecero tanto d’occhi: il loro mite e malinconico amico era dunque il Signore dei Vampiri? Perché quel ruolo non spettava a Matthew?
«Lui non sa niente, mai l’ha saputo e mai lo saprà» rispose Estel ai loro silenziosi interrogativi. Sapeva leggere la mente, l’aveva imparato da Griša. Gli si rivolse con un sorriso triste: «Tu eri l’unico degno di questo ruolo».
Un lupo mannaro era riuscito, aggirando furtivamente i due, a mettersi in agguato alle loro spalle. Piombò addosso a Griša e cercò di azzannarlo. Erano troppo avvinghiati perché Estel potesse sparare senza rischiare di colpirli entrambi, e nessuno poteva fare niente.
Rinvigorito dalle parole di Estel, Griša rotolò nella neve mentre i canini gli brillavano come gli occhi. «Io sono il Signore dei Vampiri» soffiò «E voi cagnacci non potete niente, niente contro di me!». Affondò i denti nella gola del nemico, sprizzando sangue tutt’intorno, e lo lasciò agonizzante a terra. Anche senza avere ancora imparato a volare, come un vampiro vero, aveva avuto la meglio.
La battaglia era finita.
«Qualcuno potrebbe spiegarmi che cosa succede?» balbettò Andrej, rompendo l’immobile silenzio. Subito gli altri gli fecero eco: «Diteci cos’è successo!». Estel cominciò a raccontare: ormai il suo segreto era stato svelato, e l’aveva fatto per Griša, per salvarlo sentendolo in pericolo. Peccato che lui non l’avrebbe probabilmente apprezzato. La ricomposta compagnia ascoltava, allibita e in preda alla soggezione. La paura che aveva invaso tutti filtrò in una torpida stanchezza: quei due vampiri erano loro amici, non avrebbero mai fatto loro nulla di male.
Griša si rivolse a Estel e Andrej, chiedendo: «Ora spiegatemi: come avete fatto a trovarmi?». Andrej si tolse gli occhiali per pulirne le lenti appannate, e rispose: «Dopo che sei fuggito dal Number One, Estel è tornata da noi trafelata e dicendoci che eri in pericolo di vita. Noi… all’inizio non volevamo ascoltarla, non le abbiamo creduto. Poi però ho visto che sembrava disperata, così ho deciso di accompagnarla lasciandomi indicare la strada da lei che sembrava sapere tutto ciò che succedeva. Poi ho visto la scena: ragazzi, non avrei mai creduto che certe cose succedessero davvero!». Guardò con un misto di ossequio e curiosità i due vampiri che aveva davanti, prima di concludere con ostentata tranquillità: «Se fosse successo qualcosa a Griša, poi con chi avrei cantato al Number One? Torniamo là: qui in mezzo ai campi fa davvero freddo!».
Non erano troppo distanti dalla meta: ci si poteva arrivare agevolmente anche a piedi. Estel e Griša rimasero indietro, facendo cenno agli altri di partire.
Rimasti soli, non osavano rivolgersi la parola e camminavano a passo misurato, a testa bassa, incuranti della nevicata. Non avrebbero resistito molto in quel silenzio, ma nessuno voleva essere il primo a parlare.
Fino a quando Griša mormorò stancamente: «Sei tornata ad abitare a Pietroburgo?». Non si aspettava più nulla da lei, né tantomeno una risposta incoraggiante. E infatti Estel scosse la testa: «Non per ora e non so quando. Forse un giorno tornerò, non lo escludo» «Dicevi anche di non volerti assolutamente trasferire da tua sorella, invece l’hai fatto senza remore» obiettò lui «Non dire cose che poi non farai: potresti creare illusioni a chi non ti conosce bene». Non c’era rimprovero nella sua voce, solo una profonda delusione: si includeva tra coloro che non la conoscevano a fondo, ed era consapevole di quanto triste fosse la situazione.
Non credeva nemmeno che tra Estel e Matthew non ci fosse più nient’altro che insoddisfazione: mai, assolutamente mai si sarebbe persuaso.
Tuttavia si costrinse a fare la tremenda domanda che gli premeva in gola insieme ad un groppo di lacrime: «E vostra figlia… Elisabeth, come sta?». Estel fu tentata di appoggiarsi a lui, o prenderlo per mano, qualunque cosa per annullare quel tono privo di speranza, ma sapeva che in quel momento gli avrebbe solo fatto del male. «Sissi è stupenda, e ti assomiglia moltissimo» sussurrò reprimendo un singhiozzo «Ha i tuoi occhi e il lato artistico del tuo carattere: è felice quando accendo la radio vicino alla sua culla, e predilige soprattutto le canzoni che tu e Dralbij avete registrato. È come se sapesse…». Non riuscì ad andare avanti, e Griša finì per lei: «…che io sono il suo papà». Deglutì prima di ribattere, sforzandosi di mantenere un tono asciutto e la voce ferma: «Non ti ho chiesto io di andartene né di tornare, e se qualche volta ho invaso troppo la tua vita mi scuso sinceramente. Per il momento – mi auguro tu possa capire – credo sia meglio se andiamo avanti ciascuno per la propria strada. Non riesco a riprendermi da quello che ho… che abbiamo passato e non voglio ripetere l’esperienza: la fiducia è qualcosa in cui grazie al cielo ho imparato a non credere. Con questo discorso non ho intenzione di tagliare il futuro e seppellire il passato, né di ferirti o di apparire crudele. La mia è solo sincerità volta ad evitare altri… malintesi… come quelli che ci hanno accompagnati per nove mesi. Torneranno le nostre strade ad incrociarsi, o questa notte è l’addio definitivo? Non voglio saperlo. Se davvero tornerai tra noi, devi farlo di tua spontanea volontà e con convinzione».
Estel taceva, meditando su quelle parole dure e meste. La cosa che desiderava di più in quel momento era Pietroburgo, gli amici, la vita che aveva lasciato. «Domani andrò a Mosca» mormorò, senza aspettarsi di essere creduta «Rifarò le valigie e tra al massimo tre giorni sarò di nuovo qui. Come prima, anzi, meglio di prima, perché anch’io come te sono molto cambiata in queste settimane, e non voglio più ripetere gli errori che ho fatto».
Griša fece un cenno di diniego con la testa. «Staremo a vedere» disse senza convincimento.

Di nuovo tutto come un anno prima: Estel, senza più far parola della sua “fuga da casa” (ormai la definivano tutti così, anche se non davanti a lei) o di Matthew, aveva ripreso ad uscire con la compagnia. L’unica novità significativa era la presenza di Andrej che, finalmente accettato da Dralbij dopo una sfuriata simile ad un putiferio scatenato da Griša («Azzardati solo a limitare la mia carriera artistica…»). Molto spesso a lui si univa anche la sua ragazza Lea, che però non aveva ancora l’aureo permesso di assistere alle prove degli Shining Night: Andrej era talmente innamorato di lei che si sarebbe distratto a contemplarla, sordo ai rimproveri di Dralbij e alle canzonature di Griša.
Solo Estel e Moonlight riuscivano ad infiltrarsi nel salotto di Via dei Fiori Bianchi, ed erano gli unici testimoni della magia che la musica sapeva creare in quell’attico di periferia.
Griša e Andrej di solito si posizionavano l’uno di fronte all’altro: essendo il secondo abituato a suonare la chitarra rovescia come un mancino, potevano controllarsi come davanti ad uno specchio; Frizz scompariva tra il divano e la suo maestosa fisarmonica in lucido ebano, e con quelle sonorità tipiche di qualche ballata popolare accompagnava le canzoni che i due fratelli scrivevano. Il momento più bello era quando Dralbij, con un’occhiata ai due chitarristi, iniziava a cantare ora con voce dolce e appassionata, ora con un ringhio che sovrastava le chitarre distorte. Mancava un batterista, si sentiva, ma nessuno mai avrebbe osato chiamare l’unico di loro conoscenza: Lestadt. Nel frattempo cercavano di chiedere in giro tra università e lavoro.
L’unico neo era quando non si poteva più evitare di provare le romantiche serenate che Griša aveva composto per Estel ai tempi che furono: prevedevano solo una chitarra e la fisarmonica, così Dralbij ne approfittava per mettersi al riparo da quelle che lui definiva “scempiaggini sdolcinate”. Andrej e Frizz non si perdevano mai di vista – era difficile andare a tempo senza batteria e con due strumenti così diversi –, e Griša si accoccolava sul tappeto del soggiorno con un microfono in mano, cantando con aria assorta: teneva lo sguardo perso lontano, sempre velato da una stupita malinconia, e si sforzava di non pensare più di tanto alle circostanze in cui aveva scritto ciò che ora provavano insieme. Amare sognare, Ninnananna irlandese… erano quelli i suoi cavalli di battaglia, colonna portante dei due libri che aveva dedicato a Estel. Il primo incontro raccontato su Fraternity e l’immenso, dolcissimo amore che oscillava tra il racconto Artigli di Realtà – Brandelli di Illusione e la prima parte della sua monumentale opera Beyond the Sunset.
Andava avanti molto velocemente con quel libro: passava ogni minuto libero alla scrivania, con una coperta sulle spalle e abbracciando la borsa dell’acqua calda. La prima parte descriveva puramente come erano stati dal suo punto di vista nove mesi con Estel, e per contrasto la seconda assumeva toni foschi e rancorosi, svelando tutte le menzogne che la prima parte aveva solo nascostamente accennato. Verso la fine, ossia con il ritorno di Estel, il tono si ammorbidiva notevolmente restando però imprigionato in una disillusione che non lasciava adito a speranze.
Griša ed Estel uscivano soli molto raramente: entrambi temevano ciò che le parole avrebbero potuto suscitare in loro. Cercavano di guardare il calendario il meno possibile per non doversi ricordare i fatti accaduti l’anno prima, e il perdere la cognizione del tempo non era un prezzo troppo alto da pagare.
Venne il Natale con una fittissima nevicata. Ciascuno lo festeggiò con i suoi parenti, partecipando solo alla messa del mattino alla quale suonavano gli Shining Night, mentre il vero giorno di festa per il gruppo di amici fu il 26 di dicembre, per ironia il giorno in cui nel 1971 Griša aveva iniziato ufficialmente la sua carriera di scrittore e musicista. Bettina. Un fantasma ormai sotto il controllo del presente.
E poi fu di nuovo Capodanno: tutti aspettarono la mezzanotte nella piazza principale di Pietroburgo e trascorsero il resto della notte a far baldoria, ubriachi e perfettamente felici, fino all’alba del primo giorno del 1977, che li vide crollare esausti nella soffitta di Via dei Fiori Bianchi.
Erano stati disposti materassi, cuscini e sacchi a pelo per tutto l’appartamento, in modo che tutti potessero avere un posto dove dormire per non rischiare, rincasando, di fare qualche brutto incidente sulle strade ghiacciate.
Gli unici due che non riuscivano a prendere sonno erano Estel e Dralbij. Entrambi osservavano distrattamente i fili di sole che riuscivano ad attraversare le imposte in quell’alba di ghiaccio, neve e buoni propositi per l’anno nuovo, ma mentre l’una meditava su come rendere possibili i desideri che non rivelava a nessuno, l’altro pregava perché ciò non si realizzasse. Si addormentò finalmente quando si convinse che la ritrovata Estel non avrebbe più cercato, per quella notte, di avvicinarsi a Griša.
Era altresì vero, però, che la notte era finita. In punta di piedi, Estel lasciò il suo giaciglio e si avvicinò furtivamente al materasso che i due fratelli dividevano per lasciare il posto migliore l’uno ad Andrej e Lea, l’altro a Moonlight e Stella.
Griša dormiva profondamente, con gli occhi cerchiati dalle ombre nere dell’alcol e le mani abbandonate sull’orlo delle coperte. Al polso sinistro brillava, colpito da un singolo raggio di sole, il braccialetto che portava dal 3 febbraio dello scorso anno: fu una staffilata di rimpianto per lei come doveva esserlo per lui ogni volta che lo vedeva, per quanto ostentasse il contrario. Gli passò le dita sul viso, leggera come il tocco di una ragnatela, e gli sussurrò: «Non so fino a che punto mi crederai. Io… credo che senza di te riuscirei con fatica ad andare avanti. Con molta fatica. Da me ti aspettavi l’amore della tua vita, e in parte l’hai ottenuto: forse ora è il momento di darti ciò che non ti ho mai dato prima. La sincerità».
Parlando, si era avvicinata a lui: la distanza tra le loro labbra era ormai impercettibile. «Avevo detto, mesi fa, che sarei tornata» concluse, annullando del tutto lo spazio che ancora li divideva «Ora l’ho fatto».
Griša era in una sorta di stralunato dormiveglia, e cominciò a ricambiare quel bacio che non si era reso conto di agognare fino a quel punto. Era stato così sicuro nel recitare la parte dell’indifferente che cerca con qualsiasi mezzo di andare avanti da essere quasi riuscito a persuadere anche se stesso. Quasi.
«Selene!» balbettò rauco «Matthew non…» «Non nominarlo mai più» lo interruppe lei, abbracciandolo più forte fino ad accorciargli il respiro «Basta, basta, basta: è un nuovo anno, una nuova vita per me e per te».
Lo sentì irrigidirsi contro di lei, nervoso: la diffidenza stava avendo la meglio e lei non poteva farci niente. Forse era ancora troppo presto per lui. Scivolò di lato con un sospiro, ma non rinunciò ad un’ultima carezza. «Io sarò sempre al tuo fianco» bisbigliò, tornando al suo materasso.
Era stata tutta un’allucinazione dovuta all’alcol? E quelle parole, così insolite per lei, erano veramente esistite nel silenzio dormiente del mattino?
Griša continuò a porsi le stesse domande come un ritornello per settimane, anche se era diventato così abile nel bluff da non lasciar sospettare nessuno. Scriveva, studiava e suonava come se niente fosse… ma usciva sempre più spesso con Estel, senza più evitare di trovarsi solo con lei.
Aveva paura, e si nascondeva dietro la convinzione che l’infausta, temuta data del 3 febbraio doveva essersi ormai consumata. Fedele alle sue disposizioni, il resto della compagnia cercava di sviare l’ossessione del calendario da lui.
Finché, un gelido pomeriggio, Estel e Griša si spinsero più lontano nelle loro passeggiate, trovandosi a guardare il sole che tramontava dietro le trame degli alberi ancora spogli e scuri dal cuore del parco di Pietroburgo. Stavano in silenzio, seduti su una panchina, osservando le nuvole di vapore create dal loro respiro che svanivano nell’aria gelida del parco spoglio e deserto del quale dovevano essere gli unici ospiti.
«Sembra tutto così simile a un anno fa» mormorò Estel, appoggiandosi impercettibilmente a Griša «Il freddo, il tramonto… e questa strana sensazione come di attesa». Lui si voltò a guardarla: in quegli ultimi giorni aveva imparato a non temere più i gesti gentili che sembravano fiorirgli davanti, e non aveva sobbalzato o rabbrividito trovandola così vicina. E, Dio!, com’era bella con lo sfondo della neve di febbraio tutto intorno a lui! «A volte ci sembra di rivivere situazioni passate» rispose, seguendo le nuvole dorate che si rincorrevano contro il cielo di fuoco «Magari in un’altra vita precedente, per chi non è immortale o lo è diventato da poco».
Man mano che l’oscurità si infittiva intorno a loro e la temperatura scendeva sotto lo zero si erano stretti l’una all’altro. E all’improvviso Griša le mise un braccio sulle spalle, così, senza pensare a ciò che faceva. Era stato tutto semplice e spontaneo, come se avesse sempre saputo che sarebbe arrivato quel momento. Estel si accostò morbidamente sul suo giubbotto, sentendo che qualche barriera tra loro era crollata forse per sempre.
Era solo un abbraccio, ma quanto l’avevano sperato tutti e due!
Quando fece troppo freddo per rimanere fermi si alzarono e cominciarono a rincorrersi nel parco vuoto come due bambini, con l’eco delle loro risate che tremava attorno. Nonostante gli occhi azzurro luminoso e i canini appuntiti, le loro corse tra gli alberi tradivano la loro natura di elfi.
Poi si misero a giocare con la neve, lanciandosela a manciate e cercando di farsi inciampare a vicenda per avere la scusa di abbracciarsi. Davvero sembrava che l’aria crepitante di gelo stesse aspettando qualcosa che si faceva sempre più vicino e forse inevitabile.
Si fermarono senza fiato sotto un salice grigio e spoglio, con i volti arrossati dal freddo e dalle corse, e simultaneamente mossero gli ultimi passi che li separarono.
C’erano l’insicurezza nei loro occhi, il timore, la disillusione che difficilmente sarebbero scomparsi.
Griša le prese le mani tra le sue tremanti e appoggiò il viso sui suoi capelli già neri. Era come se il tempo si fosse fermato per aspettarli. Estel alzò gli occhi verso i suoi, incrociando per un istante la luce della luna che li fece brillare di miriadi di stelle d’argento in uno sfarfallio reso ancora più splendente da un velo di lacrime di gioia.
Finalmente il loro abbraccio si fece meno impaurito, e fu un bacio dubbioso, inquieto e al contempo trepidante ad unirli di nuovo, definitivamente. Un bacio profondo, intimo, e un abbraccio che parve mettere vicini i loro cuori finalmente sinceramente innamorati.
Passarono lenti i minuti più dolci che entrambi potessero ricordare. Il cielo si era rapidamente coperto di nuvole e sul parco iniziò a scendere una lieve, copiosa nevicata, dalla quale però erano riparati sotto l’intrico dei rami del salice. E comunque non se ne sarebbero accorti: tenevano gli occhi chiusi per assaporare al massimo quelle sensazioni nuove e le loro menti erano miglia e miglia lontane, oltre l’infinito, insieme.
Solo quando la luna salì a sovrastare anche gli alberi più alti parvero riaversi e si incamminarono adagio verso casa, tenendosi per mano, le dita solidamente intrecciate e gli occhi negli occhi.
Era troppo bello per essere vero… ma era successo.
Estel e Griša, di nuovo insieme oltre il tramonto di quell’irreale, fiabesco, suggestivo pomeriggio. «Sono le fiabe che hanno sempre un lieto fine» pensarono, abbracciandosi forte «E l’amore… una vita innamorata non è forse la più bella delle fiabe?».
Era il 3 febbraio 1977.


21 ottobre – 12 dicembre 1976
* Erica Apolloni nasce a Zevio (VR) il 17 luglio del 1987, e attualmente risiede a Terranegra di Legnago (VR)

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